Archeologi scopritori di tesori? Anche no

Negli ultimi giorni non si è parlato d’altro: la straordinaria scoperta delle 300 monete d’oro di Como.

 

Immaginiamo che per gli archeologi che erano lì sul campo sia stata un’emozione indescrivibile rintracciare tra le pieghe della terra un vero tesoretto, intravedere tra il marrone degli strati lo sbrilluccicare dell’oro. E non possiamo che fare i complimenti ai colleghi e anche un po’ invidiarli.

Sono già stati scritti fiumi di inchiostro sulla scoperta dell’anno e le nostre bacheche social sono state invase dall’immagine del vasetto ricolmo di “zecchini d’oro”.

 

Un rinvenimento che ha entusiasmato non solo gli archeologi, ma soprattutto i non addetti ai lavori che in questa scoperta hanno visto avverare le proprie convinzioni: gli archeologi scavano e trovano tesori.

 

Eppure non è proprio così che funziona. Al di là di un singolo e importante rinvenimento il mestiere dell’archeologo, acquisito dopo anni di studio ed esperienza sul campo, ha come finalità quella di riconoscere e interpretare le tracce del passaggio dell’uomo sulla terra, individuando le modificazioni e il suo interagire con l’ambiente circostante.

 

“L’archeologia non studia ‘prodotti archeologici’, semplicemente perché questi non esistono. Recupera, studia e interpreta resti materiali mobili e immobili delle civiltà trascorse, che solo nel momento in cui vengono sottoposti ai metodi della conoscenza archeologica diventano, appunto, archeologici. Tra questi sono i più umili cocci, i resti di semi o di ossa, i rocchi di una colonna crollata come le più eccelse manifestazioni dell’arte, antica o no che sia. L’archeologia è quindi una grande scatola in cui sono virtualmente conservate le memorie materiali del passaggio dell’uomo sul pianeta: i resti del lavoro umano nella sua infinita fatica di convivere con i suoi simili e con l’ambiente che tutti ci accoglie[1]”.

 

Ma nonostante manuali, articoli, documentari è ancora duro a morire lo stereotipo dell’avventuroso esploratore che porta in luce antiche vestigia del passato, un po’ per caso un po’ per fortuna.

 

Complici del permanere di questa visione ottocentesca della disciplina spesso sono i mass media, intesi sia come giornali e televisioni che come i moderni mezzi di comunicazione, magazine online, blog e riviste che rilanciano le scoperte archeologiche con titoli di sicuro effetto click semplificando una realtà spesso complessa.

 

Per dirla in altre parole la straordinarietà della scoperta di Como non sta unicamente nel valore in sé degli oggetti, quanto piuttosto in ciò che quell’anfora può raccontarci, sigillata in un momento preciso della storia degli uomini e delle donne che hanno vissuto nell’antica Como.

 

Ed è proprio in virtù del valore “estrinseco” del rinvenimento archeologico, cioè legato al suo contesto e inteso come parte di millenarie interazioni tra gli uomini e tra questi e l’ambiente, che anche un minuscolo frammento di anfora o di ceramica d’impasto, magari brutti per i canoni ancora estetizzanti nella percezione dell’antico, possono rivestire un’importanza pari a quella di 300 monete d’oro. Perché ci narrano a livello minuto la vita quotidiana nell’antichità o perché ci aiutano a datare azioni (strati) e a collocarle nel tempo.

 

A molti archeologi sembrerà scontato un discorso metodologico così banale, eppure ognuno di noi si è ritrovato in cantiere a dover rispondere alla famigerata domanda “cosa avete trovato?”, dove questa sottintende “cosa (di prezioso e unico) avete trovato?”

 

Ebbene, ogni singolo rinvenimento è prezioso e unico perché viene fuori dalla terra dopo secoli o millenni e arriva tra le nostre mani per essere compreso e interpretato, non esibito come un trofeo.

