Ma ci prendete in giro?

Era tutto un bluff. Il grande bluff.

 

Certo, anche noi che ci volevamo credere!

 

Ma davvero il neo ministro appena nominato poteva uscirsene con una dichiarazione che non fosse aria fritta?

 

“Il Ministero dei Beni Culturali è il più importante ministero economico del Paese” e bla bla bla bla.

 

E così in tutte le interviste e gli interventi pubblici. A farci credere che i momenti bui erano al capolinea, che adesso sì che si investirà in cultura, che il punto di svolta era ad un passo.

 

Dopo la vicenda #500schiavi nella quale era rimasto imbrigliato il predecessore Massimo Bray, confidavamo tutti in maggiore attenzione ai proclami.

 

Non che proprio ci dovessero dire la verità del tipo “Non ci sono i soldi, non c’è neanche la volontà, fosse per noi italiani estiqaatsi dei beni culturali ma è l’Europa che ce lo chiede, sennò ci vengono a commissariare per palese inadempienza”.

 

Voglio dire, siamo capaci di tenere chiuso il Mausoleo di Augusto in occasione del bimillenario della morte e di non fare uno straccio di politica turistica che aiuterebbe a riempire le casse del comune di Roma, figuriamoci se davvero pensiamo di investire nei beni culturali. Suvvia, sono cose che si dicono, tipo le frasi fatte sul tempo “che bella giornata, oggi fa freddino, domani sarà umido”.

 

Ecco, io non dico che ce la dovevano dire proprio così la verità.

 

Però neanche prenderci per sprovveduti. Tutto sommato abbiamo lauree, specializzazioni, dottorati che non servono a nulla quando cerchi lavoro, ma sono abbastanza per capire certe cose. E poi siamo anche abituati.

 

Perché ad oggi, di politiche per i beni culturali che possano creare posti di lavoro non se ne sono viste. Al contrario si è visto che l’unica direzione verso cui si stanno rivolgendo tutti gli sforzi di enti locali e governo centrale è una sola: il volontariato.

 

E’ di ieri la notizia che “il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini e il Sottosegretario di Stato del Ministero del Lavoro, Luigi Bobba hanno stipulato un protocollo di intesa che prevede la realizzazione di progetti di servizio civile nazionale per promuovere lo svolgimento di attività di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale”.

 

Cioè la promozione delle attività di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale la facciamo fare a giovani tra 18 e 28 anni in cambio di pochi spicci.

 

Giusto per il biglietto del cinema e per pizza e birra nel weekend.

 

 

@antoniafalcone

Gli archeologi nel paese dei balocchi

C’era una volta un paese piccolo piccolo.

 

In una città grande grande di questo paese piccolo piccolo, si discuteva in quei giorni del ripristinare l’arena di un famoso vecchio rudere conosciuto in tutto il mondo.

 

Lo chiamavano sempre Colosseo e lui avrebbe voluto dire che in realtà la sua titolatura completa era Signor Anfiteatro Flavio, ma preferiva star zitto che in questi tempi moderni era meglio, tanto era abituato agli equivoci da secoli.

 

E di questa idea di ricucire un po’ là e un po’ qua il vecchio rudere parlavano tutti: dal professore universitario di fama che l’aveva proposta, al ministro addetto ai monumenti della nazione che, addirittura, ci aveva cinguettato sopra.

 

C’era chi diceva “Sì! Dai, facciamoci i concerti” e chi invece, convinto ormai che al vecchio rudere non rimanesse altro che farsi idolatrare, urlava al sacrilegio.

 

Taluni più sensatamente suggerivano che l’arena ripristinata sarebbe stata utile alla comprensione dei poveri turisti che, con tutti quei buchi, si chiedevano se i leoni e i gladiatori facessero in realtà i 100 m a ostacoli invece di combattere. Molti ipotizzavano tangenti e disastri, mentre qualcuno già immaginava di giocare nell’anfiteatro il derby con la palla rotolante.

 

Insomma la situazione era già abbastanza surreale quando su uno strumento nuovo, chiamato faccialibro, una signora archeologa si disse scandalizzata perché qualcuno aveva citato, sulle sorti del Colosseo, accanto a un professorone di archeologia grande grande, di quelli che stanno nelle enciclopedie pure da vivi per capirsi, un archeologo, per lei piccolo.

