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Carica dei #500funzionari al MiBACT

La carica dei #500funzionari: alcune domande

L’abbiamo detto tante volte: diventare archeologi presuppone un lungo percorso formativo.

 

Si parte con la laurea triennale (anni 3), si procede con la magistrale (anni 2). Poi si approda alla specializzazione (anni 2). Per i più temerari si apre il percorso da dottorandi (altri 3 anni) coronato dal post-doc se si vuole intraprendere la carriera da ricercatori.

 

A questi titoli si affianca l’esperienza pratica, sul campo o in laboratorio, che affina le conoscenze e le arricchisce, e spesso quando si lavora in quella che viene chiamata “archeologia preventiva” sui cantieri delle grandi opere, dei lavori pubblici, si connota come vero e proprio lavoro in trincea.

 

Un percorso lungo, dispendioso e non facile, che comporta molta fatica e sacrifici.

 

Se guardiamo però alle condizioni di lavoro di molti archeologi, alla media dei loro guadagni annui o all’alto tasso di abbandono della professione, il dubbio viene: a cosa serve collezionare titoli come punti del supermercato? A sentirsi più preparati? Certo, ma forse anche a prendere tempo visto che le opportunità di lavoro sono sempre più scarse. Serve a seguire la propria vocazione da ricercatori? Anche quello, eppure la strada della ricerca non è certo più semplice di quella dell’archeologia commerciale.

 

In molti casi poi non si tratta di una scelta: per esempio la V.I.Arch può essere redatta solo da archeologi in possesso di diploma di specializzazione o dottorato. Non è un dato da sottovalutare, perché tanti archeologi, per esempio, si iscrivono alle certo non economiche scuole di specializzazione proprio per questo motivo, e per avere qualche possibilità in più nell’eventualità di concorsi pubblici.

 

Appunto, concorsi pubblici.

 

È passato oltre un mese dall’annuncio di 500 future nuove assunzioni al MiBACT in pianta stabile.

 

Constatato il fatto che “500… qualcosa” is the new black al Collegio Romano, avevamo tutti archiviato la notizia tra i buoni propositi per il 2016.

 

Un generale plauso all’iniziativa è stato seguito da dubbi e molte domande, in particolare sulla natura dei profili che saranno richiesti per certe figure. Per esempio, ottima la novità del profilo comunicazione, cosa di cui i nostri beni culturali hanno assolutamente bisogno, ma non è ancora chiaro quali saranno i requisiti dei potenziali candidati.

 

Secondo le prime indiscrezioni il profilo richiesto potrebbe essere quello di laureati in economia e scienze della comunicazione o affini, e qui sarà la nostra attività di archeoblogger, ma ci sembra quanto meno un’occasione mancata quella di non includere gli addetti al lavoro, archeologi, storici dell’arte e via dicendo, dal momento che si tratta oggi di figure sfaccettate e dalle molteplici competenze, non ultima quella appunto di comunicatori e divulgatori.

 

Nel dubbio, l’unica è attendere il bando, abbiamo pensato.

 

Beh, il bando non è ancora uscito, ma nel frattempo c’è stata un’importante novità: lo scorso lunedì è stato approvato in Commissione Bilancio al Senato un emendamento che permetterà l’accesso al concorso per funzionario anche a chi è in possesso di semplice laurea triennale in beni culturali (classe L-01).

 

Lo ammettiamo, siamo perplesse. E a quanto pare non siamo le uniche.

 

In questi ultimi giorni ci sono state diverse prese di posizione negative sulla questione, dalla decisa opposizione del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, presieduto da Giuliano Volpe, al comunicato del Coordinamento Archeologi che riunisce le principali associazioni di categoria ed esprime “ferma contrarietà”. Si sono opposti anche gli storici dell’arte e le guide turistiche di Roma, l’ADI, l’associazione dei dottorandi e dottori di ricerca e la Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’arte.

 

Non sono mancate le polemiche, ma al di là della differenza di opinioni il dubbio rimane.

 

È giusto abbassare i requisiti di accesso sinora richiesti per la qualifica di funzionario?

 

Perché alla fine di questo si tratta.

 

Aspettiamo il bando per fare tutte le valutazioni del caso, ma se il concorso prevederà, com’è probabile, anche una valutazione dei candidati per titoli, quante chance avranno i giovani triennalisti nei confronti di persone molto più titolate?

