Avere un amico/fidanzato/parente archeologo non significa solo sorbirsi nell’ordine:
Tutti i documentari e/o podcast di Barbero
Discussioni interminabili sulla periodizzazione dell’Età del Bronzo
Richiami costanti alla perfezione dell’arte classica
Rimproveri saccenti al grido di “Ah se ci fosse ancora il sacro rispetto per il Mos Maiorum”
O farsi trascinare entusiasticamente (per l’archeologo, un po’ meno per voi):
A vedere l’ultima mostra sui frammenti in giacitura terziaria emersi durante lo scavo della fogna in località Ndocazzosto
A visionare le serie tv e/o film di argomento storico con borbottio in sottofondo che corregge ogni singola imperfezione ricostruttiva. Che se il regista fosse presente penserebbe “chi me l’ha fatto fare a me di fare film dopo una gavetta di anni come schiavo nelle peggiori produzioni cinematografiche per dovermi pure accollare le critiche di questo qua”
A scarpinare per chilometri nelle lande desolate del contado alla ricerca di siti archeologici ignoti ai più.
Ecco, come se tutto ciò non bastasse a farvi spuntare l’aureola, l’archeologo è pure esigente in fatto di regali.
E quindi per aiutarvi a non ammazzar…ehm deludere il vostro archeologo del cuore, vi aiuto con una lista di 5 regali che lo faranno felice.
Medeart è il brand di gioelli a tema archeologico e artistico creato da Marilisa Lo Pumo. Marilisa è un’archeologa siciliana e a Leonforte ha un laboratorio nel quale, insieme alla madre, crea gioielli e accessori ispirati e dedicati all’archeologia, all’arte e al mondo dell’antichità. Contemporaneamente, essendo un’archeologa libera professionista, lavora nei cantieri di Archeologia Da Strada.
Medeart qualche giorno fa mi ha inviato due magnifiche creazioni e un codice sconto del 10% per i followers di Professione Archeologo, da utilizzare sullo shop Etsy a questo link: https://www.etsy.com/it/shop/MedeARTarcheofashion
Avrete diritto ad una promozione del 10% su tutti i gioielli presenti sullo shop online, valida per tutto il periodo delle feste (da domani 10 dicembre al 6 gennaio), inserendo, al momento dell’acquisto, il codice sconto:
Sulla pagina fb, accanto al nome, in alto, è attivo il pulsante per contattarla anche su Whatsapp.
La Tabula Peutingeriana
Sì proprio quella, ma stampata su rotolo di tela canvas per rendere il vostro salotto protagonista del Medioevo. È alta 42 cm, lunga 5,70 metri, e la stampa è in alta risoluzione.
Quale medievista non vorrebbe la maglia con su scritto “Il Bere vince sempre contro il Male” oppure “In Omnia Pericula Tasta Testicula”? Quindi se avete un amico o amica che vive di con per su fra tra Barbero e parla solo di pievi, castelli e castellari, nella Bottega di F&L trovate l’idea regalo giusta.
E qui rimaniamo sul classico, praticamente il corrispettivo dell’anello Trilogy per l’archeologo.
Ce ne sono di vario tipo, ma tutte ugualmente indispensabili. E non crediate che all’archeologo basti una sola trowel, sareste degli ingenui. Il vero archeologo ne possiede almeno, e ripeto almeno, tre. Che non si sa mai, dovesse rompersi o finire nel mucchio di terra.
Perché si sa che gli archeologi potrebbero mangiare pane e cipolle a vita, pur di spendere tutti gli incassi delle loro (misere) fatture in libri, cataloghi, repertori.
Qui ve ne ho selezionati alcuni:
Il mio. Archeosocial è il libro che ho curato nel 2018, dedicato ad Archeologia e Social.
Un qualsiasi libro di Barbero. Anche se il titolo che mi incuriosisce di più della sua bibliografia è senza ombra di dubbio questo.
Il Catalogo del nuovo Museo Archeologico di Stabiae oppure quello della mostra sui Marmi Torlonia. Li trovate entrambi qui e qui sul sito di Electa Editore.
Vi saluto con un extra bonus dedicato ai più piccoli.
