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La locandina di Big Bang Data - 31 gennaio 2017 - Roma

#BigBangData: il come e il perché di un workshop di debugging collaborativo su OpenICCD

Da qualche anno a questa parte si fa un gran parlare di open data (dati aperti) specialmente in connessione con enti ed amministrazioni pubbliche.

Se ne parla, naturalmente, anche nel campo dei beni culturali, e non perché è un tema che va di moda e fa tanto archeonerd, ma perché in questo caso specifico “liberare” i dati significa anche permettere l’accesso ad una conoscenza che è, per principio, appartenente a tutti, quella al nostro patrimonio culturale.

Fotografie di reperti archeologici, di monumenti e opere d’arte. Schede di catalogo di ogni oggetto custodito nei nostri musei. Foto d’epoca. Giardini e parchi storici. Palazzi e residenze di pregio.

Sono solo alcuni dei “dati” che possono essere “liberati”, le cui informazioni possono essere messe in rete e condivise, così che chiunque ne abbia bisogno, vuoi per curiosità personale o per motivi di ricerca o business, possa avervi accesso.

I dati aperti, però, non devono essere soltanto disponibili, devono anche essere accessibili, il che significa che chi li rilascia deve farlo in modo tale da rendere la loro consultazione facile e aperta a tutti e quanto più possibile pronta al riuso.

Riuso, in particolare, è la parola chiave, perché se c’è una cosa che ho capito dei dati aperti è che il loro valore cresce in modo direttamente proporzionale alla loro riusabilità (termine proprio dell’informatica, wikipedia lo definisce così).

Il concetto è immediato quando il “dato” è un’immagine, visto che il grado di riusabilità di un’immagine pubblicata in rete dipende prima di tutto dalla licenza con la quale essa è rilasciata (è per questo che piattaforme come Wikicommons sono una ricchezza per l’umanità, come sappiamo bene noi archeostickeristi).

E se invece abbiamo a che fare con una scheda di catalogo?

In tal caso, visto che una scheda catalografica altro non è se non un set di informazioni organizzate, la riusabilità dipende prima di tutto dal modo in cui le informazioni sono state organizzate, archiviate e condivise.

È insomma una questione di metodo e di processo, entrambi concetti con cui noi archeologi abbiamo una certa familiarità, ma è anche una questione di necessità e delle finalità con cui questi dati sono stati “prodotti” da qualcuno e verranno in seguito cercati da qualcun altro.

In altre parole, perché i dati aperti vengano riusati ed esprimano quindi tutto il loro potenziale, è necessario che chi “crea” i dati e chi “riusa” trovino un terreno comune, che diventa tanto più fertile quanto più fitto e proficuo è il dialogo tra le parti coinvolte.

È proprio questo lo scopo con cui nasce Big Bang Data.

I dati aperti sono quelli rilasciati dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, il quale, tra le altre cose, gestisce il Catalogo generale del patrimonio archeologico, architettonico, storico artistico e etnoantropologico nazionale. Nel 2016 l’istituto ha lanciato la piattaforma OpenICCD il cui fine dichiarato è quello di “avviare un processo di condivisione dei dati di catalogazione dei beni culturali”, una vera e propria miniera per chiunque operi nel campo dei beni culturali, organizzata su base regionale e per categoria (reperti archeologici, oggetti d’arte, beni fotografici).

Dentro OpenICCD, però, sono presenti anche strumenti che vogliono “soddisfare le esigenze di utenti che si presentano diversificati per caratteristiche e aspettative”: l’istituto quindi non sta solo rilasciando i propri dati, ma si sta aprendo a quel dialogo di cui parlavo prima e lo sta facendo mettendo in campo tutta una serie di strategie per la condivisione mirata al riuso.

Scusate se è poco, verrebbe da dire.

In questo percorso il personale di ICCD è stato aiutato da opensensorsdata, che ha messo a punto il masterplan e testato con ICCD modelli e piattaforme, in un “clima da bottega” che ha coinvolto persone dalle competenze molto diverse tra loro e che Luca Corsato ha raccontato magistralmente in questo post.

Tutto questo costituisce il prequel di Big Bang Data.

Quello che succede adesso è il passo successivo. Questi strumenti ci sono, i dati sono già presenti e molti altri verranno rilasciati nel corso del tempo.

