Croce e delizia dell’archeologia da strada o da cantiere è quella di rimanere esposti alle intemperie e allo smog in qualunque periodo dell’anno.
E quindi, care amiche – voce Wanna Marchi on – o amici (no, lo schwa non lo uso, non mi sento ancora pronta), proviamo a fare una lista dei complementi di bellezza dei quali proprio non possiamo fare a meno.
Cosa non può mancare nello zaino di un’archeologa da strada per evitare di ritrovarsi con la pelle incartapecorita già a 30 anni?
Andiamo con ordine:
Crema idratante viso: quella serve per forza, anche se invece di essere archeologhe siete bancarie (e siete finite chissà per quale motivo su questo sito. Ah sì ecco, volevate fare le archeologhe da piccole, beccate!). Dicevamo: se non volete arrivare a 40 anni, guardarvi allo specchio e vedere che sul viso avete le stesse fenditure del cretto di Burri o le stesse crepe dello strato di argilla che si secca sotto il sole cocente di mezzogiorno, la crema idratante per il viso è il MUST HAVE, come dicono le beauty blogger brave nelle vesti di Mastrota. Quindi, ecco, regolatevi. In commercio ne esistono di tantissimi tipi, da quelle chimiche a quelle superbio che dentro non hanno niente se non l’acqua, da quelle per i povery come me a quelle ultra costose che dovete vendervi un rene anche solo per sbirciarle in vetrina (Sisley, dico a te, sì proprio a te!).
Crema idratante mani: ditemi che non sono l’unica a gennaio a ritrovarmi con le mani piagate da screpolature che poi si aprono come cozze facendo fuoriuscire sangue che manco nel miglior splatter tarantiniano. Il dramma è che con quelle mani noi ci lavoriamo e impugnare la trowel grondando sangue può rivelarsi un problemino. Dunque: crema idratante come se non ci fosse un domani, profumata, senza profumo, decidete voi, ma non lesinate sulla quantità.
Consigliato da Antonia: Dermovitamina Ragadi Geloni Crema 75 ml, 8,5 euro e vi guarisce da qualunque piaga. Nessuna affiliazione, solo esperienza e amore per il prossimo.
Balsamo labbra (o burro cacao come dicevamo negli anni ’90): questo per me è abbastanza un dramma, nel senso che ancora non sono riuscita a trovare un balsamo labbra che protegga davvero le labbra. Ho sempre la sensazione che dopo aver messo chili di burro cacao le mie labbra diventino più secche. Quindi se avete qualche dritta, segnalatemi qualche prodotto nei commenti. Rimane anche in questo caso l’indispensabilità della protezione di questa parte del viso che spesso rimane l’unica scoperta quando fa freddo (cappello, sciarpa, occhiali, scalda collo, etc etc).
Protezione solare: non mi fate sentire che in estate in cantiere non vi cospargete di protezione solare, sennò vi vengo a prendere e vi ci butto io in una vasca piena di SPF 50. A parte che anche in inverno bisognerebbe usare una protezione solare o quantomeno una crema idratante (vedi supra) con filtro solare, in estate è assolutamente indispensabile proteggere la pelle esposta per 8 ore ai raggi solari. Le migliori provate finora sono quelle a marchio Caudalie, in particolare questa per il viso io la trovo magica. Poi, è a base di vino: cosa volere di più?
Hair care: la polvere, la terra e lo smog spesso trasformano la chioma più fluente in un ammasso di paglia, spenta e secca. E quindi vai di shampoo ogni giorno – soprattutto in estate. Lavare troppo spesso i capelli non fa bene, lo saprete di sicuro, ma anche andare a letto con zolle di terra tra i capelli non è il massimo. E dunque arrivo in vostro soccorso con qualche consiglio utile: prediligete prodotti bio per i capelli (per esperienza posso dire che meno chimica c’è in shampoo e balsamo e più i capelli diventano forti, luminosi e morbidi) e per il lavaggio sperimentate il cowash (qui qualche info e alcuni prodotti utili e naturali), poi una maschera ogni tanto non fa male.
Gel/Mousse detergenti: lo ammetto, sono una maniaca della skin care in genere e della detersione in particolare. Appena torno dal cantiere, la prima cosa che faccio è lavare accuratamente il viso, dove nel frattempo si sono sedimentati gli stessi strati che ho scavato, facendo nascere nuove forme di vita aliena (vedi che alla fine gli alieni c’entrano sempre?!). Scegliete il detergente che si adatta meglio alla vostra pelle (secca, normale, mista, grassa) e usatelo senza paura. Se proprio devo dirla tutta io preferisco i detergenti da farmacia perché sono più delicati e meno aggressivi sulla pelle, però fate vobis. Basta che lo fate.
Extra Bonus: quando fa caldo, state schiumando sotto il sole, odiate tutti e l’Armageddon vi sembra vicino, una spruzzata di acqua termale vi aiuterà a respirare e a odiare un po’ meno questo lavoro.
Se avete altri consigli da elargire, lo spazio per i commenti non manca!
Antonia Falcone
Antonia
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/1280px-Carthage_museum_mosaic_1.jpg8201280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2022-10-13 18:15:562022-10-14 11:09:57La beauty routine dell'archeologa: pochi consigli ma buoni
Avere un amico/fidanzato/parente archeologo non significa solo sorbirsi nell’ordine:
Tutti i documentari e/o podcast di Barbero
Discussioni interminabili sulla periodizzazione dell’Età del Bronzo
Richiami costanti alla perfezione dell’arte classica
Rimproveri saccenti al grido di “Ah se ci fosse ancora il sacro rispetto per il Mos Maiorum”
O farsi trascinare entusiasticamente (per l’archeologo, un po’ meno per voi):
A vedere l’ultima mostra sui frammenti in giacitura terziaria emersi durante lo scavo della fogna in località Ndocazzosto
A visionare le serie tv e/o film di argomento storico con borbottio in sottofondo che corregge ogni singola imperfezione ricostruttiva. Che se il regista fosse presente penserebbe “chi me l’ha fatto fare a me di fare film dopo una gavetta di anni come schiavo nelle peggiori produzioni cinematografiche per dovermi pure accollare le critiche di questo qua”
A scarpinare per chilometri nelle lande desolate del contado alla ricerca di siti archeologici ignoti ai più.
Ecco, come se tutto ciò non bastasse a farvi spuntare l’aureola, l’archeologo è pure esigente in fatto di regali.
E quindi per aiutarvi a non ammazzar…ehm deludere il vostro archeologo del cuore, vi aiuto con una lista di 5 regali che lo faranno felice.
Medeart è il brand di gioelli a tema archeologico e artistico creato da Marilisa Lo Pumo. Marilisa è un’archeologa siciliana e a Leonforte ha un laboratorio nel quale, insieme alla madre, crea gioielli e accessori ispirati e dedicati all’archeologia, all’arte e al mondo dell’antichità. Contemporaneamente, essendo un’archeologa libera professionista, lavora nei cantieri di Archeologia Da Strada.
Medeart qualche giorno fa mi ha inviato due magnifiche creazioni e un codice sconto del 10% per i followers di Professione Archeologo, da utilizzare sullo shop Etsy a questo link: https://www.etsy.com/it/shop/MedeARTarcheofashion
Avrete diritto ad una promozione del 10% su tutti i gioielli presenti sullo shop online, valida per tutto il periodo delle feste (da domani 10 dicembre al 6 gennaio), inserendo, al momento dell’acquisto, il codice sconto:
Sulla pagina fb, accanto al nome, in alto, è attivo il pulsante per contattarla anche su Whatsapp.