 

In attesa di leggere il bando e avere qualche risposta, abbiamo voluto coinvolgere nel dibattito la nostra community e martedì scorso abbiamo lanciato su Twitter un sondaggio.

 

Non si tratta, ovviamente, di un dato statistico, ma ci sembra interessante e utile a capire l’umore che l’emendamento ha suscitato tra gli addetti ai lavori e chi studia per diventarlo.

 

 

 

 

 

 

E voi, cosa ne pensate?

 

È giusto aprire anche a chi è in possesso della sola laurea triennale la possibilità di concorrere di diventare funzionario del MiBACT oppure le responsabilità previste richiedono qualifiche più alte? Sono sufficienti solo i titoli oppure l’esperienza sul campo dovrebbe avere maggior peso, e in tal caso, che tipo di esperienza?

 

Insomma, vogliamo sapere come la pensate, quindi sotto coi commenti!

 

@antoniafalcone

@domenica_pate

@OpusPaulicium

 

 

 

Di piramidi, tirocini e tweet: beni culturali e la politica dello spot

Sono strani questi giorni tra maggio e giugno per i beni culturali italiani, strani e pieni di notizie e annunci.

 

Provo a fare un riassunto e a proporre qualche riflessione.

 

Il 26 maggio viene inaugurata la mostra “Pompei e l’Europa. 1748-1943”, articolata in due sedi, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e agli scavi di Pompei, e per la quale è stato creato un apposito (e non particolarmente bello, ma questi son gusti personali) sito internet, nonostante la Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia abbia già un bel portale ricco di notizie e approfondimenti. A Pompei la sede scelta è l’anfiteatro, dove più o meno dalla sera alla mattina è comparsa una strana piramide che dovrebbe rappresentare il Vesuvio, ma che lascia perplessa persino la stampa inglese. All’interno, sospesi a mezz’aria su sostegni in metallo quasi fossero opere d’arte contemporanee, venti degli 86 calchi restaurati delle vittime dell’eruzione del 79 d.C., in una scelta espositiva quanto meno di dubbio gusto, figuriamoci definirne il valore storico-scientifico.

 

Il 30 maggio il Ministro Dario Franceschini scrive su Twitter:

 

 

Pochi giorni e viene rivelato che i tirocini, finanziati dal Fondo 1000 giovani, saranno rivolti a laureati di età inferiore ai 29 anni e avranno un compenso lordo di 1000 Euro al mese, che in tempo di crisi non sono male. E poi sono sei mesi a Pompei. Come esperienza dopo la laurea, vuoi mettere?

 

Il 2 giugno in occasione della Festa della Repubblica, viene ufficialmente annunciata una notizia che circolava già da qualche giorno: dal 23 giugno il Quirinale sarà aperto cinque giorni su sette e non più solo la domenica, con due percorsi di visita da prenotare online con almeno sei giorni di anticipo e la possibilità di usufruire di una guida, che sarà affidata a volontari del Touring Club e studenti de La Sapienza, anche loro volontari. Oltre a prevedere il divieto di introduzione di oggetti contundenti, zaini ingombranti e apparecchi fotografici (come la mettiamo con gli smartphone? ), le nuove regole escludono le guide abilitate, che non potranno più accompagnare gruppi di visitatori, ma entrare solo come privati cittadini. Naturalmente, la protesta, su Twitter, non si è fatta aspettare.

 

Lo scorso mercoledì 3 giugno, l’ANSA fa sapere che dopo i Pink Floyd saranno i ragazzi de Il Volo, fenomeno mondiale e vincitori dell’ultimo Festival di Sanremo, il secondo gruppo musicale ad esibirsi negli scavi Pompei, dove la prossima settimana registreranno uno speciale per la TV americana PBS, perché si sa, i luoghi comuni sull’Italia e l’italianità son duri a morire e ogni tanto è il caso di riproporli.

 

Lo stesso giorno, ma in serata, così c’è stato tempo di digerire meglio la prima notizia, arriva un altro annuncio via Twitter del Ministro Franceschini e per un momento, lo confesso, ho pensato (e forse sperato) che fosse il risultato di una violazione di account.

