Carica dei #500funzionari al MiBACT

La carica dei #500funzionari: alcune domande

L’abbiamo detto tante volte: diventare archeologi presuppone un lungo percorso formativo.

 

Si parte con la laurea triennale (anni 3), si procede con la magistrale (anni 2). Poi si approda alla specializzazione (anni 2). Per i più temerari si apre il percorso da dottorandi (altri 3 anni) coronato dal post-doc se si vuole intraprendere la carriera da ricercatori.

 

A questi titoli si affianca l’esperienza pratica, sul campo o in laboratorio, che affina le conoscenze e le arricchisce, e spesso quando si lavora in quella che viene chiamata “archeologia preventiva” sui cantieri delle grandi opere, dei lavori pubblici, si connota come vero e proprio lavoro in trincea.

 

Un percorso lungo, dispendioso e non facile, che comporta molta fatica e sacrifici.

 

Se guardiamo però alle condizioni di lavoro di molti archeologi, alla media dei loro guadagni annui o all’alto tasso di abbandono della professione, il dubbio viene: a cosa serve collezionare titoli come punti del supermercato? A sentirsi più preparati? Certo, ma forse anche a prendere tempo visto che le opportunità di lavoro sono sempre più scarse. Serve a seguire la propria vocazione da ricercatori? Anche quello, eppure la strada della ricerca non è certo più semplice di quella dell’archeologia commerciale.

 

In molti casi poi non si tratta di una scelta: per esempio la V.I.Arch può essere redatta solo da archeologi in possesso di diploma di specializzazione o dottorato. Non è un dato da sottovalutare, perché tanti archeologi, per esempio, si iscrivono alle certo non economiche scuole di specializzazione proprio per questo motivo, e per avere qualche possibilità in più nell’eventualità di concorsi pubblici.

 

Appunto, concorsi pubblici.

 

È passato oltre un mese dall’annuncio di 500 future nuove assunzioni al MiBACT in pianta stabile.

 

Constatato il fatto che “500… qualcosa” is the new black al Collegio Romano, avevamo tutti archiviato la notizia tra i buoni propositi per il 2016.

 

Un generale plauso all’iniziativa è stato seguito da dubbi e molte domande, in particolare sulla natura dei profili che saranno richiesti per certe figure. Per esempio, ottima la novità del profilo comunicazione, cosa di cui i nostri beni culturali hanno assolutamente bisogno, ma non è ancora chiaro quali saranno i requisiti dei potenziali candidati.

 

Secondo le prime indiscrezioni il profilo richiesto potrebbe essere quello di laureati in economia e scienze della comunicazione o affini, e qui sarà la nostra attività di archeoblogger, ma ci sembra quanto meno un’occasione mancata quella di non includere gli addetti al lavoro, archeologi, storici dell’arte e via dicendo, dal momento che si tratta oggi di figure sfaccettate e dalle molteplici competenze, non ultima quella appunto di comunicatori e divulgatori.

 

Nel dubbio, l’unica è attendere il bando, abbiamo pensato.

 

Beh, il bando non è ancora uscito, ma nel frattempo c’è stata un’importante novità: lo scorso lunedì è stato approvato in Commissione Bilancio al Senato un emendamento che permetterà l’accesso al concorso per funzionario anche a chi è in possesso di semplice laurea triennale in beni culturali (classe L-01).

 

Lo ammettiamo, siamo perplesse. E a quanto pare non siamo le uniche.

 

In questi ultimi giorni ci sono state diverse prese di posizione negative sulla questione, dalla decisa opposizione del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, presieduto da Giuliano Volpe, al comunicato del Coordinamento Archeologi che riunisce le principali associazioni di categoria ed esprime “ferma contrarietà”. Si sono opposti anche gli storici dell’arte e le guide turistiche di Roma, l’ADI, l’associazione dei dottorandi e dottori di ricerca e la Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’arte.

 

Non sono mancate le polemiche, ma al di là della differenza di opinioni il dubbio rimane.

 

È giusto abbassare i requisiti di accesso sinora richiesti per la qualifica di funzionario?

 

Perché alla fine di questo si tratta.