La Tabula Peutingeriana
Sì proprio quella, ma stampata su rotolo di tela canvas per rendere il vostro salotto protagonista del Medioevo. È alta 42 cm, lunga 5,70 metri, e la stampa è in alta risoluzione.
Quale medievista non vorrebbe la maglia con su scritto “Il Bere vince sempre contro il Male” oppure “In Omnia Pericula Tasta Testicula”? Quindi se avete un amico o amica che vive di con per su fra tra Barbero e parla solo di pievi, castelli e castellari, nella Bottega di F&L trovate l’idea regalo giusta.
E qui rimaniamo sul classico, praticamente il corrispettivo dell’anello Trilogy per l’archeologo.
Ce ne sono di vario tipo, ma tutte ugualmente indispensabili. E non crediate che all’archeologo basti una sola trowel, sareste degli ingenui. Il vero archeologo ne possiede almeno, e ripeto almeno, tre. Che non si sa mai, dovesse rompersi o finire nel mucchio di terra.
Perché si sa che gli archeologi potrebbero mangiare pane e cipolle a vita, pur di spendere tutti gli incassi delle loro (misere) fatture in libri, cataloghi, repertori.
Qui ve ne ho selezionati alcuni:
Il mio. Archeosocial è il libro che ho curato nel 2018, dedicato ad Archeologia e Social.
Un qualsiasi libro di Barbero. Anche se il titolo che mi incuriosisce di più della sua bibliografia è senza ombra di dubbio questo.
Il Catalogo del nuovo Museo Archeologico di Stabiae oppure quello della mostra sui Marmi Torlonia. Li trovate entrambi qui e qui sul sito di Electa Editore.
Vi saluto con un extra bonus dedicato ai più piccoli.
Se voi genitori archeologi volete traviare la vostra prole e condannarla a un futuro di contratti precari ed escavatori a bordo strada, questo è il regalo giusto:
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_20201215_204014-scaled.jpg19202560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-12-15 21:58:222021-01-03 12:39:33Un Natale da archeologi: 5 idee regalo
Gli archeologi da strada – quelli cioè che di lavoro si occupano prevalentemente di sorveglianze archeologiche – si dividono in due gruppi:
con il portapranzo
senza il portapranzo
Gli archeologi senza portapranzo a loro volta sono classificabili in due sottogruppi:
archeologi da panino, quelli che mettono quotidianamente alla prova la resistenza (o resilienza?) dei propri stomaci a colpi di fette di pane o rosette infarcite di mortazza (mortadella, nda). L’archeologo da panino in genere soffre ciclicamente di gastrite, malessere che attribuisce allo stress da lavoro (e parla con l’architetto, e urla con gli operai, e rispondi all’ennesimo passante che ti chiede “cosa avete trovato?”) e ai caffè, ma che invece cova laddove la dieta è monopolizzata da insaccati e carboidrati. Mangiare un panino al volo, d’altra parte, consente al nostro impavido archeologo di prendere contemporaneamente le misure della trincea, facendo esercizi di equilibrismo con panino, metro e taccuino. Ovviamente questa categoria di archeologo non teme nulla, sa che la vita fa schifo e amen, via andare.
archeologi da tavola calda, quelli che non rinuncerebbero mai a primo e/o secondo, contorno, acqua e caffè, rigorosamente seduti ai tavolini metallici di un baraccio di periferia o ai tavoli, apparecchiati con tovaglie di carta a quadretti, di tavole calde da camionisti (esistono elenchi segretissimi , che girano tra pochi eletti, di luoghi del suburbio romano dove si mangia come da Cracco, ma con porzioni degne della definizione di “piatto di pasta”, chè invece il gourmet “lo damo ar gatto”). Alla base di questa scelta alimentare più equilibrata c’è di certo la considerazione, inconscia o rivendicata, che già la vita da archeologi è brutta assai, almeno in pausa pranzo salviamo la dignità. O anche la segreta speranza di fare amicizia con i vicini di tavolo (che non si sa mai, tra una chiacchiera e l’altra viene fuori che stanno cercando un aiuto camionista da assumere a tempo indeterminato e taaac curriculum vitae)
NdA: come ci piace a noi archeologi categorizzare tutto
Io appartengo decisamente alla prima categoria, l’archeologa cum portapranzo, vale a dire che se esco di casa la mattina presto senza la borsetta termica munita di cibaria, bottiglietta dell’olio, mini taglia di sale, posate e tovaglioli, mi sento ignuda. Un po’ come se uscissi senza scarpe antinfortunistiche.
La schiscetta – da qui in poi archeoschiscetta – dunque per me è compagna insostituibile delle fugaci pause pranzo a bordo strada, in macchina o sulle panchine dei giardini pubblici.
La sua utilità risiede in molteplici aspetti:
permette di risparmiare soldi
consente una variatio maggiore nel menu settimanale
permette di non buttare gli avanzi della cena della sera prima
ti consente di spendere i soldi – gli stessi risparmiati sopra – da Tiger o Dmail in contenitori multicolor, multimaterial, multiunicorni, senza alcun senso di colpa. Tanto è per lavoro.
MA.
C’è sempre un MA.
Ci sono una serie di fattori, per così dire deterrenti, che potrebbero remare contro. Li esaminiamo uno alla volta.
LA PIGRIZIA
Pranzare con l’archeoschiscetta vuol dire prepararla la sera prima, in altre parole essere previdenti. E lo sappiamo tutti che l’archeologo è per definizione un procrastinatore di professione: ne consegue che chiedere ad un archeologo di prepararsi il pranzo quasi 24h prima è volergli un po’ male, tipo Marco Giunio Bruto con Cesare.
Ma l’archeologo ha anche delle qualità e tra queste spicca il suo essere particolarmente adattivo in situazioni di stress: ecco quindi che il nostro prode eroe – ed eroina – risolve la questione “pigrizia” preparando chilate di riso/farro/orzo che possano bastare per una settimana, da condire di giorno in giorno con il contenuto di conserve comprate al supermercato a pacchi o – per i più fortunati – mandate con il pacco da giù.
E il pranzo è servito (cit.)
LA LOCATION
Benchè il cinema e i romanzi d’avventura ci abbiano convinti che un archeologo DEVE per forza girare con una Range Rover super accessoriata e con le gomme infangate, la realtà è un tantino diversa.
Se si facesse uno studio statistico sull’automobile posseduta in prevalenza dagli archeologi sono certa che la risposta sarebbe una sola:
Pandino. Do you know?
Ma non tutti gli archeologi sono automuniti, io per prima quando ho iniziato a fare questo lavoro mi spostavo a Roma con i mezzi pubblici (poi un giorno vi racconterò di quando l’autobus mi ha lasciata da sola alle 7 di mattina nel campo rom Casilino 900, in attesa degli operai che non sono mai arrivati).
Quando non hai la macchina, girare in autobus o metro con tutta l’attrezzatura da archeologo (tra cui palina, casco, zaino) a cui aggiungere il portapranzo diventa davvero proibitivo.
Superare questo ostacolo logistico è impensabile anche per l’archeologo più creativo.
(E no, andare in cantiere con lo zaino che hai usato nell’interrail del 1995 non è LA soluzione.)
LA FANTASIA
Se il menu a base di panino è monotematico e il menu della tavola calda non lo decidiamo noi, nel caso dell’archeoschiscetta il discorso si fa più complesso e ci interroga sul nostro reale livello di “cheffitudine” (al di là delle millemila edizioni di Masterchef che abbiamo messo in sottofondo mentre finivamo la documentazione del giorno) che dividerei in tre categorie.