 


L’ironia è davvero troppo facile, e del resto, se c’è qualcosa che noi italiani abbiamo in sovrabbondanza, è proprio quella (questa è la mia risposta preferita).

 

Infine venerdì (il 5 giugno), il Ministro ha fatto sapere che l’idea di cui si era molto parlato quest’autunno, quella di ricostruire l’arena del Colosseo, ispirata da Daniele Manacorda, diventerà realtà: il bando sarà internazionale e secondo le previsioni i lavori dureranno 5 anni e saranno finanziati per circa 20 milioni di euro, la gran parte dei quali fondi pubblici. Nel frattempo, quasi a dare un’assaggio di quel che verrà, è stato ricostruito e verrà presto inserito nel percorso di visita al pubblico, uno dei 28 montacarichi che trasportavano gli animali feroci nell’arena. Una bella storia di archeologia sperimentale questa, nata quasi per caso due anni fa, quando la Providence Pictures, casa di produzione americana, propose la ricostruzione del montacarichi per il documentario Colosseum-Roman death trap del regista Gary Glassman, assumendosi i costi dell’intera operazione (qui il comunicato stampa del MiBACT).

 

Tante notizie, insomma, in questi giorni che scivolano lentamente verso l’estate, che toccano alcuni dei luoghi più rappresentativi del patrimonio culturale italiano, e che, al di là dei contenuti specifici, mettono in luce, se mai ce ne fosse bisogno, che la politica culturale in Italia si fonda ormai su due linee d’azione.

 

Da un lato “grandi eventi spot”, su cui riversare tanti bei soldi, spesso pubblici, ma anche, sempre più di frequente, privati, il che non è affatto una cattiva notizia, almeno a mio modo di vedere, purché i termini siano chiari e si tenga presente il valore intrinseco del bene su cui si va ad intervenire. Essendo “spot”, però, tali interventi tendono spesso a riguardare pochi monumenti ben noti, assurti a simbolo del nostro paese (“il Colosseo nella sua grandiosità è simbolo non soltanto di Roma ma di tutta l’Italia”, dice Franceschini nell’annunciare il progetto dell’arena), mentre tanti luoghi storici e aree archeologiche versano nelle condizioni che tutti conosciamo. A volte, come la futura Biblioteca Nazionale degli Inediti (Sarà un luogo fisico? Dove nascerà? Chi deciderà quali libri conservarci? I miei diari di adolescente saranno accettati?) o la strana mostra dell’anfiteatro di Pompei, i risultati di certe operazioni sono talmente fuori dal mondo e dalla logica che l’unica reazione è questa qua.

 

La logica dei grandi eventi, è anche la logica dei grandi numeri, e così, sempre il ministro Franceschini e sempre su Twitter, sbandiera, ad esempio, “i numeri da capogiro”, dei visitatori degli scavi di Pompei, della Reggia di Caserta e del Colosseo durante l’appuntamento mensile della #DomenicalMuseo, tanto numerosi da mettere a rischio persino l’integrità stessa dei luoghi, letteralmente assaliti da migliaia di persone. Ma siamo sicuri che grandi folle siano sinonimi di “successo”? E che sia questo tipo di successo quello di cui il nostro patrimonio culturale e noi italiani abbiamo bisogno?

 

Dall’altro lato, e sembra quasi un controsenso ma non lo è se la logica che ti guida è lo “spot”, si punta chiaramente al risparmio sulle professionalità.

 

Così il volontario sostituisce il professionista e i fondi a disposizione sono usati per assunzioni anch’esse, in fondo, un po’ “spot”, perché un tirocinio di sei mesi, benché retribuito, non è lavoro, e perché con la frequenza con cui queste forme di lavoro vengono proposte esse diventano a tutti gli effetti una soluzione reiterata di reclutamento a basso costo.

 

Niente di nuovo sotto il sole, davvero, ma il tutto si tinge di un po’ di amarezza, se, alla fine di una nuova presentazione del libro Archeostorie (giovedì scorso a Cosenza, in una bella mattinata piena di spunti e di sano ottimismo), ti ritrovi a parlare con un piccolo gruppo di archeologi che ti rivelano di “aver mollato” o che ricordano colleghi, validi e preparati, che “non ce la facevano più”, che hanno “ripiegato” su altro e ora non fanno più gli archeologi.

 

Quante storie così conosciamo?