 

Aspettiamo il bando per fare tutte le valutazioni del caso, ma se il concorso prevederà, com’è probabile, anche una valutazione dei candidati per titoli, quante chance avranno i giovani triennalisti nei confronti di persone molto più titolate?

 

In attesa di leggere il bando e avere qualche risposta, abbiamo voluto coinvolgere nel dibattito la nostra community e martedì scorso abbiamo lanciato su Twitter un sondaggio.

 

Non si tratta, ovviamente, di un dato statistico, ma ci sembra interessante e utile a capire l’umore che l’emendamento ha suscitato tra gli addetti ai lavori e chi studia per diventarlo.

 

 

 

 

 

 

E voi, cosa ne pensate?

 

È giusto aprire anche a chi è in possesso della sola laurea triennale la possibilità di concorrere di diventare funzionario del MiBACT oppure le responsabilità previste richiedono qualifiche più alte? Sono sufficienti solo i titoli oppure l’esperienza sul campo dovrebbe avere maggior peso, e in tal caso, che tipo di esperienza?

 

Insomma, vogliamo sapere come la pensate, quindi sotto coi commenti!

 

@antoniafalcone

@domenica_pate

@OpusPaulicium

 

 

 

Archeologhe in shorts e con pistola: parliamone (vedi alla voce stereotipi)

Oggi parliamo di stereotipi e in particolare di stereotipi femminili legati al mondo dell’archeologia.

Lo spunto per questo post viene da una notazione fatta dall’archeologa e ricercatrice Giulia Facchin sul gruppo Facebook #archeognock (questi i link ai suoi guest post scritti per Professione Archeologo).

Ok, immaginiamo già le facce a punto interrogativo quindi prima di andare avanti rispondiamo alla domana: cos’è #archeognock? È la community delle donne del mondo dei beni culturali, un gruppo (chiuso) nato lo scorso settembre da un’idea di Domenica Pate e che ha lo scopo di condividere idee, spunti e fare rete, in tutto in un clima da aperitivo con le amiche. Vi abbiamo fatto venire voglia di iscrivervi? Bene. Potete farlo qui.

Facciamo un passo indietro allora. Dicevamo, stereotipi.

Immaginate la protagonista della nostra storia, Giulia, che in una serata come tante si siede sul suo divano con in mano una tazza di tè caldo e si appresta a godersi un po’ di relax davanti alla TV, dopo l’ennesima giornata in cantere tra operai, caffè e 50 sfumature di terra.

Stasera in programma, l’ultimo episodio andato in onda di Castle, il poliziesco americano in cui il lui della coppia è un celebre (e un po’ eccentrico, ma nel senso buono) scrittore. C’è l’omicidio, inizia l’indagine, tutto normale, finché  i due detective della Omicidi visionano lo spezzone di un vecchio film di azione, una cosa alla Arma Letale, se vogliamo.

La scena è piena di suspance. Il cattivo del film ha rapito una giovane archeologa per… boh, non lo sappiamo bene il motivo, ma quello che colpisce Giulia (e quindi poi anche noi che ci siamo andate a guardare la scena) è come diavolo era conciata quest’archeologa: rossa di capelli, in shorts che più short non si può, e top aderente, con una piega talmente ben fatta che altro che appena uscita dal parrucchiere e trucco, ovviamente, perfetto. Ah, aveva anche la frusta attaccata alla cintura. Infine, particolare da non sottovalutare, bella, così bella che i due detective di Castle… non credono che sia un’archeologa!

“Non è per niente credibile” esclamano, con tono che lascia intendere che, ragazzi, non scherziamo, mica sono così belle le archeologhe!

Vabbè, dopo esserci fatte una risata dell’insolenza dei due detective, sorgono delle domande:  per essere prese sul serio come archeologhe bisogna essere brutte o quantomeno socialmente improponibili? E in modo antitetico perchè invece lo stereotipo dell’archeologa bella e svestita (o vestita con abitini aderenti) è duro a morire?

A Lara Croft hanno dedicato una serie di film al cinema, mentre pochi anni fa c’era una serie TV dedicata ad un personaggio femminile che era una sorta di incrocio tra Lara Croft e Indiana Jones.