Lo zozzone ovvero Rubio Chef
L’importanza del menu non sta nella variabilità degli ingredienti, ma nel saper prontamente amalgamare il tutto annegandolo nella maionese o nell’olio. Con questo approccio alla cucina, ovviamente non importa cosa mettiamo nell’archeoschiscetta, tanto sarà impossibile distinguere i sapori.
2. Il salutista ovvero Germidi Soia Chef
Stiamo tutto il giorno nel traffico, nello smog, sporchi di polvere dispersi tra i rumori della città: almeno il pranzo facciamolo sano (anche per contrastare la gastrite di cui sopra), così poi ci sentiamo meno in colpa a sfondarci di birra durante l’aperitivo. E dunque via libera a pranzi crudi e sconditi: la varietà del menu dipende da verdura e frutta di stagione (not my fault).
3. Il tutorialista ovvero Fatto in casa da Benedetta Chef
L’archeologo che non si vuole arrendere, che non vuole accettare una vita di riso freddo e pasta al pesto.
E quindi si impegna al massimo, come in tutto quello che fa.
L’archeologo sa infatti che per acquisire skills bisogna prima di tutto studiare: dunque passa in libreria a fare incetta di libri di cucina, si iscrive ai più popolari canali youtube e vai di cucina sperimentale.
Che al confronto dell’archeologia sperimentale è comunque una passeggiata, pensa ingenuamente il nostro archeologo, prima di ritrovarsi a postare il piatto del giorno – bruciato e stomachevole – sul gruppo facebook Cucinare Male.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/1605807665288.jpg8101080Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-11-19 18:49:352020-11-20 13:10:08Archeoschiscetta, lo street food dell'archeologo
Che i più maliziosi leggeranno F**K e che, invece, è più semplicemente l’acronimo di Frequently Asked Questions, cioè le tante domande che periodicamente mi vengono rivolte a proposito di archeologia e archeologi.
In particolare, se molti aspiranti giovani archeologi mi contattano in DM su Instagram per chiedermi le cose più svariate attinenti la nostra professione, capita che tra i commenti di Facebook o tra i messaggi privati, le richieste di chiarimenti mi siano rivolte da semplici appassionati e curiosi.
È per questo motivo che ho pensato di inaugurare una nuova rubrica, dedicata proprio alle vostre FAQ.
COME SI DIVENTA ARCHEOLOGI?
Iniziamo da un grande classico: qual è il cursus honorum al termine del quale possiamo definirci archeologi a tutti gli effetti?
Consul, praetor, aedilis, quaestor, tribunus plebis, tribunus militum…
Ehm non questo.
Laurea triennale, laurea magistrale, specializzazione, dottorato, post dottorato.
Da un punto di vista strettamente formativo, la carriera di un archeologo comporta diversi anni di studio che possono culminare in uno (o più) assegni di ricerca, genericamente afferenti al titolo di post-doc. L’eventualità di passare svariati anni in giro per il mondo a procacciarsi borse di studio in prestigiosi enti di ricerca, attiene alla carriera di “ricercatore” che molti archeologi intraprendono.
Ma se non tutti gli archeologi sono ricercatori, tutti i ricercatori in discipline archeologiche sono sicuramente archeologi.
Sono infatti diversi gli ambiti professionali in cui può operare un archeologo e quindi diverse le carriere (ma di questo ci occuperemo in un’altra delle nostre FAQ).
In ogni caso, a rigor di legge, si può definire archeologo chi ha:
Laurea triennale in discipline archeologiche, Classe 13 ordinamento DM 509/99 o classe L1 D.M. 270/04 con indirizzo archeologico con un numero di crediti minimi nelle discipline storico-archeologiche corrispondenti a 60 CFU, più almeno 12 mesi, anche non continuativi, di documentata esperienza professionale, nell’ambito delle attività caratterizzanti il profilo.
Questa la definizione di Archeologo di Terza Fascia, secondo la normativa sancita dal Decreto Ministeriale 244/2019 in attuazione dell’articolo 9bis del D. lgs. 42/2004 (Codice del Beni Culturali) così come modificato dalla L. 110/2014.
Detta in modo semplice: gli interventi sui beni archeologici sono affidati alla responsabilità e all’attuazione di archeologi, come definiti sopra.
Senza triennale e 12 mesi di esperienza professionale non si potrebbe lavorare come archeologi.
La legge ha individuato N. 3 fasce di archeologi, con mansioni e responsabilità diverse e progressive, che potete consultare qui.
Ne consegue che più si studia maggiori sono le responsabilità così come le possibilità lavorative: per esempio soltanto gli archeologi con specializzazione o dottorato sono abilitati alla redazione del documento di valutazione archeologica nel progetto preliminare di opera pubblica (VIARCH).
A questo proposito vi segnalo che il portale http://www.archeologiapreventiva.beniculturali.it/ – dove era possibile iscriversi come operatori abilitati – è in dismissione come recita l’annuncio in homepage
“Il portale non verrà più aggiornato e sarà progressivamente dismesso. Tutti gli archeologi interessati, anche se già iscritti, devono effettuare una nuova registrazione e l’invio della domanda di iscrizione sul portale “professionisti dei beni culturali”. I committenti e le stazioni appaltanti interessati a verificare nominativi e qualifiche degli archeologi ai sensi della del D.Lgs. 163/2006-D.Lgs. 50/2016 art. 25/ sono pregati di fare riferimento al portale “professionisti dei beni culturali”; non verranno infatti effettuate nuove iscrizioni per la consultazione. Si ricorda che la iscrizione agli elenchi non è obbligatoria né può venire richiesta come tale; al contrario, per esercitare le attività previste dal DM. 244/2019 e da tutte le normative da esso recepite, è sufficiente il possesso dei requisiti, che possono venire autonomamente presentati al committente dal professionista”.
E quindi?
Come si diventa archeologi? Si prende una laurea e si fa esperienza (per iniziare).
Non basta dunque aver scavato nel giardino di casa della nonna per piantare un cactus né aver letto tre-libri-tre su “archeologia, misteri, alieni e cose assurde che però fanno vendere copie e fare soldi” (no, la categoria – purtroppo – non la trovate proprio scritta così sugli scaffali delle librerie) per potersi definire archeologi e tanto meno per poter intervenire sui beni archeologici.
Quello dell’archeologo è un lavoro serio, fatto di competenze molteplici e diversificate acquisite in anni di studio ed esperienza sui cantieri didattici e/o nei laboratori universitari.
E se anche a voi è capitato di dover rispondere all’obiezione del – fastidiosissimo – passante di turno “eh, ma tanto voi state in cantiere SOLO a guardare la ruspa”, sciorinategli tutta la lista degli imperatori romani (soprattutto quelli del Basso Impero) o tutte le facies della ceramica dell’età del bronzo con i dettagli morfologici delle forme ceramiche decorate a impressione o i diversi centri di produzione dell’invetriata medievale, chiedendogli cosa ne pensa del nuovo metodo di datazione della ceramica messo a punto dall’Università di Bristol che utilizza le più recenti tecnologie di spettroscopia, di risonanza magnetica nucleare ad alta risoluzione e di spettrometria di massa per isolare gli acidi grassi.
La sua faccia sarà questa
E il vostro compiacimento impagabile.
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/pokes-fun-at-1164459_1280.jpg8531280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-09-09 15:04:162020-09-09 15:46:22FAQ ARCHAEOLOGY: come si diventa archeologi?