 

È vero che gran parte del fascino della nostra professione risiede proprio nel concetto di scoperta e che quando diciamo “io faccio l’archeologo”, ai nostri interlocutori si illuminano gli occhi mentre contemporaneamente vedono scorrere davanti a loro immagini di templi maledetti, di statue dalle morbide forme o di gioielli intarsiati.

 

 

Ma per la sopravvivenza stessa della nostra disciplina dobbiamo essere in grado di mantenere il punto e non farci fuorviare da facili ammiccamenti. Dobbiamo ricordare a noi stessi ogni giorno che anche se non troveremo mai la tomba di Alessandro Magno, nella nostra lunga carriera di archeologi avremo comunque avuto il privilegio di toccare con mano quello che lo scorrere inesorabile del tempo ha sepolto per riconsegnarcelo frammentario e spesso incomprensibile. 

 

Compito dell’archeologo, in questi anni di facili sensazionalismo, di nuove Pompei o Atlantidi portate alla luce ai quattro angoli del globo, è quello di sapere raccontare cosa facciamo, come trascorriamo le nostre giornate in laboratorio a fare noiose seriazioni crono tipologiche o a tentare di ricostruire il paesaggio antico, per evitare di trovarsi vittime della maledizione delle “quatto pietre” che di certo non hanno il luccichio dell’oro.

 

Concludiamo quindi questa breve riflessione con alcune delle risposte che gli archeologi ci hanno dato su Instagram alla domanda “Qual è stato il momento più emozionante che avete vissuto come archeologi?”

 

martabisello

Tanti bellissimi momenti 😍…ma in generale quando nello scavo siamo riusciti a cogliere la sequenza degli ultimi attimi prima che lo strato fosse sigillato…

 

tosca_flavia

Un “banalissimo” piano di calpestio ben evidente in stratigrafia durante uno scavo al palazzo di Festos. Ovviamente, come ogni buona campagna di scavo che si rispetti, il tutto messo in luce l’ultimo giorno 😫😁

 

clodegio

Villaggio dell’età del bronzo di Ustica (Palermo): macine, pestelli, vasi integri e manufatti di ogni tipo sopra l’ultimo piano d’uso prima dell’abbandono improvviso.

 

veronica_sadge

Il ritrovamento di un pezzetto di metallo, forse una lega con il piombo, dalle forme così strane da non essere ancora stato identificato e che ha fatto dannare i professori durante l’intero scavo.

 

giselle.enchanted.crafts

Quando ho scavato la tomba di un bimbo entro un’anfora….da mamma mi sono commossa

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

 

[1] Daniele Manacorda, L’archeologia non è solo arte, pubblicato in Il Sole 24 Ore, Domenica 20.3.2016

Archeologia

Ritorno (all’archeologia)

Da qualche settimana vivo in Inghilterra e tra adempimenti burocratici e il nuovo lavoro, inizio solo adesso a ritrovare una certa normalità. E il tempo di tornare a scrivere, finalmente! Eccomi quindi con un post che non saprei definire se non “personale”. Il personale racconto dell’inizio di una nuova avventura.

Il racconto, anche, di un ritorno, il ritorno all’archeologia.

Eh sì, perché la novità, nonché il motivo per cui mi sono trasferita in UK, è che qui faccio l’archeologa da campo. D’assalto, sembra certe volte, perché i ritmi sono intensi nell’archeologia commerciale inglese, quella che in Italia definiamo archeologia preventiva.

Scriverò più in là di come funzionano qui le cose, le differenze rispetto all’Italia (che sono tante e saltano agli occhi ben prima di mettere piede in cantiere), ma quello su cui riflettevo in questo fine settimana appena passato, che si è come messo a fuoco dopo la domanda di una collega e che voglio condividere con voi, è la sensazione di essere tornata esattamente dove volevo essere: alla terra, agli strati, ai tagli, ai riempimenti, alla fatica fisica del lavoro sul campo e alla fatica intellettuale di leggere quello che la terra racconta.

(Tra parentesi, la riconoscete subito quella fatica: si manifesta nella posizione tipica dell’archeologo, in piedi o accovacciato davanti alla sua US, testa un po’ piegata sul lato, sopracciglia aggrottate e faccia a punto interrogativo).