Serve stabilire quel famoso dialogo. Ed è qui che entriamo in scena noi.

Il workshop del 31 gennaio sarà l’inizio di quello che a noi piace pensare come un percorso quanto più possibile condiviso e replicabile di lavorazione sui dati aperti in campo culturale.

Fondamentale è il concetto di bug, un altro prestito dal linguaggio informatico, termine che in questo caso indica semplicemente le mancanze, le cose che non funzionano e le incomprensioni tra attori diversi.

Quali bug percepisce chi organizza e rilascia i dati?

E quali bug percepiscono gli utenti? Sono diversi a seconda dei loro interessi e delle motivazioni che li spingono al riuso?

Ecco, sarà interessante scoprirlo insieme.

Capire, per esempio, se un imprenditore che ha in mente di usare gli opendata di ICCD per valorizzare dal punto di vista turistico-economico un territorio, percepisce le stesse difficoltà di chi vuole usare quei dati per realizzare una ricerca storico-archeologica.

E quali difficoltà di riuso vede in OpenICCD un operatore museale che sta mettendo a punto una mostra che colleghi e raccordi i reperti del suo museo a quelli del territorio circostante?

E non finisce qui.

Parleremo anche di lessico e searchability, di dati georeferiti, di crowdsourcing per il debugging e di quale utilità possono avere in questo i social media, discuteremo di normativa e di codifiche. E verranno presentati e raccontati esempi virtuosi e best practice di riuso con gli interventi di Wikimedia Italia e dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (IBC), lo stesso lavoro che ha portato ad OpenICCD.

Si lavorerà sodo durante Big Bang Data e dal workshop usciranno idee, proposte, e, ce lo auguriamo, delle linee guida su cui elaborare strategie di lavoro futuro.

Lo abbiamo percepito come un modello, un vero e proprio format in cui il nostro ruolo (mio e di Antonia, di Astrid e Paola) è quello di fungere da raccordo tra i diversi attori e allo stesso tempo promuovere e incentivare una “metodologia della collaborazione” (un po’ come gli spingitori di guzzantiana memoria 😛 ) che non si limiti solo ad ICCD.

Per il momento, però, partiamo da qui.

Questo è il link all’evento Facebook con tutte le informazioni pratiche e il programma, mentre qui la notizia sul sito di ICCD con il link al modulo di iscrizione.

 

Domenica Pate

@domenica_pate

 

Carica dei #500funzionari al MiBACT

La carica dei #500funzionari: alcune domande

L’abbiamo detto tante volte: diventare archeologi presuppone un lungo percorso formativo.

 

Si parte con la laurea triennale (anni 3), si procede con la magistrale (anni 2). Poi si approda alla specializzazione (anni 2). Per i più temerari si apre il percorso da dottorandi (altri 3 anni) coronato dal post-doc se si vuole intraprendere la carriera da ricercatori.

 

A questi titoli si affianca l’esperienza pratica, sul campo o in laboratorio, che affina le conoscenze e le arricchisce, e spesso quando si lavora in quella che viene chiamata “archeologia preventiva” sui cantieri delle grandi opere, dei lavori pubblici, si connota come vero e proprio lavoro in trincea.

 

Un percorso lungo, dispendioso e non facile, che comporta molta fatica e sacrifici.

 

Se guardiamo però alle condizioni di lavoro di molti archeologi, alla media dei loro guadagni annui o all’alto tasso di abbandono della professione, il dubbio viene: a cosa serve collezionare titoli come punti del supermercato? A sentirsi più preparati? Certo, ma forse anche a prendere tempo visto che le opportunità di lavoro sono sempre più scarse. Serve a seguire la propria vocazione da ricercatori? Anche quello, eppure la strada della ricerca non è certo più semplice di quella dell’archeologia commerciale.

 

In molti casi poi non si tratta di una scelta: per esempio la V.I.Arch può essere redatta solo da archeologi in possesso di diploma di specializzazione o dottorato. Non è un dato da sottovalutare, perché tanti archeologi, per esempio, si iscrivono alle certo non economiche scuole di specializzazione proprio per questo motivo, e per avere qualche possibilità in più nell’eventualità di concorsi pubblici.

 

Appunto, concorsi pubblici.