Dal 9 marzo l’Italia è entrata in lockdown e la Fase Due è iniziata solo da pochissimo.
Non so quanti di voi hanno già ripreso a lavorare, io non sono tra questi e non ho idea di quanto tempo ancora dovrà passare prima di tornare in cantiere. Per ora cerco di sopravvivere tra ansie, refresh sul sito dell’Inps e ricerca spasmodica di notizie sull’emissione del bonus di aprile.
E mi ritengo comunque fortunata perché immagino che prima o poi la nostra presenza sarà richiesta sui cantieri di opere pubbliche, considerati servizi essenziali per la collettività. A differenza di molti colleghi che, dopo la laurea in archeologia, hanno abbandonato cocci, trowel e matrix per cogliere le opportunità offerte dal turismo e che oggi non sanno cosa sarà del loro futuro. Sono tantissimi infatti gli archeologi che negli ultimi anni hanno lavorato prevalentemente come guide turistiche e che oggi sono fermi in attesa di tempi migliori (o di reinventarsi una vita).
Ma non sono qui per angosciarvi con lamentationes varie ed eventuali, a far salire il picco d’ansia bastano le splendide giornate che si alternano fuori dalla finestra o le notizie che leggiamo tutti i giorni online.
Voglio piuttosto raccontavi quello che avrei voluto fare in questo mese di quarantena e quello che invece ho fatto.
Preparatevi a uno scontro epico aspettative vs realtà.
Non negate, anche voi avete terabyte di documentazioni di cantieri che risalgono più o meno al Pleistocene, perché “non si sa mai che possa servirmi quella foto fatta a una trincea completamente sterile nel cantiere di Pizzo Sperduto nel lontano 1977 a.C.”.
E quindi: quale occasione migliore di una quarantena forzata per sistemare una volta per tutte file, cartelle, foto e archiviarle con un criterio cronologico – geografico – tipologico?
Che poi alla fin fine, ad essere realisti, ci potrebbero volere giusto un paio di giornate per far uscire dal caos primordiale quella cartella DOCUMENTAZIONI che giace esangue sul desktop e dalla cui vista ritraiamo terrorizzati lo sguardo.
REALTÀ
Cartella, quale cartella?
Giuro che ci ho provato. Mi sono armata di buona volontà, ho fatto una lista delle cose da fare, del criterio da utilizzare, e poi…
…ho preso la cartella, l’ho copiata sull’hard disk (per mettere a tacere la coscienza) e mi sono dedicata alla lettura di un interessantissimo articolo su “Perché il magico potere del riordino con gli archeologi non funziona”.
Sarà per la prossima pandemia.
Saranno passati forse due anni dal leggendario giorno in cui ho detto (e anche scritto sui social): “ho un’idea rivoluzionaria per un libro, ma – mannaggia mannaggetta – non trovo mai il tempo per sedermi alla scrivania per più di un’ora al giorno e dare libero sfogo alla mia inesauribile vena creativa. Ecco, avrei giusto bisogno di un mese senza impegni e senza preoccupazioni lavorative per dare finalmente alle stampe il nuovo Premio Pulitzer dell’archeologia”.
Quale momento migliore, per la miseria, di quasi due mesi di lockdown per scrivere QUEL libro?
Voglio dire: non sto lavorando, le giornate non passano mai, non posso andare in giro, i week end sono tutti uguali.
Non capiterà mai più un momento più propizio di questo.
E invece…
REALTÀ
Inizio domani.
Prometto.
Ok. Non ho messo in ordine la documentazione. Non ho scritto il libro.
Ma sicuramente il tempo e il modo per aggiornarmi sulle questioni lavorative lo troverò.
Ho la cartella “Elementi salvati” su Facebook piena di link a:
Corsi
Webinar
Manuali
Durante i mesi lavorativi è praticamente impossibile mettersi a studiare o a seguire corsi dopo 8 ore di cantiere e con la sveglia all’alba, e poi i week end sono spesso dedicati a scrivere le documentazioni o, banalmente, ad avere una vita oltre l’archeologia.
Quindi alla fine i link ai corsi e ai libri da leggere si accumulano, creando una condizione perenne di frustrazione per non riuscire mai a incrementare le già molteplici competenze che abbiamo.
In questi giorni di lockdown credo di aver messo millemilamilioni di “parteciperò” a dirette e webinar sui social, con l’ottimismo della volontà di chi ci crede fino in fondo.
REALTÀ
Sì va bene tutto, ma mi dite voi COME FACCIO A NON VEDERE L’ULTIMA SERIE NETFLIX della quale tutti parlano sui social?
Cioè anche io ho il diritto, peraltro chiaramente sancito dalla Costituzione, di commentare e litigare con chiunque su Facebook, soprattutto con la mia migliore amica che, dopo averle messo l’emoji arrabbiata, non mi guarderà più in faccia per la prossima decade.
Tutto questo post per dire che neanche una pandemia mondiale può arrestare quel tratto distintivo dell’archeologo medio che si chiama “procrastinazione”.
Se invece voi siete persone migliori di così, scrivetemi nei commenti cosa siete riusciti a combinare durante questo lockdown!
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/miniature-figure-1745753_1280-1.jpg7681280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-05-04 16:36:162020-05-14 11:00:27Archeologi in lockdown: aspettative vs realtà
Un viaggio in Grecia è
il grande sogno di ogni archeologo per ripercorrere le tracce che nel corso dei
secoli hanno portato alla nascita e sviluppo della democrazia ateniese, della
ceramografia attica, della statuaria cicladica, dell’architettura templare e
delle arti “minori”.
Non è un caso che anche la sottoscritta abbia deciso di voler fare l’archeologa da grande proprio sull’Acropoli di Atene: era il 1989, avevo 9 anni appena compiuti e i miei genitori mi portarono in viaggio in Grecia. Al cospetto dell’immensità del Partenone la mia domanda fu “chi scopre questi templi?” e alla risposta di mio padre “gli archeologi”, esclamai “da grande allora voglio fare l’archeologa!”
Tanta acqua è passata
sotto i ponti, oggi sono un’archeologa, non faccio esattamente quello che avevo
sognato da bambina (scoprire antiche civiltà o città sepolte), ma il fascino –
e anche la soggezione – che esercita l’antica Grecia è rimasto immutato.
E così, dopo
esattamente 30 anni dalla mia prima e ultima visita in Grecia, la scorsa estate
sono tornata ad Atene, superando finalmente quel blocco psicologico che mi
aveva tenuta lontana dal luogo dove ho deciso quale sarebbe stato il mio
destino.
In questo breve post vi riassumo il mio giro archeologico nella capitale greca suddiviso in tre giorni e alla fine vi chiederò qualche consiglio sui luoghi imperdibili della Grecia continentale!
Programmare il viaggio
Raggiungere Atene è comodissimo e anche economico: sono diverse le compagnie lowcost che atterrano nella capitale greca (l’aeroporto Eleftherios Venizelos si trova a circa 30 km dalla città) e prenotando il volo con un certo anticipo potrete risparmiare un bel po’. La Grecia è la meta ideale per chi ha un budget medio-basso da spendere per le vacanze.
Ad Atene ci si sposta
poi con estrema facilità, c’è un sistema di mezzi pubblici ben organizzato, in
particolare la metro funziona in modo efficiente: il biglietto vale un’ora e
mezza e consente di spostarsi anche con filobus e autobus.
Se invece decidete di uscire da Atene e continuare il vostro viaggio nella Grecia continentale, magari verso Delfi o il Peloponneso, la soluzione migliore è noleggiare un’auto. Quello che serve è la patente di guida in corso di validità e avere almeno 21 anni.