Ora, esistono tanti tipi di archeologi e tante diverse archeologie, ma ho sempre amato scavare, fin dalla prima volta, un bel po’ di anni fa. Ho preso parte a diverse campagne di scavo da allora, ma nel complesso non ho avuto molta esperienza, non in confronto a tanti colleghi. L’ho sempre avvertita come una mancanza, ma si sa, la vita segue il suo corso e non sempre riusciamo a fare quello che ci piacerebbe.

Così, finita la scuola di specializzazione e mandati alcuni CV che non hanno per la maggior parte avuto risposta, ci ho messo una pietra sopra.

L’ho fatto senza molto crucciarmi per la verità.

Nel mio futuro ci sarebbe stata l’archeologia sul campo oppure no, non era un problema.

Nel frattempo avrei continuato a studiare, a fare ricerca, a scrivere.

Questo blog e tutto ciò che da queste pagine è nato, gli articoli, le conferenze, le collaborazioni, le conoscenze nate sui social e diventate amicizie nel mondo reale, sono una buona testimonianza di com’è andata.

Ed è andata bene, devo dire, anzi più che bene, ma è stato anche il lento consolidarsi di una realizzazione che avevo avuto anni fa, quando stavo per laurearmi per la seconda volta e mi chiedevo se fosse davvero il caso di proseguire gli studi (specializzazione, dottorato?).

Ho scelto gli studi, alla fine, ma quella consapevolezza è rimasta e forse, con lei, un po’ di pessimismo: non sarei mai riuscita a mantenermi con l’archeologia.

“Vattene all’estero” mi è stato detto tante volte. Come se fosse facile, pensavo.

Quando ho fatto domanda per questo lavoro, l’ho fatto perché era una buona occasione, ma ero anche giunta ad una decisione.

L’archeologia, d’ora in poi, sarà per me solo quella social.

Basta mandare domande, aspettare risposte, fare colloqui.

Appendo la trowel al proverbiale chiodo.

Poi, un lunedì pomeriggio di fine febbraio, ho ricevuto l’offerta di lavoro.

Da allora sono state settimane da pazzi, passate tra aeroporti, notti al pc e code in uffici, impegnate a potare a termine gli impegni precedenti (non sempre ci sono riuscita) e a prepararmi per la partenza.

Poi l’arrivo qui. Altri giorni da pazzi.

L’inizio del lavoro, un nuovo ritmo a cui abituarsi, tante cose da imparare, molte altre in cui riprendere la mano dopo anni di assenza dai cantieri.

L’impatto con l’archeologia commerciale inglese è stato duro com’è dura la terra da queste parti quando non piove per tre giorni.

Non al punto da farmi pensare “cosa ci sono venuta a fare qui?” (sono calabrese, se c’è una cosa che non mi manca è la testardaggine), ma duro abbastanza da farmi rimboccare le maniche e dire “ok, ricominciamo”.

Mi ha aiutato il fatto di aver incontrato persone che non sono solo brave nel loro lavoro, ma sono attente a chi hanno davanti. Qualcuno mi ha “adottato”, non c’è davvero termine più adatto, e questo ha reso le cose più facili.

Poi venerdì scorso, mentre portavamo gli ultimi attrezzi dal sito verso il container dove vengono riposti alla fine di ogni settimana, una collega, anche lei straniera, qui da alcuni mesi, mi pone una domanda, quella di cui parlavo all’inizio del post.

“Are you happy, here?”

Sei felice, qui?

Ci ho pensato un momento.

Ho risposto di sì.

Il ritorno alla terra non è stato facile e sono solo le prime settimane, ma sì, è stato un ritorno felice.

E non è la sorpresa di trovare un frammento di ceramica romana o un teschio animale pressoché integro. Non è la curiosità del barista del pub sotto casa che mi vede vestita in abiti da lavoro e mi chiede “cosa avete trovato oggi?”. Non è nemmeno il viaggio in minivan con musica anni ’90 sparata a tutto volume o le chiacchiere con i colleghi durante le pause o dopo il lavoro.