 

È passato oltre un mese dall’annuncio di 500 future nuove assunzioni al MiBACT in pianta stabile.

 

Constatato il fatto che “500… qualcosa” is the new black al Collegio Romano, avevamo tutti archiviato la notizia tra i buoni propositi per il 2016.

 

Un generale plauso all’iniziativa è stato seguito da dubbi e molte domande, in particolare sulla natura dei profili che saranno richiesti per certe figure. Per esempio, ottima la novità del profilo comunicazione, cosa di cui i nostri beni culturali hanno assolutamente bisogno, ma non è ancora chiaro quali saranno i requisiti dei potenziali candidati.

 

Secondo le prime indiscrezioni il profilo richiesto potrebbe essere quello di laureati in economia e scienze della comunicazione o affini, e qui sarà la nostra attività di archeoblogger, ma ci sembra quanto meno un’occasione mancata quella di non includere gli addetti al lavoro, archeologi, storici dell’arte e via dicendo, dal momento che si tratta oggi di figure sfaccettate e dalle molteplici competenze, non ultima quella appunto di comunicatori e divulgatori.

 

Nel dubbio, l’unica è attendere il bando, abbiamo pensato.

 

Beh, il bando non è ancora uscito, ma nel frattempo c’è stata un’importante novità: lo scorso lunedì è stato approvato in Commissione Bilancio al Senato un emendamento che permetterà l’accesso al concorso per funzionario anche a chi è in possesso di semplice laurea triennale in beni culturali (classe L-01).

 

Lo ammettiamo, siamo perplesse. E a quanto pare non siamo le uniche.

 

In questi ultimi giorni ci sono state diverse prese di posizione negative sulla questione, dalla decisa opposizione del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, presieduto da Giuliano Volpe, al comunicato del Coordinamento Archeologi che riunisce le principali associazioni di categoria ed esprime “ferma contrarietà”. Si sono opposti anche gli storici dell’arte e le guide turistiche di Roma, l’ADI, l’associazione dei dottorandi e dottori di ricerca e la Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’arte.

 

Non sono mancate le polemiche, ma al di là della differenza di opinioni il dubbio rimane.

 

È giusto abbassare i requisiti di accesso sinora richiesti per la qualifica di funzionario?

 

Perché alla fine di questo si tratta.

 

Aspettiamo il bando per fare tutte le valutazioni del caso, ma se il concorso prevederà, com’è probabile, anche una valutazione dei candidati per titoli, quante chance avranno i giovani triennalisti nei confronti di persone molto più titolate?

 

In attesa di leggere il bando e avere qualche risposta, abbiamo voluto coinvolgere nel dibattito la nostra community e martedì scorso abbiamo lanciato su Twitter un sondaggio.

 

Non si tratta, ovviamente, di un dato statistico, ma ci sembra interessante e utile a capire l’umore che l’emendamento ha suscitato tra gli addetti ai lavori e chi studia per diventarlo.

 

 

 

 

 

 

E voi, cosa ne pensate?

 

È giusto aprire anche a chi è in possesso della sola laurea triennale la possibilità di concorrere di diventare funzionario del MiBACT oppure le responsabilità previste richiedono qualifiche più alte? Sono sufficienti solo i titoli oppure l’esperienza sul campo dovrebbe avere maggior peso, e in tal caso, che tipo di esperienza?

 

Insomma, vogliamo sapere come la pensate, quindi sotto coi commenti!

 

@antoniafalcone

@domenica_pate

@OpusPaulicium

 

 

 

Art Bonus Foto libere

Se un giorno d’estate un ricercatore (o sulle limitazioni alla libertà di fotografare fonti archivistiche e bibliografiche)

Il non-sense è sempre in agguato.

 

È strano, ma proprio nei provvedimenti salutati con grande entusiasmo spesso si nasconde un vulnus assurdo ed imprevisto che invece di migliorare la situazione riesce quasi a peggiorare quella esistente.

 

Correva l’anno 2014 quando, tra scene di giubilo e applausi vari, col decreto detto Art Bonus, il Ministro Dario Franceschini decise di liberalizzare la riproduzione fotografica dei beni culturali conservati in ogni dove.

 

L’Italia era finalmente entrata nel XXI secolo! O almeno così pareva.