Primo giorno
Atterrati all’aeroporto
potrete facilmente raggiungere il centro di Atene con la metro (più veloce)
oppure con un autobus (servizio attivo 24h su 24h): a questo punto può iniziare
il tour archeologico della città di Pericle.
Il primo giorno può essere dedicato alla conoscenza topografica della città: vi consiglio quindi di munirvi di acqua, scarpe comode, snack e avventurarvi tra le strade del centro città.
Di Atene mi ha colpito
molto un aspetto: non è una città monolitica, ma si compone di tante città in
una sola città. Ogni quartiere ha una sua specificità che lo rende diverso
anche da quello più prossimo e proprio per poter assaporare questa
frammentarietà la soluzione migliore è camminare (con una buona guida sotto il
naso) e perdersi tra vicoli, strade trafficatissime e scorci improvvisi
sull’Acropoli.
Il punto di partenza ideale per un archeotrekking ateniese è la stazione della metropolitana Akropoli: già all’interno della stazione avrete un assaggio dell’archeologia che permea tutta la città, infatti ci sono vetrine che espongono i reperti ritrovati durante la costruzione della metro.
Potete quindi trascorrere la mattinata nel quartiere prospiciente il Nuovo Museo dell’Acropoli, fiancheggiando lo spettacolare Teatro di Dioniso, la Stoà di Eumene, riempiendovi gli occhi della bellezza dell’Odeon di Erode Attico, proseguendo poi verso l’Agorà Romana e la Biblioteca di Adriano, affacciandovi sulla Torre dei Venti e tornando poi nel quartiere Plaka (che io ho trovato troppo turistico, ma che comunque merita una visita).
A questo punto ci sta
bene una pausa pranzo per riposare un po’ prima di ascendere al Licabetto, dove
vi conviene arrivare all’ora del tramonto per godere di una delle viste più
belle e suggestive di Atene.
Nel tragitto verso il Λυκαβηττός, “collina dei lupi”, che secondo la mitologia greca sarebbe stato creato dalla dea Atena e il cui nome deriva dalla presenza in antico dei lupi, potete fare una deviazione verso l’Olympieion che svetta con le sue colonne e poi fermarvi al Museo Numismatico, ospitato nella residenza di Heinrich Schliemann!
Museo Numismatico di Atene
Ormai stanchi e provati dalla fatica di essere archeologi in una città archeologica vi aspetta l’ultimo sforzo della giornata: la salita alla collina più alta di Atene, attraversando uno dei quartieri più alla moda della capitale greca, Kolonaki. Rimarrete stupiti dalle splendide architetture degli edifici privati e pubblici, dai caffè e dalle gallerie d’arte che punteggiano il quartiere.
Ora siete pronti a godervi il tramonto: potete raggiungere la vetta del Licabetto con la funicolare o a piedi (dipende dall’acido lattico che avete accumulato durante la giornata!). Se avete programmato il vostro viaggio ad agosto aspettatevi una ressa indicibile di turisti, accalcati per vedere il sole che tramonta su Atene, ma nonostante la confusione la vista dell’Acropoli che si illumina man mano che scende il sole vi rimarrà nel cuore.
Atene dal Licabetto (Ph. Antonia Falcone)
Secondo Giorno
La seconda giornata di questo archeotour ateniese va tutto dedicato all’Acropoli e al suo museo. In estate è da veri eroi affrontare il pianoro che ospita il Partenone, non soltanto per il caldo greco, ma soprattutto per la marea umana di turisti che incontrerete. Il consiglio è quello di recarsi sull’Acropoli al mattino, poco dopo l’apertura delle 8, solo così potrete godervi tutta la monumentalità del luogo simbolo di Atene.
Il momento più emozionante per me è stato quando ho attraversato i Propilei: mi è sembrato davvero di passare in una porta spazio temporale che mi ha trasportata direttamente nell’Atene di Pericle.
Sul pianoro spicca in tutta la sua maestosità il Partenone, ancora in restauro, e passeggiando sotto l’afa agostana sembra quasi di immaginare il vociare degli ateniesi di V secolo a.C. che dovevano aggirarsi quassù.
Il Partenone (Ph. Antonia Falcone)
Poi è tutto un susseguirsi di marmi e colonne: l’Eretteo, il tempietto di Atena Nike, il santuario di Artemide Brauronia e così via, con in testa sempre l’immagine (e la canzoncina) di Pollon.
Per non perdere la connessione con il luogo più sacro dell’antica Grecia, conviene dedicare il pomeriggio alla visita del Nuovo Museo dell’Acropoli, un luogo stupefacente, inaugurato nel 2009.
Il Museo, progettato dall’architetto
svizzero Bernard Tschumi in collaborazione con Michalis Fotiadis, è
forse il più bel museo archeologico che mi è capitato di visitare finora. Nasce
in sostituzione del precedente museo situato proprio sul pianoro, per
conservare ed esporre tutti i reperti rinvenuti sull’Acropoli.
Il museo si sviluppa su tre piani: quello inferiore è dedicato ai rinvenimenti archeologici effettuati sulle pendici; il primo piano offre un excursus cronologico dell’arte greca con un’intera ala dedicata alla statuaria di età arcaica (ATTENZIONE: qui è vietato fare foto) e infine il terzo piano, orientato diversamente rispetto agli altri perché segue l’orientamento reale del Partenone, ospita metope, frontone e fregio del tempio di Atena. Ovviamente parliamo dei pezzi rimasti in Grecia, mentre di quelli conservati al British Museum sono presenti dei calchi.
Il Nuovo Museo dell’Acropoli (Ph. Antonia Falcone)
L’idea sottesa a quest’ultimo piano è di riposizionare in uno spazio specularmente uguale al Partenone, la sua decorazione scultorea.
Segnalo inoltre che nel
piano interrato sono stati musealizzati i resti delle strutture antiche venute
fuori durante i lavori di costruzione del nuovo edificio.
Infine due consigli:
Non perdetevi la ricostruzione dell’Acropoli fatta con i LEGO e dedicate un po’ del vostro tempo a osservare la riproduzione perfetta dei monumenti e a riconoscere personaggi e storie rappresentati
Affacciatevi alla terrazza del bar del museo per avere una vista magnifica dell’Acropoli e poi sbirciate le tovagliette sui tavoli
Terzo giorno
Se ancora non siete stufi di tutta questa archeologia e non volete correre a rifugiarvi su un’isola greca lontani da statue, ceramica e templi, allora il terzo giorno lo potete dedicare al Museo Archeologico Nazionale, ubicato un po’ fuori dal centro città, subito a nord del quartiere Exarchia. Potete decidere di raggiungere il museo in due modi: in metro (scendendo alla fermata Omonia) oppure a piedi dalla fermata Monastiraki. Nel primo caso potete godervi un quartiere pittoresco come Omonia passeggiando tra strade affollate, negozietti veramente greci (che poco concedono al turismo) con un pit stop a Exarchia tra i suoi murales e le tantissime librerie disseminate nel quartiere.
Se invece decidete di fare trekking urbano da Monastiraki al museo potrete approfittarne per fare un giro nel quartiere di Psiri, con i suoi locali e negozi modaioli.
In qualunque modo
deciderete di arrivarci, la tappa al Museo Archeologico vi trasporterà
direttamente dentro il Becatti, cioè il manuale di storia dell’arte greca che
molti di noi hanno studiato per preparare l’esame.
