Pompei@Madre: l’antico nel contemporaneo

La mostra Pompei@Madre è frutto della collaborazione tra il Parco Archeologico di Pompei e il Museo di Arte Contemporanea di Napoli: un’occasione nella quale non è il contemporaneo a far mostra di sé in un sito o area archeologica, ma al contrario è l’antico ad “occupare” gli spazi espositivi dell’arte di oggi. Un esperimento fortemente voluto da Massimo Osanna e Andrea Viliani, curatori della mostra.

 

La mostra è articolata in due capitoli:

 

 

 

Su invito di Scabec, società della Regione Campania per la valorizzazione e promozione dei beni culturali regionali, sabato 17 marzo abbiamo preso parte all’#InstameetPompeiMadre, un evento organizzato in collaborazione con Igers Napoli che ha visto la partecipazione di blogger e instagramers impegnati a raccontare attraverso immagini e parole questo esperimento espositivo. Una sinergia di intenti tra istituzioni culturali locali per valorizzare un patrimonio artistico universale.

 

Sottotitolo della mostra è infatti “Materia archeologica” perché di questo si tratta: di materia antica e contemporanea in dialogo. Il dipanarsi della giustapposizione tra opere d’arte contemporanee e oggetti d’uso del passato prende le forme di una Domus contemporanea: le sale del Madre si trasformano così nelle stanze di una tipica dimora pompeiana. Atrium, Fauces, Triclinium, Cubiculum vissuti e riletti tra le installazioni dei più importanti artisti che impreziosiscono le collezioni del museo.

 

Il concept alla base di questo innovativo esperimento è leggibile nelle appassionate parole di Andrea Viliani, eletto da Artribune quale Miglior Direttore di Museo in Italia per il 2017 .

 

“Napoli non è una città dove il passato è cristallizzato, ma qui è vissuto quotidianamente. E come Pompei ci costringe a guardare all’integrazione tra natura e materia, così è necessario intaccare il pregiudizio che nei musei contemporanei tutto deve essere contemporaneo, dall’architettura alle opere. È contemporaneo il nostro modo di guardare alle cose, non gli oggetti.”

 

Tante e tali sono le impressioni suggerite dalla mostra che non basterebbe un post per raccontarle tutte. Abbiamo deciso così di stilare la nostra Top Five delle sale di Pompei@Madre:

 

Sala Sol Lewitt – Opus Sectile

 

L’integrazione perfetta tra i colori di Pompei e le celeberrime linee di uno dei più importanti artisti americani: i Wall Drawings posti su due pareti affrontate sono un intreccio di migliaia di linee rette sovrapposte che frammentano lo spazio pittorico e avvolgono l’opus sectile proveniente dalla casa di Marco Fabio Rufo, collocato al centro della sala a catturare lo sguardo dei visitatori. Piccole tessere di marmo colorato inquadrate da una fascia monocroma bianca: doveva essere la pavimentazione di un portico colonnato della sontuosa villa pompeiana.

 

Sala Mimmo Paladino – Cubiculum

 

L’angoscia della morte cristallizzata nel calco di un genitore e del suo bambino, fissati per sempre nei millenni a venire da quel 79 d.C.. Immagine del terrore che sopraggiunge con la catastrofe naturale e l’empatia della scultura bianca in forma umana stilizzata che sembra disperarsi contro il muro della sala. Sono immagini fortemente evocative, ancor più enfatizzate dai segni graffiati sulle pareti. Il cubiculum appare così come spazio del sonno eterno.

 

Sala Richard Long – Culina

 

Una città nel pieno delle sue attività quotidiane: scambi commerciali, vita nelle botteghe e per le strade, questa era Pompei all’alba dell’eruzione del Vesuvio. Della fiorente laboriosità della cittadina vesuviana rimangono gli oggetti di uso comune: anfore, spiedi, mortai, pentole, tegami, tutte le suppellettili che avremmo potuto trovare nella cucina di una delle tante domus di Via dell’Abbondanza. Materia in trasformazione, come il fango, unione di acqua e terra che, nell’installazione di Richard Long, è distribuito sulle pareti della sala e che si pone in connessione con il cibo, materia che nutre.

 

Sala Jeff Koons – Taberna/Moenia/Pomerium

 

Artista di rottura e di denuncia, Jeff Koons con la sua arte racconta la cultura contemporanea nei suoi miti di materialismo e consumismo, rileggendo la Pop Art e amplificandola a dismisura nelle sue dimensioni. Supereroi e pubblicità, tutto il patrimonio delle immagini della globalizzazione che corre sulle pareti della sala a lui dedicata. E al centro il simbolo del conflitto: proiettili di catapulta rinvenuti lungo le fortificazioni di Pompei, ricordo dell’assedio di Silla dell’89 a.C. con il generale romano vittorioso sui pompeiani, primo passo verso l’ingresso della città nell’orbita politica romana.

 

Sala Rebecca Horn – Sepulcra

 

Infine la vanità della vita nel confronto tra l’installazione di Rebecca Horn e i cippi funerari pompeiani. Le riproduzioni in serie di uno dei teschi del Cimitero delle Fontanelle di Napoli sono coperte e riflesse ad un tempo in specchi mobili, simboli di vanitas barocca e della continuità fra vita e morte. Un memento mori che incontra i segnacoli dei monumenti funerari extra moenia di Pompei: cippi in pietra lavica, calcare, tufo o marmo che riproducono forme antropomorfe stilizzate e sempre corredati da iscrizioni con il nome e l’età del defunto.