 

Ben presto, infatti, gli addetti ai lavori ed i più attenti esperti di open data rilevarono che il provvedimento, in effetti, aveva ben più di un problema e che a ben guardare di dati aperti non si trattava affatto.

 

“Sempre meglio di niente” commentarono gli ottimisti. “Eppur si muove” cinguettarono i sarcastici. “Tutto da rifare” dissero i soliti borbottoni. Ma nemmeno questi ultimi avevano previsto che la situazione potesse peggiorare. E invece, l’imprevedibile accadde.

 

Perché, cari lettori, come un tempo si insegnava nelle neglette lezioni di educazione civica, i decreti, come i pomodori in barattolo, hanno la scadenza. Per questo motivo, dopo un po’, vanno convertiti in legge. E nel convertire Art bonus, così amato e criticato, nella foga di migliorarlo, ci scappò il “pastrocchio”.

 

All’indomani della pubblicazione della legge, un ignaro ricercatore (se fosse studente, dottorando, professionista o professore non è dato saperlo, ma di sicuro esperto in materia di Beni Culturali) si accorse di una cosa.

 

Tutti potevano fotografare tutto, ma lui, i documenti d’archivio che gli servivano per proseguire le sue ricerche, no.

 

Quelle foto avrebbe dovuto pagarle.

 

Ohibò, era mai possibile che il legislatore ritenesse le esigenze del ricercatore meno importanti di quelle del turista che scatta un selfie con Paolina Borghese?

 

Rilesse bene tutto. No, purtroppo non si era sbagliato.

 

Sembra un racconto fantasioso e invece è tutto vero.

 

Lo scorso luglio, con la conversione in legge di Art Bonus, è stato approvato un emendamento restrittivo che esclude dalla libera riproduzione i beni archivistici e bibliografici, inizialmente prevista dal decreto.

 

Si torna quindi al regime precedente: le immagini di documenti d’archivio e libri dovranno essere pagate, anche se si è autorizzati a farle con mezzi propri, oppure commissionate al concessionario di turno.

 

Ovviamente tale norma, oltre che essere illogica, crea e creerà problemi a chi fa ricerca o a chi, per svolgere compiutamente il proprio lavoro, ha bisogno di materiale d’archivio.

 

Della sensibilizzazione e della legittima protesta sulla questione si occupa ormai da molti mesi il movimento Fotografie Libere per Beni Culturali, che si propone di favorire la fruizione libera e gratuita delle fonti documentarie in archivi e biblioteche per finalità di ricerca. Sul sito troverete approfondimenti, rassegna stampa e iniziative intraprese.

 

Anche grazie a questa mobilitazione, qualcuno dei componenti della Commissione Cultura della Camera ha ammesso, con apprezzabile sincerità, che la decisione presa è stata un errore. Di prossime rettifiche, tuttavia, per il momento non si ha nessuna notizia.

 

Nell’attesa che qualcosa cambi nel prossimo futuro, è possibile firmare la petizione lanciata da Foto Libere per i Beni Culturali, già sottoscritta da tanti ricercatori, studenti, archeologi e intellettuali fra i quali figurano anche diverse personalità illustri.

 

Foto Libere per il Beni Culturali è anche su Twitter e Facebook.

 

*

 

Paola Romi (@OpusPaulicium)

 

 

 

Riconoscimento: #sipuòfare

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo.

 

I professionisti dei beni culturali hanno deciso di sottrarsi al gioco al massacro che è stato fatto sulla loro pelle per anni, hanno deciso di unire le forze per ritagliarsi un ruolo attivo nella discussione sui provvedimenti che riguardano il futuro del settore.

 

Abbiamo cominciato col dire NO ad un bando che ci trasformava da professionisti pluriformati e competenti in #500schiavi a 3,5 euro l’ora.

 

Ci siamo fatti sentire e qualcuno ci ha ascoltati. Il bando è stato limato e le perplessità sono rimaste. Perplessità che ci hanno fatto scendere in piazza l’11 gennaio.

 

Eravamo tanti, arrabbiati e propositivi, perché le due cose non per forza si devono escludere. Eravamo archeologi, storici dell’arte, archivisti, bibliotecari, categorie che di solito si ignorano reciprocamente e cordialmente.