Dal minimalismo dell’arte cicladica ai tesori micenei (basta citare la maschera di Agamennone, la coppa di Nestore e gli ori delle tombe reali), fino ad arrivare al maestoso Vaso del Dipylon di età geometrica (visto dal vivo è enorme!).
I capolavori continuano poi con l’arte di età classica: come rimanere indifferenti di fronte al maestoso equilibrio compositivo del Cronide di Capo Artemisio o all’eleganza dell’Efebo di Anticitera?
Museo Archeologico Nazionale di Atene (Ph. Antonia Falcone)
Il Museo Archeologico è lo scrigno che custodisce tutta la storia di questa straordinaria civiltà, raccontando una grandezza che non è solo patrimonio greco, ma patrimonio di tutta l’umanità.
Terminato l’archeotour
di tre giorni ad Atene, noi poi abbiamo scelto di trascorrere i restanti giorni
di vacanza in un’isola greca isolata dal resto del mondo per goderci lo
splendido mare delle Cicladi, ma per i forzati dell’archeologia un viaggio in
Grecia può continuare da Atene verso Sud o verso Nord alla scoperta di altri
siti che hanno fatto la storia della civiltà.
Quali sono secondo voi i siti imperdibili da visitare in un on the road per le strade greche?
Scrivetemelo nei commenti e chissà che anche questa estate io non decida di andare nuovamente alla scoperta dell’Ελλάδα.
Antonia Falcone
(@archeoantonia)
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_6368-1-scaled.jpg17072560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-02-20 09:49:132020-05-14 11:04:48Tre giorni di archeologia ad Atene: cosa vedere
Nasiriyah alle 5 del mattino è una città brulicante di vita: è buio tutto intorno, le luci dell’alba stentano a squarciare il tappeto di nero e stelle e l’afa ancora non toglie il respiro come sarà tra qualche ora. Eppure la sveglia è suonata già da un po’ per gli abitanti della capitale del governatorato del Dhi Qar e il muezzin ha ormai fatto sentire il suo richiamo nella notte prossima a svanire.
Anche noi siamo in piedi da un’ora e con gli occhi incollati di sonno abbiamo fatto già colazione, preparato le borse per lo scavo e caricato tutto sul furgoncino Iveco che tra poco ci lascerà sul tell di Abu Tbeirah.
Ma prima di arrivare a destinazione resta il tempo per riempirsi gli occhi di frammenti di vita medio orientale: la frenesia di macchine, taxi, motociclette che sfrecciano per le strade della periferia, uomini in dishdasha e kefiah che fanno l’autostop lungo le strade che attraversiamo, donne avvolte dall’abaya che si incamminano a piedi verso il mercato, negozi aperti e illuminati da luci al neon con la mercanzia accatastata fuori, officine meccaniche in piena operatività, venditori ambulanti che sciacquano il pesce a bordo strada ed espongono la frutta sulle bancarelle, i primi avventori che curiosano e girovagano tra la merce, e gli immancabili camion che formano file interminabili già al mattino presto nei pressi dei check point.
Io a Nasiriyah
Prima di arrivare sul tell, oltrepassiamo infatti diversi posti di controllo (i check point appunto) non senza aver mostrato i passaporti e atteso a bordo strada il lasciapassare. Non dobbiamo dimenticare che l’Iraq è un Paese che pian piano sta risalendo da una china durata decenni di guerre e che la sicurezza rimane ancora un tema prioritario.
Dopo una breve sosta per caricare l’acqua da bere indispensabile per la sopravvivenza durante la giornata di scavo nel deserto, siamo pronti per saltare giù dal furgone e atterrare sulle croste di sale.
Quando si cammina sul tell di Abu Tbeirah si vive questo curioso fenomeno che potremmo *scientificamente* definire “crunch crunch”: si cammina cioè su una sottilissima crosta di sale che, pestata dagli scarponi, scricchiola, rivelando al di sotto lo strato di sabbia e argilla sul quale si è depositata.
Avete presente quando Indiana Jones e Willie camminano nella stanza degli insetti facendo appunto crunch crunch con i piedi?
Beh il suono è quello là.
E la presenza del sale non solo si vede in superficie ma anche sotto: fa una certa impressione per esempio trovarsi in mano frammenti di ceramica completamente ricoperti da cristalli di sale oppure intercettare sale solidificato nell’interfaccia tra gli strati archeologici.
Si tratta cioè del fenomeno post deposizionale detto di salinizzazione, ben spiegato da Licia Romano:
The salt crystals infiltrate the soil and then “burrow” towards the surface through the empty spaces generated by differences in consistency. For example, the maximum concentration of salt crystals is usually found on the vase/shard surfaces (both external and internal in entire vessels) and inside bones. In particular, bones and pottery shards (especially those coming from the surface) are flaked apart due to the accumulation and expansion of salt crystals. In combination with the continuous passing of wheeled and heavy vehicles on the Tell in the years preceding the beginning of the excavation, salt accumulation caused a peculiar phenomenon: the compression realized by vehicles also affected the underlying layers, causing post depositional accumulation and creating white parallel sub-traces that can continue for at least on meter under the original surface. The accumulation of salt between different strata is however a good indicator for understanding the stratigraphy: the extreme difficulty in discerning clay strata one from the other is sometimes mitigated by the accumulation of salt at the interface of the units of stratigraphy (US)
(Licia Romano, Abu Tbeirah and Area 1 in the Second Half of the 3rd Mill. b.C., in Abu Tbeirah Excavations I. Area 1. Last Phase and Building A – Phase 1.)
Potete quindi ben immaginare la difficoltà di uno scavo stratigrafico in presenza di fenomeni post deposizionali così marcati e ancora di più la complessità nello scavo e rimozione delle sepolture, quando le ossa risultato “incastrate” tra cristalli di sale.
Il primo insegnamento appreso qui è dunque “La strada dello scavo stratigrafico è lastricata di sale”.
E mentre nel cielo di fronte a noi si fronteggiano, sfidandosi cromaticamente, la bianca luna calante e il sole che infuocato inizia ad alzarsi sulla linea dell’orizzonte, si palesa il secondo grande insegnamento per un archeologo che scava ad Abu Tbeirah “Qui una volta era tutta argilla. E anche adesso”.
Il che banalmente vuol dire che gli antichi abitanti di quella che doveva essere una città di una certa importanza nel Sud della Mesopotamia, dotata anche di un porto sull’Eufrate, facevano tutto con l’argilla:
E indovinate gli strati di obliterazione che matrice hanno? Ovviamente argillosa!
Oppure quando la fortuna è dalla nostra parte, la matrice è argillo-limosa.
Lasciate ogni speranza o voi che entrate, direbbe il Sommo Poeta.
E invece il segreto è armarsi di tanta pazienza, sgrattare ben bene gli strati (pulizia archeologica, remember?) e farsi coadiuvare attivamente dagli operai iracheni, che si rivelano una risorsa preziosissima in queste circostanze, abituati come sono a scavare stratigrafie di mattoni crudi.
Tra schede US, stazione totale, scavo a mano, schede oggetti, le giornate trascorrono abbastanza rapidamente in cantiere, nonostante il caldo e la fatica.
I primi giorni di scavo di questa campagna 2019 si sono concentrati a inizio ottobre quando le temperature toccano ancora i 45°: l’afa rende faticoso muoversi e quindi idratarsi costantemente è l’unico modo per evitare colpi di calore. L’altro segreto è fasciarsi integralmente il volto, lasciando scoperti solo gli occhi: che sia con una sciarpa, una fascia, un foulard o la più araba kefiah, coprire del tutto il viso aiuta a proteggersi tanto dal sole quanto dal vento che ogni tanto si alza nel deserto e schiaffeggia la pelle con i suoi minuscoli granelli di sabbia.