È la sensazione di essere tornata alle origini, alle basi del lavoro di archeologo, al rapporto con la terra, alla ricostruzione del passato lì dove essa ha inizio.

Non sono una romantica del lavoro. Sono consapevole di essere parte di un ingranaggio in un progetto enorme che ha ritmi serrati.

Però concordo con chi dice che il nostro mestiere è un privilegio.

Per come le cose vanno nel nostro paese c’è il rischio serio che lo diventi non solo in senso figurato, ma anche in senso sociale, che potrà permettersi di farlo solo chi proviene da un background capace di sostenerlo anche se non guadagna niente con ricerca e progetti.

Il Regno Unito non è immune a questo rischio, ma per il momento continua ad attrarre archeologi da tutta Europa e se lo fa non è solo per il fascino intrinseco della terra di sua Maestà.

È perché al privilegio (e alla fatica) del contatto con la terra corrisponde un riconoscimento che è anche economico e che permette di fare quello che in Italia non sempre è possibile.

Appunto, vivere di archeologia. Almeno per un po’.

Vi terrò aggiornati su come andrà.

 

@domenica_pate

#Interfacce: il tuo voto per l’archeologia che funziona

Chi l’ha detto che archeologia non fa rima con innovazione?

 

Va bene, non fa rima, ma troppo spesso l’idea della polvere che ricopre cocci e muri si riflette anche nell’immaginario comune di una comunità di studiosi chiusi negli scantinati e in biblioteche semideserte.

 

Ora, non vogliamo spingerci a dire che in molti casi la realtà non sia questa, ma ci sono alcune avanguardie che per fortuna punteggiano il panorama dell’archeologia in Italia e delle quali ci piace parlare sulle pagine del nostro blog.

 

Tra queste realtà che puntano sull’innovazione progettuale e gestionale oggi abbiamo scelto di raccontarvi l’avventura di Uomini e Cose a Vignale, chiedendovi anche un piccolo aiuto.

 

“Uomini e cose a Vignale è un progetto per la conoscenza e la valorizzazione del sito archeologico del Vignale di Piombino (LI) e del suo territorio”, si legge sul loro sito internet.

 

Quello che ci piace di questo progetto è che da sempre ha puntato a costruire un rapporto forte con la comunità locale, coinvolgendo le scuole e la popolazione in numerose occasioni, aprendo le porte agli scavi e raccontando la ricerca passo dopo passo. Uomini e Cose a Vignale ha anche un altro primato, è tra i più “antichi” e longevi blog di archeologia in Italia, con il primo post datato al 2008!

 

Archeologia pubblica nel senso migliore del termine, dunque.

 

Ma comunicare e coinvolgere non basta: se l’archeologia non diventa parte integrante di un sistema, non sarà mai sostenibile. È per questo che nasce Interfacce, uno dei 40 progetti selezionati dal bando CheFare3, e che mira a “costruire un modello sperimentale di gestione sostenibile del patrimonio paesaggistico e culturale di un microterritorio”. I nostri prodi archeologi hanno superato la prima selezione e ora serve premere sull’acceleratore per il rush finale.

 

In cosa consiste Interfacce?

 

L’idea è di costruire una rete tra operatori del settore e pubblici diversificati partendo dai cittadini che condividono con gli archeologi i luoghi e la storia di Vignale, luoghi e storia che prima di loro sono appartenuti alle comunità che nel sito toscano hanno vissuto e lasciato le loro tracce, proprio quelle che gli archeologi recuperano, studiano e interpretano.

 

È proprio questo punto di contatto, questo interesse comune a dare il nome al progetto: in archeologia, infatti, l’interfaccia è la superficie di separazione/contatto tra due strati archeologici diversi.

 

L’archeologia, in questo caso, vuole valorizzare le “superfici” di contatto tra uomini del presente e del passato, essere un connettore di epoche diverse, che è quello che dovrebbe in fondo essere sempre.

 

Abbiamo proposto a Elisabetta Giorgi, uno dei coordinatori del progetto, un gioco: definire in 30 parole i concetti chiave del progetto, archeologia, pubblico e comunicazione.