 

Ci siamo incontrati sapendo di avere un’idea comune di futuro, un futuro che non vogliamo farci strappare di mano, che vogliamo contribuire a costruire insieme a chi ci dovrebbe rappresentare, in un dialogo costruttivo tra nuove interpretazioni politiche, nuove proposte, nuovi scenari.

 

Ecco, forse la parola d’ordine è e sarà sempre di più Nuovo. Anche se hanno tentato di imbrigliarci in vecchi schemi, la verità è che c’è un’intera generazione che non desidera altro se non un confronto serio, pacato e chiaro su alcuni temi chiave.

 

Ed è giunto di momento di darci (e di prenderci) quest’opportunità.

 

Ci piace prendere in prestito le parole di @g_gattiglia:

 

Ora è il momento delle proposte, di invertire, come suggeriva qualcuno in piazza, i cartelli e trasformare i 500no in #500on.

 

Bene, il nostro primo #500on è destinato ad un tema che sta a cuore a tutti i professionisti dei beni culturali: il #riconoscimento della nostra professione, che da ieri é più vicino.

 

In una quasi fatale concomitanza con la nostra protesta, infatti, la Camera dei Deputati ha approvato la PdL 362 (al link il testo della proposta di legge) Madia, Ghizzoni, Orfini che prevede integrazioni al Codice dei Beni Culturali atte a riconoscere i professionisti del settore.

 

Sebbene manchi ancora il via libera del Senato, il fatto è comunque epocale: sia per la velocità con cui si è passati da una mancata approvazione in Commissione Cultura ad una calendarizzazione della discussione in Aula, sia per la larga maggioranza, o meglio per la quasi unanimità (con la sola astensione del gruppo Fratelli d’Italia) con cui è stata licenziata a Montecitorio.

 

Sin qui le buone novelle. E tuttavia non è stata una passeggiata.

 

Alla prima delusione dovuta al ritiro dell’appoggio del Movimento 5 Stelle in Commissione Cultura, si sono sommate le critiche della stessa parte politica lunedì 13 gennaio alla Camera.

 

Molti di noi, quando hanno sentito dire che l’approvazione della #pdl362 “non era urgente” hanno temuto che l’agognato #riconoscimento si allontanasse inesorabilmente.

 

Alcune delle critiche sollevate si basano sul supposto pericolo di creazione di Albi professionali, secondo un’errata lettura del disegno di legge ed una scarsa conoscenza del diritto europeo in materia, nonché sulla mancanza della figura del manager culturale tra le figure da normare.

 

A ridosso dell’approvazione alla Camera, a queste critiche si sono aggiunti gli interventi di alcuni Docenti universitari che chiedevano un ruolo attivo delle Università nell’approntamento degli elenchi ministeriali di professionisti previsti dalla PdL 362.

 

Come è finita per adesso lo sappiamo tutti. Con qualche emendamento e qualche giorno di riflessione quasi tutti gli scettici alla Camera hanno deciso che il #riconoscimento era un atto doveroso.

 

Ringraziando i relatori della proposta di legge, Onorevoli Marianna Madia, Manuela Ghizzoni e Matteo Orfini senza i quali oggi non staremmo neanche a parlare del riconoscimento dei professionisti dei beni culturali, vogliamo aggiungere un “GRAZIE” a noi stessi, a tutti noi professionisti dei beni culturali.

 

Noi che abbiamo trovato il modo ed il tempo di protestare in modo forte, pacifico e civile contro un bando iniquo.

 

Noi che abbiamo dimostrato che tuteliamo il passato, ma sappiamo usare i mezzi di comunicazione del momento come e meglio di altri.

 

Noi che abbiamo scoperto il coraggio e l’orgoglio di riconoscerci in un folto gruppo di professionisti apparentemente eterogeneo, ma dalle richieste comuni.

 

Noi che da ieri sappiamo che le nostre istanze non cadono più nel generale disinteresse.

 

Noi che abbiamo capito che se una cosa ci interessa veramente ed è legittima #sipuòfare

 

Crediamoci.

 

@pr_archeologo

 

La finestra di fronte ~ di Camilla Bertini

La ricerca archeologica può essere divulgata al grande pubblico in Italia? Che ruolo hanno internet e i social networks in tutto questo?