Questi 15 giorni ad Abu Tbeirah, la mia prima campagna di scavo in Medio Oriente, sono infine trascorsi.
Velocemente, pieni di emozioni, ricchi di parole, riempiti da immagini.
Eppure se penso al mio arrivo in Iraq l’anno scorso rivivo la sensazione di spaesamento dovuta allo shock culturale che mi ha investita in pieno: un confronto brutale con paesaggi diversi, abitudini diverse, stile di vita diverso.
Addio comfort zone!
Ed è proprio nel buttarsi alle spalle quelle certezze stratificate da abitudini di vita consolidate negli anni, volgendo invece lo sguardo oltre un limite immaginario, che si scopre la bellezza e la varietà del mondo.
Ad Abu Tbeirah l’anno scorso avevo lasciato un pezzo di cuore come blogger, quest’anno ne ho lasciato un altro come archeologa.
Nel frattempo aspetto l’anno venturo.
Antonia Falcone
Le puntate del Diario dall’Iraq 2018 le trovate QUI, QUI, QUI e QUI
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_7118.jpg23043456Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2019-10-28 15:28:382020-05-14 11:20:00Diario dall’Iraq. Ritorno ad Abu Tbeirah
3.36 minuti per raccontare anche ai più piccoli il patrimonio archeologico della Georgia e scoprire questa splendida terra “con gli occhi della storia”. Si apre con Jack e la sua trowel “The eyes of history”, il nuovissimo corto animato prodotto da Mirko Furlanetto, creatore e papà della serie a fumetti Jack e Matrix archeologi della quale vi abbiamo parlato qui e qui.
Il progetto è nato dalla collaborazione tra l’Università Ca’ Foscari, che in Georgia dirige da anni diverse missioni archeologiche, il Museo Nazionale Georgiano e la Municipalità di Lagodekhi, con il sostegno dell’Ambasciata Italiana a Tiblisi e reso possibile grazie ai finanziamenti del Ministero degli Affari Esteri.
La realizzazione del corto si deve ad uno studio d’animazione georgiano, su storyboard dello stesso Mirko e di Laura De Stefani, disegnatrice delle precedenti avventure a fumetti, un esempio di cooperazione tra Paesi uniti da un solido legame di amicizia sotto il vessillo dell’archeologia.
Obiettivo principale dell’iniziativa congiunta italo-georgiana è quello di fare didattica, divertendo e coinvolgendo i bambini georgiani nella riscoperta del proprio patrimonio archeologico e delle proprie radici così da far conoscere loro l’apporto che la missione italiana dal 2009 dà alla valorizzazione e tutela di diversi siti georgiani.
L’Università Ca’ Foscari infatti ha scavato prima nella provincia centrale di Shida Kartli; mentre dal 2018 si è spostata presso il confine orientale del paese, nella Municipalità di Lagodekhi, investigando tre insediamenti (Natsargora, Aradetis Orgora e Tsiteli Gorebi) e tre necropoli (Okherakhevi, Natsargora e Aradetis Orgora), su un orizzonte cronologico che va dal V millennio al tardo I millennio a.C.
E proprio ieri il team è partito nuovamente per la Georgia per una campagna di scavo che andrà avanti fino a fine luglio.
Il cartone animato parte da una scoperta per parlare anche di metodologia archeologica, fin dai primi frame: “Ricorda Matrix, è fondamentale recuperare e documentare tutte le informazioni necessarie per ricostruire il sito archeologico” e ci porta a scoprire i diversi siti archeologici nei quali scavano fianco a fianco ricercatori italiani e ricercatori georgiani, come succede in tante altre missioni all’estero degli istituti di ricerca italiani.
Dallo scavo poi la scena si sposta al Museo Nazionale della Georgia dove le parole del Direttore David Lordkipanidze risuonano chiare tra le vetrine delle sale “Il lavoro dell’archeologo è importante per ricostruire la storia non solo della nostra nazione ma del mondo intero”.
Un monito per ricordare a tutti che l’archeologia unisce i popoli al di là delle frontiere.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/Foto1_Cover.jpg7331107Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2019-06-17 10:14:392019-06-15 16:19:19Jack e Matrix: un corto animato per raccontare la Georgia
Oggi parliamo di un tema scottante, uno di quegli argomenti che accomuna gli archeologi dell’intero orbe terracqueo e che li pone tutti (stranamente) dalla stessa parte della barricata: il dramma delle scarpe antinfortunistiche.
Perché se è vero che scarpe da lavoro, caschetto, giubbotto catarifrangente e guanti sono dispositivi obbligatori per vivere in sicurezza il cantiere, è altrettanto innegabile che le scarpe antinfortunistiche sono croce e delizia per ogni archeologo. Eh sì perché non esiste archeologo che al suo primo scavo non abbia strabuzzato gli occhi di fronte all’imperativo categorico “per scavare bisogna indossare le scarpe antinfortunistiche”, soprattutto se, come succede quasi sempre, le campagne di scavo si tengono in estate, con millemila gradi all’ombra.
A questo punto la faccia che fa lo studente di archeologia è più o meno
Accompagnata dal pensiero strisciante “cioè Indiana Jones mica andava in giro con i piedi strizzati in scarpe che d’estate fanno sudare modello foresta pluviale e invece in inverno si trasformano in neviere?”
Però Indy non era un vero archeologo, non scavava con il metodo stratigrafico e non doveva guardare la ruspa. Noi archeologi professionisti invece abbiamo la necessità di tutelare prima di tutto la nostra sicurezza: per questo motivo in cantiere è necessario indossare i DPI, che non è un nuovo videogame, ma la sigla che sta per Dispositivi di Protezione Individuale.
I DPI (Dispositivi di protezione individuale) consentono ai lavoratori di agire in totale sicurezza e servono a garantire la protezione della salute del singolo, così come riportato dalle norme del D.Lgs. n. 81/2008, cioè il Testo Unico per la Sicurezza sul Lavoro
Ai fini del presente decreto si intende per dispositivo di protezione individuale, di seguito denominato «DPI», qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo. (Art. 74 del D.Lgs.81/2008)
Che si tratti di un cantiere scuola, di uno scavo all’altro capo del mondo o di un lavoro di sorveglianza archeologica le scarpe antinfortunistiche vanno indossate dal momento in cui si valica la recinzione del cantiere fino all’uscita, spesso quindi per otto o più ore al giorno.
È proprio per questo motivo che la scelta delle scarpe deve essere guidata da alcune parole chiave che ci aiuteranno a sopravvivere sia al gelo che al caldo torrido.
La prima semplice e innocua parola che però può fare la differenza tra uno stato di quasi morte e la salvezza è comodità. Scegliere le scarpe antinfortunistiche facendosi guidare da questa parolina magica CO MO DI TA’ (ripetiamolo insieme e ad alta voce quando siamo vicini alla cassa virtuale o reale per pagare il nostro acquisto) può evitare all’archeologo crisi isteriche che in genere si concludono con “Ma chi me l’ha fatta fare a me di studiare archeologia? Non potevo stare in ufficio come tutte le persone sane di mente?”
Nel momento in cui ogni mattina ci accingiamo ad allacciare le scarpe antinfortunistiche dobbiamo avere ben chiaro in testa che sono proprio le calzature da lavoro che in cantiere ci proteggono da rischi come la caduta di oggetti pesanti o le perforazioni della suola per presenza di materiali appuntiti, svolgendo anche una funzione antiscivolo.