 

1 – Archeologia: un mezzo di comunicazione con il passato, una chiave di lettura del presente e un modo per progettare il futuro, toccando con mano le tante storie che ci sono dietro (e dentro) di ciascuno di noi.

 

2 – Pubblico: tutti gli occhi, le orecchie, il cuore e la testa con i quali dobbiamo confrontarci e verso i quali abbiamo un’enorme responsabilità: restituire il loro passato.

 

3 – Comunicazione: sperimentare modi e strumenti per arrivare a guardare negli occhi, uno per uno, i nostri interlocutori e prenderli per mano per costruire insieme un’emozione e un’avventura intellettuale indimenticabile.

 

Che dite, la diamo una mano a questi archeologi innovatori e coraggiosi?

 

Seguite questo link, registratevi e votate.

 

E infine, fate un ultimo sforzo: condividete questo post o giratelo ai vostri amici.

 

Abbiamo strappato una promessa ad Elisabetta e al suo team: se superiamo la soglia di 100 voti entro la fine della settimana arriverà un ringraziamento per i lettori di Professione Archeologo con un video o un’immagine.

 

Non fateci fare brutta figura, eh!

 

@antoniafalcone

@domenica_pate

 

 

Un ordinario giorno di archeologia “d’emergenza”

 

La sveglia suona improrogabilmente alle 5.30.

 

Capelli arruffati, occhi semichiusi e il desiderio che una tazza di caffè si materializzi sul comodino.

 

Inizia una nuova settimana di lavoro. Destinazione odierna: suburbio romano.

 

Lavagna, palina, freccia del nord, macchina fotografica sono pronti nello zaino, insieme a block notes, cappellino e crema protettiva. Il sole scotta in cantiere se non c’è neanche un albero a farti ombra e rischiare un’insolazione con il pericolo di stare a casa qualche giorno non è cosa da mettere in conto, soprattutto ora, dopo mesi di pausa forzata.

 

Eh sì perché non tutti i giorni si lavora, ci sono periodi in cui non parte un cantiere neanche se si pregano i Lari.

 

Nessuna esitazione quindi. Si parte.

 

In macchina ci sono già i dispositivi per la sicurezza: caschetto, guanti, scarpe antinfortunistiche e giubbotto catarifrangente, oltre all’immancabile trowel. Il resto del corredo da archeologo è formato da: metro a stecca, matite, tavoletta per i rilievi, fogli lucidi, filo a piombo, compasso, mazzuolo, picchetti. E non da ultima una buona dose di pazienza.

 

Pronti, partenza, via.

 

Buongiorno agli operai, verifica del nulla osta e si comincia a guardare la ruspa.

 

Perché non è vero che l’archeologia è avventura e mistero o improbabili scoperte di lavoro alieno sfuggito ad anni di ricerche. L’archeologia può essere, e anzi, nella maggior parte dei casi è, un laureato che fissa una ruspa.

 

La chiamano archeologia d’emergenza: ci sono dei lavori, pubblici per lo più, e l’archeologo controlla che nel corso degli stessi vengano tutelati i beni archeologici.

 

Tanto per iniziare devi trovare il “tuo” punto di osservazione. Ovvero una posizione rispetto al bordo della trincea, nonché ad escavatore e camion, in cui sia possibile vedere in modo soddisfacente le operazioni di scavo, non dare fastidio e non farsi male.

 

Rigorosamente in questo ordine.

 

Dopo attenta osservazione ci riesci e forse per qualche ora starai pure all’ombra: deve essere il tuo giorno fortunato.

 

And now: let’s dig!

 

In piedi, bardata con casco, giubbotto ad alta visibilità, antinfortunistiche e borsa di Mary Poppins a tracolla inizi a controllare il lavoro.

 

La ruspa scava, carica, scava, carica, scava…

 

Di antico non c’è assolutamente nulla, ma bisogna comunque documentare.
Per cui, tra la fine della realizzazione di un tratto di trincea e la posa della tubazione, di qualsiasi tipo sia, bisogna essere reattivi.