 

Piccolo perché non stava nelle aule polverose a insegnare, ma il lavoro di archeologo “si limitava” a farlo e, nei ritagli di tempo, osava anche essere il presidente di un’associazione che, come altre, rappresentava gli archeologi piccoli piccoli.

 

La signora doveva essere poco informata sulla realtà in cui viveva: perché anche lei, a ben vedere, era una di quegli archeologi piccoli, e anzi, da decenni, viveva proprio facendo lavorare altri archeologi piccoli piccoli.

 

E mentre tutti questi archeologi piccoli dicevano “che noi non siamo piccoli per niente e che i grandi ci vogliono tenere piccoli così almeno non diamo fastidio”, si alzarono le voci di un politico piuttosto grande, o almeno lui così credeva, e di un imprenditore grandissimo.

 

Stavolta non sulla storia del rudere vecchio, ma su un’altra leggenda che girava di quei tempi.

 

Infatti si diceva che per risollevare le sorti della cultura di quel paese piccolo piccolo bastava utilizzare una formula magica che consisteva nel fare una giravolta, quattro saltelli e scandire ben benino le sillabe “a co-sto ze-ro”.

 

La chiamavano in linguaggio altisonante decrisissolvenda. Perché si narrava, in sottoscala bui e polverosi, che quando c’è crisi la prima cosa da fare è rassegnarsi e la seconda è nascondere gli zecchini d’oro, aspettando tempi migliori.

 

E così il politico e l’imprenditore decisero che quegli stessi archeologi piccoli piccoli potevano anche continuare a lavorare nei call center e nei fast food o chiedere la paghetta a mamma e papà, perché il lavoro serio non era cosa per loro. Il lavoro serio, quello di valorizzazione, lo dovevano lasciare agli americani, quelli dei “repository”.

 

“Un lavoro che se Roma dovesse fare da sola, con le proprie risorse, richiederebbe decenni. Oggi, invece, possiamo avvalercene a costo zero” fecero incidere su un’epigrafe a futura memoria.

 

E tutti a plaudire a questa idea geniale.

 

Perché la formula magica “a costo zero” funziona sempre nel paese dei balocchi.

 

*

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

 

 

 

 

C’è l’archeologo che – Riflessioni a margine dell’incontro degli #archeoblogger

C’è l’archeologo che crea e aggiorna il blog della Soprintendenza.

 

C’è l’archeologo che ha smesso di fare l’archeologo e fa il social media manager.

 

C’è l’archeologo che ha un blog, anzi due, gira, monta e carica video su YouTube.

 

C’è l’archeologo che sveglia i musei e sa come raccontare le storie.

 

C’è l’archeologo che gestisce i canali social della Soprintendenza.

 

C’è l’archeologo che spiega l’archeologia ai bambini.

 

C’è l’archeologo che fa il ricercatore, l’informatico e il blogger.

 

C’è l’archeologo che raccoglie e studia i dati di analytics perché, senza i numeri, le chiacchiere stanno a zero.

 

C’è l’archeologia del blogging con chi ha aperto un blog già nel lontano 2005.

 

E c’è una giornalista che li ha riuniti, non una, ma due volte.

 

Tutto ciò accade a Paestum dal 2013.

 

La sfida? Portare degli umanisti, cresciuti tra Virgilio e il manuale di Carandini, a parlare di social media, blogging, storytelling e archeologia.

 

Sono gli archeoblogger e sono tra noi.

 

Un miscuglio strano di linguaggi che trovano una sintesi sul web: riescono a parlare di antichità senza tirare per forza in mezzo il “tempio tetrastilo” , riescono a comunicare al grande pubblico senza cadere nel facile sensazionalismo di matrice kazzengheriana, riescono ad essere multitasking e a loro agio tra Facebook, Twitter, Tumblr, WordPress. Conoscono bene il significato di paroloni come engagement, insight, EdgeRank, reach, tone of voice e tanti altri.

 

Si aggirano per il web, ognuno con un blog, un sito o diversi account social e dicono ciò che pensano sul panorama dell’archeologia italiana: evidenziano con chiarezza quello che non va e quello che invece andrebbe valorizzato.

 

Generalmente parlano tra di loro o con altri professionisti. Le istituzioni accademiche e/o politiche spesso sono assenti e poco inclini al confronto. Ma tutto questo non scoraggia i nostri archeologi Indie (Giuliano De Felice dixit)  perché sono abituati a perseverare.