Se voi genitori archeologi volete traviare la vostra prole e condannarla a un futuro di contratti precari ed escavatori a bordo strada, questo è il regalo giusto:
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_20201215_204014-scaled.jpg19202560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-12-15 21:58:222021-01-03 12:39:33Un Natale da archeologi: 5 idee regalo
Gli archeologi da strada – quelli cioè che di lavoro si occupano prevalentemente di sorveglianze archeologiche – si dividono in due gruppi:
con il portapranzo
senza il portapranzo
Gli archeologi senza portapranzo a loro volta sono classificabili in due sottogruppi:
archeologi da panino, quelli che mettono quotidianamente alla prova la resistenza (o resilienza?) dei propri stomaci a colpi di fette di pane o rosette infarcite di mortazza (mortadella, nda). L’archeologo da panino in genere soffre ciclicamente di gastrite, malessere che attribuisce allo stress da lavoro (e parla con l’architetto, e urla con gli operai, e rispondi all’ennesimo passante che ti chiede “cosa avete trovato?”) e ai caffè, ma che invece cova laddove la dieta è monopolizzata da insaccati e carboidrati. Mangiare un panino al volo, d’altra parte, consente al nostro impavido archeologo di prendere contemporaneamente le misure della trincea, facendo esercizi di equilibrismo con panino, metro e taccuino. Ovviamente questa categoria di archeologo non teme nulla, sa che la vita fa schifo e amen, via andare.
archeologi da tavola calda, quelli che non rinuncerebbero mai a primo e/o secondo, contorno, acqua e caffè, rigorosamente seduti ai tavolini metallici di un baraccio di periferia o ai tavoli, apparecchiati con tovaglie di carta a quadretti, di tavole calde da camionisti (esistono elenchi segretissimi , che girano tra pochi eletti, di luoghi del suburbio romano dove si mangia come da Cracco, ma con porzioni degne della definizione di “piatto di pasta”, chè invece il gourmet “lo damo ar gatto”). Alla base di questa scelta alimentare più equilibrata c’è di certo la considerazione, inconscia o rivendicata, che già la vita da archeologi è brutta assai, almeno in pausa pranzo salviamo la dignità. O anche la segreta speranza di fare amicizia con i vicini di tavolo (che non si sa mai, tra una chiacchiera e l’altra viene fuori che stanno cercando un aiuto camionista da assumere a tempo indeterminato e taaac curriculum vitae)
NdA: come ci piace a noi archeologi categorizzare tutto
Io appartengo decisamente alla prima categoria, l’archeologa cum portapranzo, vale a dire che se esco di casa la mattina presto senza la borsetta termica munita di cibaria, bottiglietta dell’olio, mini taglia di sale, posate e tovaglioli, mi sento ignuda. Un po’ come se uscissi senza scarpe antinfortunistiche.
La schiscetta – da qui in poi archeoschiscetta – dunque per me è compagna insostituibile delle fugaci pause pranzo a bordo strada, in macchina o sulle panchine dei giardini pubblici.
La sua utilità risiede in molteplici aspetti:
permette di risparmiare soldi
consente una variatio maggiore nel menu settimanale
permette di non buttare gli avanzi della cena della sera prima
ti consente di spendere i soldi – gli stessi risparmiati sopra – da Tiger o Dmail in contenitori multicolor, multimaterial, multiunicorni, senza alcun senso di colpa. Tanto è per lavoro.
MA.
C’è sempre un MA.
Ci sono una serie di fattori, per così dire deterrenti, che potrebbero remare contro. Li esaminiamo uno alla volta.
LA PIGRIZIA
Pranzare con l’archeoschiscetta vuol dire prepararla la sera prima, in altre parole essere previdenti. E lo sappiamo tutti che l’archeologo è per definizione un procrastinatore di professione: ne consegue che chiedere ad un archeologo di prepararsi il pranzo quasi 24h prima è volergli un po’ male, tipo Marco Giunio Bruto con Cesare.
Ma l’archeologo ha anche delle qualità e tra queste spicca il suo essere particolarmente adattivo in situazioni di stress: ecco quindi che il nostro prode eroe – ed eroina – risolve la questione “pigrizia” preparando chilate di riso/farro/orzo che possano bastare per una settimana, da condire di giorno in giorno con il contenuto di conserve comprate al supermercato a pacchi o – per i più fortunati – mandate con il pacco da giù.
E il pranzo è servito (cit.)
LA LOCATION
Benchè il cinema e i romanzi d’avventura ci abbiano convinti che un archeologo DEVE per forza girare con una Range Rover super accessoriata e con le gomme infangate, la realtà è un tantino diversa.