 

La questione è stata discussa all’interno della Borsa Mediterranea del turismo Archeologico di Paestum. I professionisti del settore dei Beni Culturali (e non solo) lamentano la mancanza di piattaforme adeguate alla diffusione della cultura sul web in Italia. Se si prende ad esempio l’estero, l’Italia perde su tutta la linea: per rendersene conto basta accedere ai siti internet dedicati alle collezioni dei più famosi musei  (dal British Museum, al Louvre o al bellissimo Corning Museum of Glass) o, per esempio, alle piattaforme gestite dalle stesse università straniere che raccolgono blog, account Twitter, Facebook e persino canali YouTube.

 

Incontri come quello degli archeoblogger a Paestum sottolineano la necessità di aprire un dialogo fra il professionista archeologo ed il suo pubblico: l’archeologia può e ormai deve diventare interattiva. L’esplosione dell’hashtag #archeoblog su Twitter, trending topic tra i primi dieci in Italia nello scorso giovedì, dimostra come in rete ci siano professionisti e appassionati che sanno come usare gli strumenti web messi a loro disposizione per diffondere cultura e che se ne interessano, ne parlano e vogliono confrontarsi usando tali strumenti. Allora perché in Italia si fatica a far decollare l’informazione digitale?

 

Da un lato si percepisce poca voglia di scommettere sul grande pubblico da parte delle istituzioni: si pensa che la cultura non porti né ascolti né guadagno, e se pensiamo nei termini dell’espressione tristemente comune della cultura come “petrolio d’Italia” forse è davvero così, ma equiparare la divulgazione su vasta scala ad un impegno inutile è in sé un parodosso: come si può incuriosire un potenziale “fruitore” di cultura senza fornigli le informazioni necessarie?

 

Internet ed i mezzi offerti dalla tecnologia non potrebbero invece diventare pubblicità gratuita, oltre che un prezioso alleato nel formare una rete capillare fra il professionista ed il pubblico? Si parla sempre più spesso di engagement anche nel mondo culturale: non è tempo di pianificare stategie a lungo termine, di rendere la cultura non solo accessibile, ma facile da trovare, alla portata di tutti, persino quotidiana?

 

In Italia i segnali sono incoraggianti, ma c’è ancora molto lavoro da fare. L’ideale?

 

Ve lo racconto in un aneddoto.

 

Martedì mattina ricevo una email dal mio professore in cui si scusa, ma deve cancellare il nostro appuntamento per quel giorno. Motivo? Ha un appuntamento in radio per un’intervista.

 

Parlare di vetro antico sulla BBC radio Nottingham?

 

Avevo proprio capito bene.

 

Provenienza e il riciclo delle materie prime, la differenza fra siti di produzione primaria e secondaria, usi e nascita del vetro antico possono sembrare, nel belpaese, argomenti azzardati e magari anche un po’ barbosi da trattare alle tre del pomeriggio in una radio locale, e invece, con la giusta dose di chiarezza è possibile introdurre la materia per tutte le fasce di ascoltatori. Non solo, l’intervista mette anche in luce quanto il lavoro dell’archeologo comprenda diverse fasi di lavoro, non soltanto il vero e proprio scavo archeologico che è forse quello che più fa parte della nostra professione nell’immaginario collettivo (indiana Jones a parte), ma anche tutta la successiva analisi dei dati che andranno a creare l’informazione finale, quella che poi viene effettivamente veicolata al grande pubblico.

 

Non sarebbe bello, auspicabile, cool, se si raggiungesse lo stesso grado di ‘naturalezza’ anche in Italia, magari proprio investendo sulle nuove possibilità date dalla rete.

 

Bè, io me lo auguro. Io sono pronta per una vera e propria rivoluzione digitale.

 

P.s. Chi lo volesse ascoltare l’intervista, a questo link si può trovare la trasmissione integrale della puntata (per l’intervista andare a 3h 24’): la registrazione è disponibile ancora per qualche giorno.

 

*
Camilla Bertini, l’autrice di questo post è su Twitter @Cami82

Da #no18maggio a #FreeArchaeology (dal blog di Alessandro D’Amore)

Vi presentiamo con piacere l’ultimo post di Alessandro D’Amore sul suo blog “Le parole in archeologia“, interessante intervista che parla di precariato, lavoro culturale, crisi e comunicazione. E stavolta @Alex_OLove ci porta in Gran Bretagna, incontrando Sam Hardy di (Un)Free Archaeology.