 

La domanda, alla fine, è sempre la stessa.

 

Cosa vogliamo farci, noi, con i nostri beni culturali?

 

Vogliamo che siano petrolio, che mette in moto e brucia e si consuma (e inquina)? Perché politica dello spot per me significa questo: è l’inseguire una visibilità che si spera si traduca in ricaduta e sviluppo economico ma che non lo farà perché dietro manca una progettualità coerente.

 

Oppure vogliamo che il nostro patrimonio culturale sia humus, da proteggere e conservare, sì, ma anche da studiare e conoscere, da valorizzare e grazie al quale costruire nuova cultura, nuovo sviluppo sostenibile, comunità vere radicate nel territorio? 

 

E su cosa vogliamo puntare se non sulle persone, sulle competenze, sull’innovazione, sulla creatività, sulla loro passione?

 

Io la mia risposta ce l’ho, ma devo dirlo, certe volte, non è per niente facile.

 

domenica_pate

Foto credit: @OpusPaulicium

15 domande a… Marina Lo Blundo, assistente museale e blogger

Marina lo Blundo è assistente alla vigilanza museale e blogger.

 

Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università di Genova, ha da poco terminato il dottorato di ricerca in Storia e Conservazione dell’Oggetto d’Arte e d’Architettura all’Università di Roma Tre.

 

Pioniera dell’archeoblogging, nel 2008 ha fondato il blog Generazione di Archeologi e oggi cura i contenuti dei blog della Soprintendenza archeologica della Toscana e del Museo Archeologico Nazionale di Venezia.

 

Il suo lavoro ufficiale è quello di Assistente alla vigilanza per il Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

 

Le abbiamo rivolto 15 domande a cui rispondere al volo.

 

*

 

 

1 – Nome?

 

Marina Lo Blundo.

 

2 – Età (vera o mentale)?

 

Vera 33; mentale spesso e volentieri tra i 17 e i 23 (chiedete in giro, ve lo confermeranno).

 

3 – Segni particolari?

 

R moscia. Inascoltabile soprattutto se abbinata alla C e alla T aspirate, nonché alla C e alla G strascicate (acquisite in questi anni a Firenze). Aggiungeteci anche che ho un accento sporchissimo fatto di toscanismi inseriti qua e là nella cadenza genovese a sua volta inquinata dalle mie origini nella Riviera di Ponente. Capite bene che è preferibile per me scrivere, piuttosto che parlare in pubblico…

 

4 – Perché hai scelto di fare l’archeologa?

 

Perché sinceramente non avrei saputo cos’altro fare.

 

5 – Perché fai ancora l’archeologa?

 

Perché sinceramente non saprei cos’altro fare. Scherzi a parte, ringrazio il Cielo di avermi fatto vincere il famoso concorso per Assistenti alla vigilanza nei musei statali del 2008: se non l’avessi vinto non so cosa farei oggi. Di lavoro retribuito almeno. Ma l’archeoblogger la farei indipendentemente. Mi piace, è parte di me. Non ne potrei fare a meno.

 

6 – Che lavoro farai da grande?

 

Stante la recentissima riforma del MiBACT con la creazione della Direzione Generale dei Musei, credo proprio che farò l’Assistente alla Vigilanza a vita. Spero almeno di restare all’Archeologico di Firenze: non potrei pensare di vivere lontano dalla mia Chimerina…

 

7 – Descrivi in tre righe cosa non va nel tuo lavoro.

 

L’assistente alla vigilanza così come viene inteso dalla maggior parte della vecchia generazione di funzionari svilisce totalmente il personale entrato col nuovo concorso, che si ritrova a stare su un panchetto quando potrebbe essere speso utilmente per altri compiti all’interno delle Soprintendenze.

 

Detto questo, nella quotidianità del mio lavoro non vanno le piccinerie e i dispettucci tra custodi e la sciatteria, a tutti i livelli, nell’affrontare i problemi di gestione del museo.

 

8 – Un genio può esaudire un tuo desiderio riguardante l’archeologia in Italia. Cosa chiedi?

 

Gente savia al MiBACT. Mi piacerebbe che si creasse un circolo virtuoso in cui il Ministero funzioni e faccia ricadere a pioggia sulle altre istituzioni a vario titolo pubbliche e private gli effetti di un buongoverno. Effetti che dovrebbero ricadere anche sui professionisti, da chi si spezza giornalmente la schiena in cantiere a chi fa ricerca, a chi fa comunicazione. Utopia. E vabbè.