 

Non c’è nessuno che conosca meglio di loro:

 

l’arte della pazienza messa alla prova strato su strato, coccio infinitesimale su coccio, lucido su lucido sbavato da tratti di china;

la flessibilità, cioè “che tanto hai voglia ad essere archeologo, alla fine ti toccherà inventarti un lavoro serio tra un cantiere e l’altro”.

 

E di pazienza, flessibilità e creatività dovremo averne tanta in futuro, perché, nonostante il nostro Ministero, rappresentato a Paestum dalla dott.ssa A.M. Buzzi (Direzione Generale per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale), abbia pazientemente interloquito con i blogger, non ci è sembrato di vedere una forte e chiara volontà di creare, nelle attività di comunicazione e divulgazione del patrimonio culturale, degli spazi di azione condivisi tra i professionisti e il MiBACT.

 

La Direzione Generale per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale dovrebbe infatti offrire un servizio di Comunicazione e promozione del patrimonio culturale: “supporta il Direttore Generale nelle attività relative alla comunicazione, alla promozione e alla diffusione della conoscenza del patrimonio culturale, in ambito locale, nazionale ed internazionale, anche mediante la progettazione e la realizzazione di apposite campagne integrate di informazione e di divulgazione, in campo nazionale e internazionale (…) studia le migliori pratiche e i nuovi modelli operativi finalizzati alla presentazione al pubblico del patrimonio culturale, anche attraverso sistemi innovativi di divulgazione, esposizione multimediale e modelli virtuali, film documentari, pubblicazioni elettroniche”.

 

Lodevole dichiarazione di intenti, eppure di strada da fare ce n’è ancora tanta.

 

E se è vero che il motivo ufficiale è “Non ci sono fondi”, è altrettanto ineludibile il fatto che bisogna fare in fretta. Chi valorizza il patrimonio culturale del nostro Paese deve dare un segno tangibile della volontà di puntare sulla comunicazione e sull’allargamento del pubblico, perché senza il pubblico, senza la comunità che accoglie e vive e difende la propria storia, cosa ci stanno a fare gli archeologi?

 

Gli archeoblogger continueranno a fare quello che gli riesce meglio: cercare di portare l’archeologia dalle aule accademiche e dalle trincee di sottoservizi al mondo là fuori.

 

Speriamo che il mondo là fuori sia pronto ad accoglierci, altrimenti quello che rimarrà sarà un chiacchiericcio di sottofondo ai tanti problemi che ci sono.

 

E proprio perché noi facciamo sul serio, a marzo 2015 uscirà per le edizioni Cisalpino (Istituto Editoriale Universitario), il volume Archeostorie, a cura di Cinzia Dal Maso e Francesco Ripanti. Storie vissute di archeologi che raccontano l’archeologia di oggi (e forse anche quella di domani).

 

@antoniafalcone

 

[Credit foto: Francesco Ripanti]

 

 

Il ritorno degli #archeoblogger: l’intervento di Professione Archeologo alla #BMTA2014

 

Sono stati giorni intensi, pieni di scoperte, incontri, interessanti prospettive future.

 

Torniamo dalla XVII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico cariche di idee e pronte a nuove sfide. L’incontro con gli altri #archeoblogger è stato illuminante, ed ha mostrato chiaramente che l’archeologia on line è sempre più ricca e sfaccettata e che si evolve in fretta, proprio come il web che è il luogo in cui vive, proprio come la realtà di tutti i giorni che non è mai uguale a se stessa.

 

In attesa di raccontarvi più nel dettaglio le nostre sensazioni e riflessioni, vi proponiamo qui le slide dell’intervento della nostra Antonia Falcone, che in occasione della tavola rotonda SOCIAL MEDIA & ARCHAEOLOGICAL HERITAGE FORUM. ARCHEOBLOG: RACCONTARE L’ARCHEOLOGIA NEL WEB ha parlato di analytics, dati e sentiment degli utenti che interagiscono sul blog e sui canali social di Professione Archeologo, così come abbiamo potuto registrarli nell’anno e mezzo di vita del nostro sito.

 

Cosa cercano gli archeologi italiani in rete? E perché lo fanno?

 

 

Qui trovate le slide del nostro intervento a Paestum