 

 

A completamento di questa rapida carrellata all’interno della Domus Contemporanea allestita tra le sale al primo piano del Madre, abbiamo un Extra Bonus da raccontarvi. Basta salire con noi al terzo piano ed entrare nel pieno della Materia Archeologica: la terra e quello che restituisce.

 

Sala Ø – Lo scavo archeologico come ipotesi e narrazione (strumenti, scoperte, distruzioni, diari)

 

Un viaggio nel tempo che ci narra della Pompei scavata, rinvenuta, documentata e di coloro che materialmente l’hanno portata alla luce. Forse la sezione più archeologica di tutta la mostra benché non siano esposti vasi, oggetti o affreschi provenienti dalla città antica. Potremmo definirlo lo scavo dello scavo, con una provocazione.

 

Alle pareti i diari di scavo del Settecento con le belle grafie degli scopritori, disegni a mano e un linguaggio arcaico che poco hanno a che fare con le US e i rilievi di oggi; le schede inventariali post bombardamento degli anni Quaranta con l’elenco dei pezzi andati perduti, ma soprattutto nelle teche gli strumenti di scavo della metà del Novecento.

 

Picconi, ceste per il trasporto della terra di risulta, lanterne per scavare al buio, squadre da cantiere e i setacci: mancano le trowel, la stazione totale e i droni, tutto l’instrumentum che oggi siamo abituati a maneggiare in cantiere e che magari un giorno andranno a riempire le sale di qualche museo del futuro per raccontare la Professione dell’Archeologo.

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

 

Info utili:

Orari

Lunedì / Sabato
10.00 – 19.30
Domenica
10.00 – 20.00

Martedì chiuso

 

 

Per comunicare l’archeologia NON serve un archeologo. Disse il CNR.

Per comunicare l’archeologia, secondo il CNR, che, ricordiamolo, è il Consiglio Nazionale delle Ricerche e dunque dovrebbe di fatto essere un’autorità in fatto di ricerca scientifica, NON serve un archeologo.

 

No, avete capito bene. Serve un laureato in Scienze dello Spettacolo e Comunicazione Multimediale o in Scienze dello Spettacolo e della produzione multimediale o in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo.

 

Uno cioè che ha studiato cinema, teatro, comunicazione multimediale ma che dubitiamo abbia mai maneggiato una trowel. Sì, la trowel, quell’attrezzo che definisce un archeologo, che lo aiuta a distinguere e asportare gli strati di terra.

 

Come dire che la comunicazione scientifica della fisica quantistica posso farla io che sono laureata in Metodologia della ricerca archeologica. Fatemelo fare, vi prego, vi stupirò con effetti speciali che il tunnel dei neutrini di gelminiana memoria sembrerà una trovata meritevole della prima pagina di Nature.

 

Qui non stiamo parlando di ufficio stampa o di social media management. No, qui parliamo di comunicazione scientifica (Attività di comunicazione e divulgazione della ricerca scientifica nel campo dell’archeologia urbana e attuazione di strategie di audience development e public engagement, condotte attraverso la gestione delle informazioni e delle relazioni con gli stakeholders e finalizzate a consolidare i rapporti con la città), una cosa seria per un progetto ancora più specialistico, se vogliamo: “ Context – Cultura materiale, contesti archeologici e paesaggi culturali dell’area mediterranea”. E l’unico requisito richiesto che abbia a che fare con l’archeologia è aver lavorato due anni nel settore della comunicazione e della divulgazione della ricerca scientifica nel campo dell’archeologia urbana.

 

Cosa che solleva ancora più ambiguità su questo bando: quante saranno le persone che rispondono esattamente a questi criteri? 

Sarebbe bastato richiedere un laureato in discipline umanistiche con un curriculum di comprovata esperienza per non sollevare dubbi fortissimi sulla trasparenza di questo bando pubblico e per aprire le porte anche agli archeologi, che invece così sono totalmente tagliati fuori. Un’assurdità.

 

Possiamo veramente accettare che a comunicare l’archeologia urbana e le sue complesse dinamiche che soltanto chi ci lavora tutti i santi giorni conosce, possa essere un NON archeologo?

 

Ci siamo lasciati scippare musei e scavi per darli in mano ai volontari, ora ci lasciamo defraudare anche della comunicazione del nostro mestiere.

 

E prima che qualcuno possa dire che non esistono figure di archeologi divulgatori la risposta è : esistono! Esistono fin da prima che la comunicazione archeologica diventasse una roba cool. I nostri prodi sono fuori dall’ambito accademico che ha quasi sempre guardato con sospetto chi osava divulgare l’archeologia al pubblico.

 

Evidentemente l’intellighenzia del mondo archeologico preferisce accontentarsi di cooptare, negare le competenze e affidare una disciplina così delicata come la ricerca archeologica a chi su un cantiere non ha messo mai piede, lamentandosi poi contestualmente della chiusura dei corsi di studio in beni culturali. Il pianto del coccodrillo.

 

Ora se fossimo in un paese serio quel bando andrebbe ritirato, andrebbero avviati corsi di comunicazione e divulgazione scientifica dell’archeologia nelle università chiamando gente competente a fare da docenti. Solo così, in un futuro non tanto lontano, forse potremmo avere più laureati in discipline archeologiche con una formazione ibrida, non costretti a lavorare al call center o al McDonald.

In caso contrario i prossimi comunicatori di archeologia urbana saranno gli umarell con una solida formazione dietro le transenne di un cantiere urbano.

 

 

Qui il link al bando

 

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)