 

Con scatto felino (si fa per dire), prendi la palina, la lavagnetta e la freccia del nord. Con un po’ di fatica cerchi di ricordare dove hai messo i gessetti e la bussola. In un attimo è tutto pronto per fotografare la trincea.

 

Metti la palina a piombo, orienti la freccia, posizioni la lavagnetta a favore di camera.  1,2,3… click.

 

E giusto in quel momento qualcuno passa tra te e il tuo soggetto!

 

Mantieni la calma e riprovi.

 

Click.

 

Perfetto.

 

Approfittando di un attimo di distrazione degli operai prendi pure le misure delle sterili stratificazioni, così mentre loro metteranno in opera le tubazioni ti farai uno schizzo. Una volta a casa poi la tua “opera d’arte” dovrà diventare una bella, quanto poco utile, sezione disegnata con Autocad o software affini.

 

Visto che ci sei poi, ti siedi sul ciglio del marciapiede, tiri fuori il block-notes e abbozzi il giornale di scavo.

 

Dopo un po’ guardi l’orologio, sono quasi le 12.

 

Tra un po’ ci sarà la pausa pranzo. Meno male.

 

Mezzogiorno: scatta l’anarchia!

 

Chi si rifugia sul camion, chi corre a comperare il pranzo, chi decanta le doti culinarie della moglie e tu, senza dare nell’occhio, ti rifugi nel bar più promettente. La mission della scelta del bar non è tanto la ricerca del cibo migliore. E nemmeno di quello più economico. Il bar serve per rinfrescarsi d’estate, scaldarsi d’inverno e avere una toilette a disposizione in tutte le stagioni.

 

Mentre ti mangi un panino, portato da casa, bevendo un bibita acquistata in loco per poter usufruire dei confort suddetti, hai un solo pensiero: quando finiranno di scavare oggi? E soprattutto: quante possibilità ci sono che nel corso di questo lavoro io faccia qualche rinvenimento?

 

Perché è quello che metterà alla prova la tua abilità da archeologo, ma non quella teorica o tecnica o stratigrafica. No, quella caratteriale. Perché è nel preciso momento in cui dirai, a voce alta o bassa, “fermate la ruspa” che si scateneranno delle dinamiche di guerra di cui ovviamente all’università non ti avevano parlato.

 

Improvvisamente tu, l’archeologo, diventerai il nemico, e tutti gli sguardi e le parole di chi ti sta attorno andranno in una direzione sola: convincerti che hai avuto un’allucinazione, che quel muro non esiste e che “non possiamo perdere tempo”.

 

Ed è lì che cambierai profilo professionale, da archeologo ti trasformerai in PR: in cantiere arriveranno geometri, ingegneri, direttori dei lavori, capisquadra.

 

A tutti andrà spiegato che bisogna allargare l’area di scavo, che bisogna procedere con la pulizia archeologica del settore, che si dovrà rilevare la struttura e che a partire da questo momento tutto fa capo a te.

 

L’unico tuo alleato sarà il funzionario della Soprintendenza che, prontamente avvertito, arriverà in cantiere, farà un sopralluogo e imporrà delle direttive da seguire.

 

Alea iacta est.

 

A questo punto l’andamento umorale della tua giornata dipenderà dalla squadra con cui lavori.

 

Se tutti si dimostreranno collaborativi, alla fine delle ore di cantiere, tornerai a casa stanco ma soddisfatto.

 

Se invece si instaurerà un clima da guerra fredda rincaserai con un pensiero fisso: ma chi me l’ha fatto fare?

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

 

Il post è stato scritto per il Day of Archaeology 2014

Qui il link

Traduzione di Domenica Pate (@domenica_pate)

 

 

#500schiavi un mese dopo: #verso11G

È passato un mese dall’uscita del bando #500schiavi. Sarebbe inutile raccontare nuovamente tutte le criticità della stesura che, dopo il 7 dicembre 2013, ha generato un fronte di lotta comune, capace di riunire incredibilmente tutte le professioni dei Beni Culturali.
E tuttavia, visto l’approssimarsi della manifestazione che ne è derivata, ripercorriamo le tappe della protesta.