 

9 – Se ti reincarnassi in un/a fiorentino/a famoso, chi vorresti essere?

 

Giovanni Poggi, Soprintendente alle Belle Arti durante la II Guerra Mondiale e in particolare nell’Estate del ’44, quando Firenze fu bombardata e poi liberata dagli Alleati. Forse non è un fiorentino famoso, ma sarebbe bene che lo fosse. Egli difese strenuamente il patrimonio artistico fiorentino, le collezioni degli Uffizi e di Palazzo Pitti in particolare, seguì personalmente il trasporto delle opere d’arte in rifugi sicuri fuori Firenze, difese ad ogni costo i capolavori dai furti più o meno legalizzati dei Tedeschi, rischiò molto in nome dell’Arte che difese ad ogni costo.

 

Persona che antepose la salvaguardia del patrimonio artistico ad ogni altra cosa; il suo non fu semplicemente un lavoro, ma una vocazione, una missione. La storia di Poggi si conosce poco, soprattutto fuori Firenze, ma fu un supporto molto importante per i Monuments Men che lavorarono in Toscana tra il 1944 e il 1945. Senza la sua attività probabilmente molte opere d’arte sarebbero andate perdute, cadute in mano ai Tedeschi e/o distrutte per sempre.

 

Ora giochiamo:

 

10 – Che libro butteresti giù da Ponte Vecchio: Etruscologia di Massimo Pallottino o Introduzione allo studio dell’Etrusco di Mauro Cristofani? Perché?

 

Ehm… posso dire che non ho mai letto né l’uno né l’altro? No, oddio, Introduzione allo studio dell’Etrusco dev’essermi passato per le mani però, ecco, non ha lasciato molto il segno… (shame on me, ma so a mala pena leggere tincsvil sulla zampa della Chimera)

 

11 – Una giornata di guardiania al MAF con Massimo Bray o Giuliano Volpe? Perché?

 

Giuliano Volpe non me ne voglia, ma con Massimo Bray mi divertirei un monte a twittare e a far twittare la Chimera (@ChimeraMAF)

 

12 – È l’anno 2100. E’ la fine del mondo prospettata dai Maya (alla fine c’avevano ragione, avevano sbagliato solo l’anno). Puoi scegliere di salvare solo un’opera del Museo: la Chimera, il Vaso François o l’Arringatore? Perché?

 

Eh, la Chimera è la Chimera. Mi dispiace per gli altri, anche se devo ammettere che l’Arringatore mi è sempre stato simpatico. Il Vaso François invece… beh, non sarebbe la prima volta che viene distrutto per la cattiveria di un custode (curiosi di sapere chi fu il primo?).

 

13 – Devi noleggiare un DVD da vedere con la Chimera: scegli L’etrusco uccide ancora o Una notte al museo? Perché?

 

Una notte al museo, che ricorda a lei le sue scorribande notturne per i corridoi e a me tutta la fatica che devo fare ogni volta per domarla. Vi ho mai raccontato di quella volta che l’ho trovata a giocare a scacchi con l’Obesus di Chiusi e Larthia Seianti?

 

14 – Di chi faresti volentieri a meno? Del turista fai da te che “Scusi, ma per il Colosseo, devo girare dopo Piazza della Signoria?” oppure della neolaureata che “io vorrei lavorare in un Museo e lo farei anche gratis”? Perché?

 

Andrò un po’ controcorrente, però farei a meno non tanto del turista fai da te quanto del “visitatore ad ogni costo”, quello che siccome ha comprato una card per entrare in tutti i musei del mondo deve per-correrli tutti, senza avere alcuna idea di quello che sta guardando. Senza sapere neanche dove si trova.

 

E purtroppo, e andrò ulteriormente controcorrente, iniziative come la #domenicaalmuseo non fanno altro che evidenziare questa situazione. Le folle oceaniche che si riversano al museo approfittando del biglietto gratuito semplicemente attraversano il museo: una percentuale molto bassa è davvero interessata e visita con cognizione di causa o quantomeno con interesse. Ma la maggior parte, mi dispiace dirlo, non ha assolutamente idea di dove si trova; per costoro essere al museo archeologico o alla pinacoteca o in un centro commerciale non fa nessuna differenza. Non lo dico così tanto per dire, ma in base a lunghe osservazioni in sala.