 

Qui il link al post e di seguito un assaggio dell’intervista:

 

Ciao Sam e grazie mille per aver accettato di fare questa chiacchierata. Sono molto contento di questa opportunità.

Ciao Alessandro, grazie a te per quest’intervista. Noi attivisti (anti)#freearchaeology siamo d’accordo con voi attivisti di #no18maggio sulla necessità di costruire una consapevolezza ed una solidarietà internazionale per portare avanti le nostre battaglie, perciò quest’occasione è ottima per tutti noi.

 

 

Sono passati quasi sette mesi da #no18maggio e sebbene in Italia la questione non sia stata più trattata dal Mibact, oltremanica la nostra protesta/proposta ha attirato l’attenzione.

 

Ci siamo tutti resi conto, in modo forse traumatico, che le grandi problematiche della nostra professione sono ben lungi da essere solo italiane, o solo British. La crisi è ovunque e di conseguenza (di conseguenza?) il settore culturale soffre. Ecco questa frase forse è più consona alla patria di Sam perché da noi soffriva anche prima. Eccome.

 

L’intervista di Alessandro ci offre lo spunto per riflettere nuovamente sul lavoro culturale: quali sono i reali problemi di chi lavora per e nella cultura? Si possono ricondurre alla più generale precarizzazione del lavoro? Una volta che la nostra professione sarà finalmente definita ed inserita nel quadro normativo, quali problemi persisteranno?

 

 

Domande in un certo senso inquietanti, ma siamo convinte che solo provando ad immaginare una risposta sarà possibile affrontare i nodi ancora irrisolti della nostra professione.

 

Voi come la pensate?

 

 

 

Ragione e Sentimento: #mestieridellacultura

I mestieri della cultura,  come l’archeologo o lo storico dell’arte, vengono  ancora considerati, nel comune sentire, alla stregua di un hobby o di un divertissement per chi può contare su altre fonti di reddito. Questa percezione è certamente rafforzata dal vuoto normativo entro cui agiamo, ma anche dall’incapacità di vedere prospettive occupazionali e di sviluppo economico che il settore cultura può portare.

 

 

Il nostro Paese di quella fonte di guadagno che sono e possono essere archeologia, arte e cultura, tuttavia, non può proprio più fare a meno. Fosse anche solo per poco romantici motivi economici.

 

 

Ed è proprio centrato sui #mestieridellacultura il sondaggio lanciato dal Ministro Bray sul suo sito personale.

 

 

Seguendo il sentiero tracciato negli ultimi mesi (comunicazione e partecipazione virtuale, uso massiccio del 2.0 e confronto con gli utenti), a margine di un breve articolo che esplicita proprio questo rapporto basato su uno scambio virtuale e virtuoso di opinioni, il Ministro lancia  un questionario.

 

 

Sono molteplici e diverse le professioni messe sul tavolo, che abbracciano tanto il settore culturale vero e proprio quanto quello più vicino al turismo, talmente tante e variegate da ricordare la congerie di occupazioni inserite nella famigerata categoria “altre attività” della gestione separata INPS.

 

Insomma siamo tanti, spesso parzialmente impiegati e mal retribuiti, ma potenzialmente occupabili nei settori più diversificati.
Le domande e le risposte proposte  non sono tutte specifiche come si vorrebbe, ma un certo grado di generalizzazione per un’indagine è sempre  necessario.
Personalmente, tra le altre cose, avrei apprezzato una domanda semplice semplice, ma che sarebbe andata dritta al cuore del problema: “Tu, operatore della cultura, riesci a sopravvivere con il tuo lavoro?”  Perchè se dobbiamo parlare di #mestieridellacultura, dobbiamo parlare anche di possibilità occupazionali che dovrebbero, se non proprio essere l’unica fonte di reddito, almeno garantire una retribuzione dignitosa.