 

1 – Il 7 dicembre viene pubblicato il bando per il reclutamento di 500 giovani per la cultura. Subito sui Social iniziano le proteste e le critiche, non solo su requisiti e monte ore ma soprattutto sull’iniqua “retribuzione”.

 

2 – Nel weekend la contestazione “monta” su Twitter al “grido” di #500schiavi e compaiono i primi articoli in merito sui blog.

 

3 – Lunedì 9 e martedì 8 la tensione sale: noi di PA siamo stupefatti dal successo del nostro articolo, che è spia della rilevanza del problema tra i professionisti dei #BBCC.

Sono giorni mediaticamente concitati: in poche ore si passa dalla forte presa di posizione delle nostre associazioni di categoria (ANA, CIA ), al tam tam tra le diverse realtà attive in rete. I professionisti dei beni culturali fanno sentire a gran voce il proprio disappunto e il salto della protesta dalla rete alle testate giornalistiche nazionali viene da sé, trascinato da cinguettii, post, pagine/gruppi fb. (Qui trovate la rassegna stampa)

 

 
4 – Viene così indetta la manifestazione dell’ 11 gennaio, 500 no al Mibact.

 

 
5 – Il primo risultato si ottiene domenica 15 dicembre, quando il Ministro On. Massimo Bray, incalzato nel corso della trasmissione “Che tempo che fa?” sulla questione #500schiavi, prende atto dei problemi del bando e promette, tra le altre cose, di migliorarlo.

 

 
6 – Tuffo carpiato con doppio avvitamento della macchina del MIBACT: a tempo di record il 16 dicembre esce una nuova stesura del bando  con requisiti e monte ore attenuati.

Non è successo il miracolo di Natale, sono state limate tutte le caratteristiche legalmente impugnabili in modo semplice e diretto. È un buon segno, ma il problema resta.
Ma non demordiamo.

 

 

7 – Ed ecco arrivare #verso11G: il sit-in del 20 dicembre davanti alla sede del Ministero.

Sotto la pioggia battente, dopo aver visto passare sottosegretari meno affabili delle forze dell’ordine (non serve fare nomi, vero?), i delegati dei manifestanti vengono ricevuti dal Capo di Gabinetto del Ministero Lipari, dal Segretariato Generale Antonia Pasqua Recchia e dal Direttore Generale per l’organizzazione, gli affari generali, l’innovazione, il bilancio ed il personale Mario Guarany, che di fatto aprono al dialogo con i professionisti dei Beni Culturali.

 

 
E poi? E poi ci sono state le festività natalizie. Ma adesso sono finite. L’11 Gennaio è prossimo.
E ora è il momento di scendere in piazza.
Perché deve essere chiaro che non siamo choosy e neanche piagnoni e tanto meno vecchi brontoloni (come molto gentilmente siamo stati apostrofati da giovani ansiosi di guadagnare 3 euro l’ora).
Siamo professionisti, abbiamo competenze, idee innovative e siamo anche piuttosto stufi dei diktat che piovono dall’alto e ci obbligano a pensare che l’unica strada percorribile per “valorizzare” il nostro patrimonio sia quello di prostrarsi, cospargersi il capo di cenere e accettare un altro anno di “formazione” inutile.
Prima di tutto partiamo dalle spiegazioni: l’unico modo per impiegare 2,5 milioni di euro era questo? Qualcuno ha pensato a valide alternative? Oppure era molto più “comodo” ripiegare sul classico dei classici: stage retribuito senza futura possibilità di assunzione (che alla fine conviene andare a farlo in un’azienda privata dove forse poi assumono anche…) per parcheggiare altri 500 giovani che tanto dopo un anno emigreranno o cambieranno lavoro?