 

La neolaureata che lavorerebbe anche gratis mi fa solo tenerezza. A meno che, certo, non arrivi con l’atteggiamento borioso di chi ha capito tutto della vita (e purtroppo ce n’è a giro): ricordo, quand’ero stata appena assunta, che in museo a Firenze c’erano due studentesse stagiste; ricordo l’aria di sufficienza con cui guardavano noi che eravamo “solo” custodi. Non so, sinceramente, che fine abbiano fatto.

 

15 – La tua definizione di archeologia.

 

Per me l’archeologia è una disciplina “sociale”: il fine ultimo di ogni ricerca archeologica è la restituzione alla comunità di un tassello della sua storia, antica o meno antica che sia. Per questo a mio parere non si può prescindere dalla comunicazione e dal racconto. Non c’è archeologia se manca il racconto, ma il racconto ha bisogno di qualcuno cui lo si racconti.

 

Quella degli archeologi è una missione “sociale”, non mi stancherò mai di dirlo. Se ci dimentichiamo del nostro Patrimonio perché non ne conosciamo il valore e non lo riconosciamo come nostro, è un danno per la società. Guardate cos’è successo a Mosul, se volete avere un esempio forte di ciò che intendo.

 

[Photo credit: Paola Romi @OpusPaulicium]

 

 

(@pr_archeologo)

Ma ci prendete in giro?

Era tutto un bluff. Il grande bluff.

 

Certo, anche noi che ci volevamo credere!

 

Ma davvero il neo ministro appena nominato poteva uscirsene con una dichiarazione che non fosse aria fritta?

 

“Il Ministero dei Beni Culturali è il più importante ministero economico del Paese” e bla bla bla bla.

 

E così in tutte le interviste e gli interventi pubblici. A farci credere che i momenti bui erano al capolinea, che adesso sì che si investirà in cultura, che il punto di svolta era ad un passo.

 

Dopo la vicenda #500schiavi nella quale era rimasto imbrigliato il predecessore Massimo Bray, confidavamo tutti in maggiore attenzione ai proclami.

 

Non che proprio ci dovessero dire la verità del tipo “Non ci sono i soldi, non c’è neanche la volontà, fosse per noi italiani estiqaatsi dei beni culturali ma è l’Europa che ce lo chiede, sennò ci vengono a commissariare per palese inadempienza”.

 

Voglio dire, siamo capaci di tenere chiuso il Mausoleo di Augusto in occasione del bimillenario della morte e di non fare uno straccio di politica turistica che aiuterebbe a riempire le casse del comune di Roma, figuriamoci se davvero pensiamo di investire nei beni culturali. Suvvia, sono cose che si dicono, tipo le frasi fatte sul tempo “che bella giornata, oggi fa freddino, domani sarà umido”.

 

Ecco, io non dico che ce la dovevano dire proprio così la verità.

 

Però neanche prenderci per sprovveduti. Tutto sommato abbiamo lauree, specializzazioni, dottorati che non servono a nulla quando cerchi lavoro, ma sono abbastanza per capire certe cose. E poi siamo anche abituati.

 

Perché ad oggi, di politiche per i beni culturali che possano creare posti di lavoro non se ne sono viste. Al contrario si è visto che l’unica direzione verso cui si stanno rivolgendo tutti gli sforzi di enti locali e governo centrale è una sola: il volontariato.

 

E’ di ieri la notizia che “il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini e il Sottosegretario di Stato del Ministero del Lavoro, Luigi Bobba hanno stipulato un protocollo di intesa che prevede la realizzazione di progetti di servizio civile nazionale per promuovere lo svolgimento di attività di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale”.

 

Cioè la promozione delle attività di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale la facciamo fare a giovani tra 18 e 28 anni in cambio di pochi spicci.

 

Giusto per il biglietto del cinema e per pizza e birra nel weekend.

 

 

@antoniafalcone

#500schiavi ovvero del prezzo di essere archeologo

Qualcuno prima o poi dovrà spiegarci con dovizia di particolari ed esauriente eloquio perché mai a 19 anni un giovane dotato di sufficiente senso della realtà dovrebbe decidere di intraprendere un percorso di studi in beni culturali. La richiesta non è retorica, come può sembrare.