Se si facesse uno studio statistico sull’automobile posseduta in prevalenza dagli archeologi sono certa che la risposta sarebbe una sola:
Pandino. Do you know?
Ma non tutti gli archeologi sono automuniti, io per prima quando ho iniziato a fare questo lavoro mi spostavo a Roma con i mezzi pubblici (poi un giorno vi racconterò di quando l’autobus mi ha lasciata da sola alle 7 di mattina nel campo rom Casilino 900, in attesa degli operai che non sono mai arrivati).
Quando non hai la macchina, girare in autobus o metro con tutta l’attrezzatura da archeologo (tra cui palina, casco, zaino) a cui aggiungere il portapranzo diventa davvero proibitivo.
Superare questo ostacolo logistico è impensabile anche per l’archeologo più creativo.
(E no, andare in cantiere con lo zaino che hai usato nell’interrail del 1995 non è LA soluzione.)
LA FANTASIA
Se il menu a base di panino è monotematico e il menu della tavola calda non lo decidiamo noi, nel caso dell’archeoschiscetta il discorso si fa più complesso e ci interroga sul nostro reale livello di “cheffitudine” (al di là delle millemila edizioni di Masterchef che abbiamo messo in sottofondo mentre finivamo la documentazione del giorno) che dividerei in tre categorie.
Lo zozzone ovvero Rubio Chef
L’importanza del menu non sta nella variabilità degli ingredienti, ma nel saper prontamente amalgamare il tutto annegandolo nella maionese o nell’olio. Con questo approccio alla cucina, ovviamente non importa cosa mettiamo nell’archeoschiscetta, tanto sarà impossibile distinguere i sapori.
2. Il salutista ovvero Germidi Soia Chef
Stiamo tutto il giorno nel traffico, nello smog, sporchi di polvere dispersi tra i rumori della città: almeno il pranzo facciamolo sano (anche per contrastare la gastrite di cui sopra), così poi ci sentiamo meno in colpa a sfondarci di birra durante l’aperitivo. E dunque via libera a pranzi crudi e sconditi: la varietà del menu dipende da verdura e frutta di stagione (not my fault).
3. Il tutorialista ovvero Fatto in casa da Benedetta Chef
L’archeologo che non si vuole arrendere, che non vuole accettare una vita di riso freddo e pasta al pesto.
E quindi si impegna al massimo, come in tutto quello che fa.
L’archeologo sa infatti che per acquisire skills bisogna prima di tutto studiare: dunque passa in libreria a fare incetta di libri di cucina, si iscrive ai più popolari canali youtube e vai di cucina sperimentale.
Che al confronto dell’archeologia sperimentale è comunque una passeggiata, pensa ingenuamente il nostro archeologo, prima di ritrovarsi a postare il piatto del giorno – bruciato e stomachevole – sul gruppo facebook Cucinare Male.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/1605807665288.jpg8101080Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-11-19 18:49:352020-11-20 13:10:08Archeoschiscetta, lo street food dell'archeologo
C’è un palazzo che si staglia imponente e signorile lungo il costone del Monte Faito, guardando dall’alto la distesa di case e strade di una cittadina vesuviana, un tempo nota come Stabiae, adagiata a sud del Golfo di Napoli.
Dalla terrazza di questo edificio, che spicca per il colore rosso della sua facciata, si gode una delle viste più suggestive del Golfo: lo sguardo si allarga a perdita d’occhio tra il blu del mare, il verde delle fertili terre vesuviane e il bianco dei paesi che uno dopo l’altro si susseguono ininterrottamente, fino ad abbracciare in lontananza il profilo delle isole.
E mentre con gli occhi ci si riempie l’animo del panorama di uno dei luoghi più belli d’Italia, alle spalle si percepisce distintamente l’aria umida che viene dai boschi del monte, inglobati all’interno del parco palatino, tra sentieri, sedili in marmo e fontane, nell’aspetto tipico del giardino all’italiana.
Siamo nella Reggia di Quisisana a Castellammare di Stabia, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, forse in età medievale, ma la cui acme si colloca sotto la dinastia borbonica, quando con gli interventi condotti da re Ferdinando IV di Borbone nella seconda metà del XVIII secolo il complesso assunse l’aspetto di palazzo per la caccia e la villeggiatura.