 

 

Tirare a campare è davvero l’unica possibilità che volete/vogliamo darci?
E sia chiara un’altra cosa: non chiediamo assistenzialismo, ma possibilità di lavoro.
Innovazione, creatività, risveglio culturale sono parole che devono andare di pari passo con l’idea di tutelare e conservare il nostro patrimonio culturale.
Rifiutiamo il bando e l’idea che sottende al bando perché ci sembra una panacea temporanea che non affronta i veri nodi del settore.
Lo sappiamo benissimo che da qualche parte bisognava iniziare, dopo anni sciagurati di tagli indiscriminati, ed è proprio per questo che ci sembra che sia stata sprecata un’occasione.
Le nostre proposte, embrionali, magari utopiche, le abbiamo discusse qui e qui.
E le richieste sottese alla manifestazione sono enucleate nella piattaforma programmatica, scritta nero su bianco.
Siamo la #generazionepro e sarà difficile fermarci, perché per la prima volta siamo uniti non solo per protestare ma per proporre un futuro diverso.

 

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

Credits immagine: Davide Arnesano (soggetto, disegno, colori)

#nottedeiprofessionisti: Professione Archeologo c’è

Facciamo il punto della situazione.

 

La protesta iniziata a partire dalla nota del MiBAC è cresciuta in maniera esponenziale grazie al dibattito apertosi in rete. Basta cercare su Twitter gli hashtag ad essa correlati (#no18maggio #generazionepro #VolontariAChi) per rendersene conto. Siamo velocemente passati dalla polemica sull’impiego dei volontari durante la Notte dei Musei 2013, alla protesta nei confronti di un sistema che fa del volontariato un surrogato del lavoro retribuito.

 

È ora di dire basta.

 

Con la scusa della crisi economica, precariato perenne, disoccupazione, tirocini “aggratis”, stage non spesati e tutte le variazioni linguistiche sul tema, sono diventati il pane quotidiano di tutti noi.

 

È tempo di sostituire la solita approssimazione e mancanza di lungimiranza nel campo delle politiche culturali con strategie in grado di valorizzare le professionalità che si sono formate in anni di studio. Bisogna ribadire che la cultura può e deve essere il motore della crescita, l’unico investimento sicuro sul futuro di questo paese.

 

E allora cominciamo a cambiarle le cose, ed iniziamo dal dimostrare che non siamo un esercito invisibile, che gli operatori dei beni culturali (archeologi, storici dell’arte, archivisti, bibliotecari e via dicendo) vogliono dire la loro, vogliono essere al centro del dibattito pubblico, perché hanno idee, proposte e le competenze per realizzarle.

 

Come fare?

 

Facile.

 

Prendete carte e penna e scrivete un cartello come quelli che vedete qui tra le mani dello staff di Professione Archeologo. Scattatevi una foto (macchina fotografica, webcam, cellulare, dipinto ad olio, Photoshop) e caricatela sulla bacheca di Notte dei Professionisti, l’evento FB dedicato. Se siete davvero avanti e avete un account Twitter caricate la foto anche lì, senza dimenticarvi gli hashtag #no18maggio #generazionepro e #VolontariAChi #nottedeiprofessionisti. Successivamente raccoglieremo tutte le foto caricate on line in un album Flickr che potrete visualizzare e condividere per dire “Io c’ero”.

 

Se vi trovate dalle parti di Roma, poi domani pomeriggio prendete il vostro cartello, salite sull’autobus o su qualsiasi altro mezzo di locomozione e fatevi trovare alle 17 a Castel S. Angelo (via Giovanni XXIII) per partecipare al flashmob promosso da Confederazione Italiana Archeologi e Assotecnici, e che Professione Archeologo ha contribuito ad organizzare fin dal primo istante.

 

Siate numerosi che, come direbbe mia zia, “dobbiamo finire al telegiornale”, e munitevi di smartphone, tablet, macchine fotografiche per documentare l’evento e diffonderlo on line.

 

È solo l’inizio di un percorso che ci deve vedere protagonisti ed il primo passo è uscire dall’anonimato.

 

E quale miglior modo che metterci la faccia?

 

PS: Per qualunque informazione non esitate a contattarci via mail o attraverso i nostri canali social!