 

 

Riassumiamolo il percorso di studi di un aspirante archeologo: si iscrive all’università, consegue la laurea triennale, poi quella specialistica, poi si iscrive ad una scuola di specializzazione, consegue il diploma, è archeologo. Poi magari vince anche un dottorato. Totale di anni di studio: 7 o 10.

 

 

Totale di tasse pagate: tante, meglio non soffermarsi a fare il calcolo col pallottoliere.

 

 

Finisce di studiare, è l’orgoglio di mamma e papà ed è contento di aver finalmente suggellato con tutti questi titoli di studio la sua aspirazione di essere archeologo.

 

 

A questo punto si scontra con il mercato del lavoro. Le alternative sono poche:

 

 

1-continua la carriera accademica, barcamenandosi tra assegni di ricerca rinnovati o no. Difficile essere davvero indipendenti economicamente, per fortuna a casa c’è qualcuno che gli da una mano.

 

 

2-prova a lavorare per qualche società o cooperativa. Guadagna poco, lo pagano con scadenze indicibili e sa che probabilmente sarà difficile resistere a lungo. Sommessamente comincia ad elaborare un piano B: cambiare lavoro.

 

 

3-mette su una società e si inventa imprenditore: rincorre committenti e pagamenti, combatte ogni giorno con la burocrazia e se riesce da lavoro a qualcuno. Il tutto mentre gli vengono i capelli bianchi per l’ansia di non farcela.

 

 

4-lavora come libero professionista, cerca di prendere cantieri senza abbassare le tariffe, ma è difficile. C’è sempre qualcuno che gioca al ribasso e la sua rabbia diventa frustrazione.

 

 

Sconforto e voglia di mollare.

 

Poi come per incanto il miracolo o meglio il miraggio: un governo che dice di voler investire su di lui e sui suoi colleghi. Grandi proclami sull’importanza della cultura nel nostro Paese. Finalmente, forse, c’è bisogno di quelli come lui.

 

 

Non promette di essere la panacea di tutti i mali ma scrive e trasforma in legge il decreto ValoreCultura. E il provvedimento prevede, come ricorda in TV anche il presidente del Consiglio, di assumere, per un anno, come tirocinanti, 500 giovani da impiegare nella catalogazione.

 

 

Certo, penserà l’archeologo, sono solo 12 mesi, ma magari da cosa nasce cosa e finalmente ce la faccio a vivere della mia professione.
Passano i mesi e dei presunti futuri catalogatori si perde ogni traccia.

 

 

Poi d’un tratto, alla vigilia dell’Immacolata, ironia della sorte, il parto: ecco il bando.
E basta leggerlo di fretta per capire.
Per capire che forse non c’è speranza.

 

 

Si chiedono ottimi e molteplici requisiti, e magari il nostro archeologo ce li ha.

 

 

Si richiede un punteggio di laurea minimo di 110/110: si sa, più si è bravi in questo Paese,  e più è facile sfruttarti. E il nostro archeologo nel frattempo pensa: difficilmente mi saranno concesse altre opportunità.

 

 

Bisogna avere meno di 35 anni, e il nostro amato conoscitore del passato per fortuna non è ancora giunto al mezzo del cammin di lunga vita.

 

 

Ma c’è un piccolo problema: il compenso per un anno in cui dovrà svolgere 30-35 ore di formazione/lavoro settimanale sono 5000 euro.
416 euro al mese.

 

 

Un compenso inferiore al servizio civile, un compenso inferiore a quanto il nostro archeologo guadagnerebbe con le ripetizioni private o facendo il cameriere.

 

 

E tutto questo glielo propongono a 35 anni, dopo un decennio di studio, dopo che l’università non è stata in grado di fornirgli uno straccio di formazione lavorativa. E per fare cosa poi? Farsi sfruttare un anno al ministero e ritrovarsi nuovamente alla casella di partenza.

 

 

E il nostro archeologo si chiede, disperato, ma se nemmeno il mio Ministero crede che valga più di un lavavetri al semaforo perché dovrebbe crederci il resto della società civile?

 

 

Perchè dovrei crederci io?

 

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

 

Link al bando