Diventa facile immaginare nobildonne e nobiluomini aggirarsi tra palme, pini e castagni, durante l’epoca del Grand Tour: la Reggia di Quisisana infatti divenne una tappa obbligata per i rampolli delle famiglie europee che passavano per Castellammare di Stabia, ospiti dei Borbone.
A questo periodo di splendore e agio successe purtroppo l’abbandono, a partire dagli anni sessanta del Novecento, con ulteriori danneggiamenti dovuti al terremoto del 1980. Ma un tesoro architettonico di tal fatta non poteva rimanere nell’incuria a lungo e così un radicale restauro, conclusosi nel 2009, ha riportato la Reggia borbonica agli antichi fasti.
La nuova vita della Reggia di Quisisana è iniziata definitivamente il 24 settembre 2020 con l’inaugurazione del Museo Archeologico di Stabiae, dedicato all’esposizione dei prestigiosi reperti provenienti dal territorio stabiano.
L’operazione di riconversione del palazzo a spazio archeologico è stata curata e promossa dal Parco Archeologico di Pompei con l’organizzazione di Electa, per restituire al patrimonio italiano un edificio simbolo della storia di Castellammare.
La caduta e la rinascita sembrano essere una costante nelle vicende storiche di Castellamare di Stabia: nel corso della sua storia millenaria sono stati diversi i momenti in cui si è trasformata da località agiata, prediletta dai nobili per il ristoro del corpo e dello spirito, a simbolo di decadimento e declino, riscattato poi da una nuova rifioritura.
Facevo queste riflessioni mentre, a bordo della circumvesuviana in transito verso Castellammare, assistevo al campionario di umanità che popola il mitico trenino campano: dai ragazzi vocianti ai villeggianti inglesi diretti a Sorrento che sembrano usciti direttamente dal Grand Tour passando per i volti pieni di aspettative dei turisti che sbarcano a Pompei. Un catalogo completo di chi popola temporaneamente o quotidianamente la piana vesuviana.
E immaginavo come doveva svolgersi la vita qui millenni fa, quando Castellammare era Stabiae e invece dei condomini bianchi di mattoni e cemento, il panorama era punteggiato da ville signorili che nulla avevano da invidiare alle domus pompeiane o alle villae rurali del suburbio romano.
Proprio camminando tra gli spazi del nuovo museo di Stabiae, sala dopo sala, ho ripercorso, con un po’ di fantasia e anche un po’ di nozioni archeologiche, il catalogo delle ville d’otium, dove i nobili del tempo trascorrevano le loro pigre giornate tra le indicazioni di lavoro da dare a fattori e pastori che lavoravano nella pars rustica dei palazzi e le conversazioni con ospiti e clientes, circondati da affreschi e mosaici, magari sorseggiando del buon Falerno.
Credits: Mina Grasso
Crdedits: Mina Grasso
Affreschi provenienti dalle ville stabiane
Quanto erano grandi le ville stabiane?
Beh, basti pensare che la cd Villa di San Marco si estendeva per circa 11.000 mq in posizione panoramica, rivolta verso il mare sul ciglio del pianoro di Varano. Non conosciamo purtroppo i nomi dei proprietari della dimora signorile e la denominazione attuale deriva da una cappella esistente in zona nel ‘700, ma certamente dovevano essere di classe agiata per potersi permettere una simile ricchezza architettonica e di arredi. La villa si sviluppa su diversi livelli attorno a due ampi peristili circondati da una grande piscina, da sale di rappresentanza finemente affrescate e da ambienti residenziali. Nella dimora non mancava un quartiere termale per la cura del corpo e un imponente atrio tetrastilo.
Come in tutte le ville anche qui era presente il quartiere produttivo con ambienti di lavoro, ambienti di servizio, vani per la conservazione e la lavorazione delle derrate alimentari. Non bisogna infatti dimenticare che fulcro dell’economia delle ville erano l’agricoltura e l’allevamento.
Soffitto con planisfero. Stabia, villa San Marco, I secolo d.C.
Una delle ville più conosciute del territorio stabiano è senza dubbio la cd Villa Arianna, così denominata dall’affresco raffigurante Arianna abbandonata da Teseo a Nasso, rinvenuto sulla parete di uno dei triclini. I suoi affreschi sono universalmente noti, come la celeberrima “Flora” oggi conservata al Mann.