Se torniamo alla televisione italiana c’è un altro esempio che negli ultimi anni è stato più volte segnalato: la puntata della serie dedicata all’Ispettore Coliandro di RaiDue, bello e canaglia che va in giro per Roma credendo di essere Callaghan. In una puntata si imbatte in una escort dai gusti raffinati, nel senso che tra i suoi DVD annovera addirittura Fellini, Kurosawa e Antonioni. Il mistero è presto svelato: la ragazza disillusa, appassionata di cinema d’autore, è un’archeologa che per tirare a campare, ha abbracciato la professione di peripatetica al grido di “Hai idea di quanto prende un’archeologa se lavora?”

E non è mica finita qui!

Per passare dal piccolo al grande schermo, Anna Marras ci informa che nel film La fame e la sete di Antonio Albanese, alla ragazza che studia archeologia il protagonista Ivo, industriale emigrato al Nord, risponde “Archeologia? Bella prospettiva rompere i coglioni ai morti!”

E lascia stare che non tutti gli archeologi “scavano i morti”, ma almeno non si parla di fossili, ed è già un passo avanti, rispetto, per esempio, al recente Blue Jasmine, di Woody Allen in cui la protagonista, interpretata da Cate Blanchett, riflette sul suo futuro. Tra le varie opzioni c’è quella di tornare all’università, perché si è sempre pentita di non aver preso la laurea.

 

“Che dovevi diventare?” le chiedono.

“Antropologa” risponde.
“Tipo scavare vecchi fossili?”
“Quella è un’archeologa” risponde lei lapidaria.

 

Ok, forse a ben pensarci, tornare all’università non è una cattiva idea (grazie a Daniela Costanzo per la segnalazione!).

Allora, ricapitoliamo brevemente. Nella narrazione cinematografica/televisiva che abbiamo esaminato la figura dell’archeologa è sostanzialmente ascrivibile ai seguenti modelli:

1. Bella, con corpo da maggiorata e possibilmente con una pistola alla cintola (o frusta, è uguale)

2. Poveraccia che per campare fa la passeggiatrice, ma d’alto bordo. Che non si dica che una laurea non serve eh.
3. Una che scava, non si sa bene cosa, se morti, dinosauri o l’orto per piantare le zucchine.

Ragazze, stiamo messe male.

Soprattutto quando poi entri in un museo e l’”archeologo” è rappresentato così:

 

 

Per fortuna che a rompere gli stereotipi non ci sono solo le ragazze di #archeognock (che sono talmente cool da avere anche un’archeostickers tutta per loro), ma anche iniziative estemporanee che prendono vita sui social media e poi diventano virali, come #inmyshoes, nato dalla lettera di una bambina britannica di otto anni che si è lamentata con un’azienda produttrice di scarpe che non faceva scarpe per bambine con i dinosauri (perché, a loro dire, alle bambine dinosauri e fossili non interessano).

Andate a scorrervi l’hashtag su Twitter, e magari date anche un’occhiata anche a #girlswithtoys, la risposta ad un’infelice battuta di un professore di scienza: troverete tante foto di archeologhe in cantiere, geologhe al lavoro sul campo, ma anche scienziate di tutti i tipi, che indossano scarpe da lavoro o da ginnastica o ballerine o scarpe col tacco perché magari, quel giorno, sono in ufficio e gira così.

L’archeologia, così come tutte le professioni legate al mondo della conoscenza, della ricerca, della cultura, è fatta di donne diverse tra loro, acomunate dalla passione e dal duro lavoro. E questo da sempre, come dimostra lo splendido lavoro portato avanti dal gruppo Trowelblazers, “women in archaeology, geology, and palaeontology”, che racconta il contributo che le donne hanno apportato a queste discipline fin dalla loro nascita, anche se poi pochi lo sanno.

Gli stereotipi, insomma, talvolta da ridere, ma troppo spesso ancora sessisti, reiterati e francamente vecchi, ci stanno davvero tanto tanto stretti.

Ma li smonteremo, uno ad uno, tra un tweet e un post di Facebooke soprattutto con tanta ironia.

 

@antoniafalcone

@domenica_pate