Quindi l’altra parola chiave quando scegliamo le scarpe da cantiere è U TI LI TA’, da ripetere come un mantra. Le scarpe antinfortunistiche devono essere a norma, questo significa che non possiamo indossare delle Manolo Blahnik con la punta rinforzata in ferro per sentirci protetti. Sarebbe bello ma non si può.
Però non è detto che si debba rinunciare all’estetica ed è per questo che vi propongo qui di seguito un modello di scarpe antinfortunistiche che mette insieme le nostre parole chiave per affrontare in tutta sicurezza un cantiere archeologico: comodità, utilità ed estetica.
Parliamo delle scarpe da lavoro Panda Safety che ho provato nel modello Monviso.
A livello tecnico le scarpe antinfortunistiche Panda Safety rispondono a tutti i criteri di legge, a iniziare dalla normativa UNI EN ISO 20345 che definisce proprio le caratteristiche delle scarpe di sicurezza: dotate di un puntale rigido in grado di resistere senza rompersi alla caduta di un peso di circa 20 chilogrammi da 1 metro di altezza.
Per il lavoro da archeologi il tipo di scarpa antinfortunistica più adatta è S3, appropriata proprio per il cantiere.
Quali sono le caratteristiche del tipo S3?
Tomaia in pelle, crosta o tessuto
Proprietà antistatiche
Assorbimento d’energia nella zona del tallone
Calzatura chiusa
Suola resistente agli idrocarburi
Resistenza alla penetrazione e assorbimento di acqua
Lamina o inserto antiperforazione
Suola scolpita o tassellata
Ma la cosa che, da archeologa, mi ha convinto delle scarpe Monviso Panda Safety (oltre al fatto che la ditta si chiama Panda, proprio come la macchina che tutti i giorni mi porta in cantiere e che funge anche da ufficio e bistrot per pausa pranzo. E se seguite le mie Instagram Stories lo sapete già!) è l’aspetto. Ebbene sì, non si vive di sola bruttezza in cantiere!
La Monviso infatti è, come recita il sito, “una scarpa alta allacciata progettata per durare nel tempo. Le caratteristiche di solidità e durevolezza tipiche di uno scarponcino da trekking sono state infatti riportate in questo modello realizzato in vera pelle idrorepellente e dotato di puntale e lamina antiforo in acciaio. Il comfort è invece garantito dalle imbottiture del colletto e della lingua, che assicurano anche una migliore vestibilità ed aderenza”.
Questo in poche parole vuol dire che, oltre ad avere il piede protetto, ogni mattina guardandovi allo specchio avrete la sensazione di essere in procinto di andare a fare una passeggiata nella natura e così il cantiere vi sembrerà meno duro da sopportare.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_5569.jpg23043456Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2019-05-22 19:09:292019-05-22 19:47:49Archeologi e scarpe antinfortunistiche: manuale di sopravvivenza*
Una delle mie occupazioni principali quando navigo online è monitorare le notizie a tema archeologico: che si tratti di scoperte, nuove aperture o convegni mi interessa studiare il modo in cui l’archeologia viene comunicata sui giornali, siano essi cartacei o web.
Da questo monitoraggio è scaturito anche il ppt che ho presentato nel corso di un incontro a La Sapienza che ha visto insieme archeologi e antropologi per raccontare la figura dell’archeologo a tutto tondo, sia nella sua percezione all’esterno che nella sua percezione all’interno della categoria.
Tutto questo per dire che il tema della rappresentazione (e anche dell’auto rappresentazione) dell’archeologia sui media, tradizionali e non, occupa spesso i miei pensieri.
Oggi quindi voglio parlarvi di cosa NON è l’archeologia per noi archeologi e di cosa invece È l’archeologia per i non archeologi.
Prendo spunto da tre fatti:
Sfogliando alcune brochure di festival cinematografici a tema archeologico mi sono imbattuta spesso in film e documentari i cui titoli contengono le parole “misterioso” e “tesori”;
Qualche giorno fa un articolo uscito su Il Messaggero titolava “Misteriosa piramide etrusca a Bomarzo: è nascosta da secoli nei boschi della Tuscia”
Alcune settimane fa un altro articolo uscito su La Repubblica di Bari titolava invece “Bari, un’antica necropoli scoperta per caso a Ceglie del Campo” e la prima frase recitava “Un tesoro archeologico nel sottosuolo di Ceglie del Campo”
Ora.
Se io non fossi un’archeologa e mi trovassi a leggere questi articoli o titoli cosa penserei secondo voi?
Che gli archeologi trovano tesori misteriosi e nascosti, per caso.
Eppure in quasi 10 anni di formazione accademica non mi è mai capitato di leggere la parola “mistero” su uno qualsiasi delle decine di libri di testo studiati e allo stesso modo non mi è mai passato per la mente di definire “tesoro” un rinvenimento, per unico e prezioso che possa essere (e alcuni oggetti di pregio li ho visti nei miei anni di lavoro).
Per non parlare del fatto che nelle aule universitarie ore e ore di lezione sono dedicate alla fase pre-scavo intesa come raccolta di documenti, fonti, informazioni, in grado di indirizzare la ricerca. Chiedetelo a un topografo se i risultati delle indagini sul campo vengono fuori “per caso”!
Come è possibile allora che si crei questo corto circuito comunicativo in cui l’archeologia viene descritta come un qualcosa che assolutamente non corrisponde alla realtà?
Qui non parliamo di verosimiglianza tra realtà e rappresentazione, di una professione cioè che ha qualcosa di misterioso o inconoscibile o inintelleggibile e quindi può essere facilmente fraintesa. Tutt’altro!
Un archeologo sa esattamente qual è il suo lavoro, sa per esempio che:
I rinvenimenti non avvengono per caso.
Non esiste il mistero, ma esistono domande alle quali la ricerca prova a dare delle risposte.
Non ci sono tesori, ma contesti di rinvenimento.
E soprattutto noi tutti sappiamo che l’archeologo del XXI secolo si è finalmente liberato dalla patina romantica dell’ esploratore ottocentesco che partiva verso posti esotici alla scoperta di antiche civiltà (saccheggiandole in gran parte dei casi, non essendo stato ancora codificato il metodo stratigrafico) e che oggi è più vicino ad uno scienziato che a Indiana Jones.
Io vi farei parlare con chi studia le sezioni sottili, con chi si occupa di archeometria, con chi lavora sul Gis o con chi, chiuso nei magazzini, classifica cassette e cassette di ceramica, per farvi passare la voglia di parlare di misteri e tesori.
Perché questi professionisti sarebbero in grado di spiegarvi che dietro la parola archeologia si nasconde un tesoro (adesso sì) di competenze specialistiche acquisite in anni di studio e che quando scrivete la parola mistero state soprassedendo su tutte queste competenze dando credito ad una visione distorta e caricaturale dell’archeologia. Allo stesso modo che se definiste sciamano un medico.
È chiaro che in un articolo giornalistico non si può scrivere “la forma Hayes 50 ha datato l’US 378”, ma è altrettanto chiaro che se si continua a diffondere l’idea che gli archeologi siano scopritori di tesori misteriosi, al prossimo passante che fuori dalla recinzione del cantiere dove stiamo sorvegliando la posa della fogna ci chiederà “quali tesori avete trovato” non ci resterà che rispondere “un beneamato cippo”.
Articolo che lancia la campagna – like + archeologia
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/172284_M.jpg9601280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2019-03-02 13:05:052019-03-02 13:18:01L’archeologia NON è un mistero
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