 

In caso contrario lanciamo il dado e ritorniamo al via: rimarranno pochi e fortunati rampolli che vivono di reddito non derivante da lavoro e che conseguentemente possono fare cultura.
Non secondariamente poi, come ha fatto notare una commentatrice, il questionario si rivolge solo agli occupati di turismo e cultura e non ai potenziali o ex tali. Sarebbe stata certo più lungimirante una ricerca volta non solo a sondare le opinioni di quelli che, per fortuna o per tigna, lavorano ancora nel settore, ma anche quelle di coloro che, appena usciti dal proprio percorso di studi o ancora alle prese con la formazione univeristaria, si guardano intorno smarriti alla ricerca della risposta a: “Che lavoro farò da grande?”
Infine, vale la pena rilevare come la fotografia che ne uscirà sarà solamente quella di un certo target dei #mestieridellacultura e del turismo, quello che utilizza costantemente e piuttosto consapevolmente il web.
In altre parole le mancanze si notano, ma l’iniziativa è lodevole ed incoraggiante, ed in fondo, come ci insegna l’archeologia, se anche non si può capire e ricostruire proprio tutto, una conoscenza parziale è decisamente meglio di nulla.

 

 

Rispondiamo al questionario quindi, e cerchiamo di farci ben ritrarre in questa istantanea che il MinistroSocial vuole scattare di noi.  La strada per far convergere la Ragione (economica, di sbarcare il lunario sia come singoli che come sistema Italia ) ed il Sentimento (di profondo amore per Arte e Cultura) è ancora piuttosto lunga da costruire, basolo dopo basolo, ma le prime volenterose pietre, pare, si vogliano gettare.

 

#mestieridellacultura

 

@OpusPaulicium

 

Buone vacanze da Professione Archeologo!

Professione Archeologo augura a tutti buone vacanze e vi dà appuntamento a settembre con nuovi post, rubriche e news!

 

In questi mesi vi abbiamo proposto uno sguardo diverso sul mondo dell’archeologia, uno sguardo animato dalle esperienze dei colleghi archeologi, dall’idea di una progettualità di ampio respiro nel nostro settore e anche da una discreta vis polemica come quando hanno voluto farci passare per volontari e non per professionisti di tutto rispetto con alle spalle una formazione decennale.

 

Ci siamo anche divertiti a proporvi le nostre rubriche: da #DiesNatalis che celebra i giganti dell’archeologia, dalle cui spalle oggi vediamo stratigrafie e manufatti, agli Archeo Tutorial, ausilio (speriamo) per gli studenti alle prime armi, passando per Meet The Archaeologist, un modo per conoscere le diverse professionalità del settore, fino alle Archaeoweb Review, un modo per scoprire l’archeologia in rete.

 

E poi abbiamo rivolto lo sguardo a quello che succede fuori dai confini italiani, in Francia e in Gran Bretagna, per cercare un confronto con il resto d’Europa, intercettando idee e stimoli che possano farci uscire dal “pantano” in cui siamo.

 

Abbiamo seguito il dibattito politico, quello che si muove nella stanza dei bottoni, dalla legge Madia-Ghizzoni-Orfini al nuovo Decreto Cultura, senza perdere mai di vista l’obiettivo comune: dare dignità all’archeologia ed a tutti i professionisti che ogni giorno cercano di preservare, tutelare, valorizzare l’immenso patrimonio culturale che ci è stato tramandato nei millenni e che abbiamo l’obbligo di rispettare e conservare per chi verrà dopo di noi.

 

E poichè la cultura è patrimonio condiviso abbiamo dato ampio spazio ad iniziative che si muovono verso l’open access (Open Pompei, Wiki Loves Monuments, solo per citarne alcuni), o che mirano a dare spazio ai giovani talenti di questa nostra disciplina (come la bella avventura del V Convegno Nazionale dei Giovani Archeologi).

 

Lo abbiamo fatto ospitando sul nostro blog contributi di ospiti d’eccezione,  e vogliamo continuare su questa strada nel futuro, aprendo il blog ad interventi esterni, perchè Professione Archeologo vuole essere luogo di incontro, condivisione e dibattito.

 

Appuntamento quindi a settembre! Nel frattempo ci trovate come sempre sui nostri canali social: Twitter, Facebook e Google+.

 

Da tutto lo staff, buone vacanze!

 

PS: vi ricordiamo che fino al 15 agosto è possibile segnalare professionearcheologo.it per i #MIA13