Le sale della Reggia di Quisisana dedicate a Villa Arianna raccolgono sia le variopinte decorazioni parietali staccate durante le esplorazioni borboniche, sia i materiali raccolti nella pars rustica della residenza. La villa, una delle più antiche sorte sul pianoro di Varano, attualmente è stata riportata in luce per circa 3.000 metri quadrati, corrispondenti a circa un quinto della sua estensione originaria.
Villa Arianna si caratterizza per la sua ricca articolazione architettonica: rampe e gallerie collegano le diverse ali della dimora signorile, organizzata in quattro nuclei databili tra l’età tardo repubblicana e l’età flavia: atrii, terme, triclinii, una palestra, ambienti di servizio e cubicula.
La dimora restituisce l’immagine precisa di un complesso destinato non solo al piacere intellettuale ma anche al lavoro. Uno dei pezzi forti dell’esposizione è infatti il carro a quattro ruote utilizzato per il trasporto delle merci prodotte nel quartiere rustico: molto diffusa era la coltura di vite e olivo, così come sui vicini monti Lattari era praticata la pastorizia. Il rinvenimento delle numerose anfore esposte nel museo conferma la vocazione fortemente produttiva delle ville e la vivace economia agropastorale del territorio.
Credits: Antonia Falcone
Credits: Antonia Falcone
Villa Arianna, Stabia
Si stima che nell’antica Stabiae ci fossero decine di ville, delle quali solo una parte è stata messa in luce anche grazie al lavoro meticoloso di Libero D’Orsi (1888 – 1977) che dedicò gran parte della sua attività professionale agli scavi archeologici, allestendo nel centro cittadino anche l’Antiquarium che mostrava i reperti dei luoghi.
L’esposizione presenta infatti i reperti di altre residenze come Villa del Pastore, il cd Secondo Complesso, Villa del Petraro e Villa di Carmiano (con la ricostruzione di uno degli ambienti) per dare l’idea di quanto dovesse essere ricco il territorio stabiano.
Credits: Mina Grasso
Credits: Mina Grasso
Passeggiare per il nuovo Museo Archeologico di Stabiae all’interno della Reggia di Quisisana è un viaggio nella storia di questo territorio, circondati dai rossi e dai gialli delle pareti che si compenetrano con i colori degli affreschi, stupefacentiper la loro brillantezza arrivata intatta fino ai nostri giorni.
E se è vero, come mi ha raccontato il tassista che mi ha riportata a valle, che il nome della Reggia deriva dall’espressione “Quisisana” pronunciata dal re borbonico mentre oziava nel giardino della sua residenza riposando sotto un albero per guarire dai suoi malanni, mi piace pensare che con un nuovo museo archeologico a Castellammare qui-si-sana non solo il corpo ma anche lo spirito.
Visitare la reggia borbonica di Quisisana a Castellammare di Stabia merita. Veramente stupenda…. io sono del posto e mi sono molto emozionata. Ho trovato una realtà museale meravigliosa, sia dal punto di vista culturale che paesaggistico.
La presentazione delle sale è concisa e chiara, i reperti sono ben sistemati nelle teche, gli affreschi sono spettacolari.
Dalle sale si vede il golfo di Castellammare con il Vesuvio, ma l’occhio si spinge fino a cercare gli elementi noti dei paesi lungo la costa o le pendici non solo del Vesuvio ma anche dei monti circostanti. Si vedono bene: lo scoglio di Rovigliano, il campanile di Pompei, i silos di torre annunziata , il convento benedettino di colle Sant’Alfonso a Torre del Greco, il Museo di Pietrarsa, il convento dei Camaldoli.
Il giardino, anch’esso ” finestra” sul Golfo e sul Vesuvio, lasciato a bosco, dove sembra mancare l’opera dei giardinieri borbonici, rimanda a passeggiate rilassanti, ad immagini bucoliche, a dame e bimbi intenti nei loro passatempi.
Ho vissuto emozioni forti, ritornare ai miei avi mi ha accarezzato l’anima….
Nunziatina Ranieri
E ora un po’ di informazioni pratiche:
COME ARRIVARE
Partiamo dalla nota dolente.
Se siete in auto è semplice:
Autostrada A3 Napoli-Salerno (uscita Castellammare di Stabia), imboccare SS145 per 8,5 km (seconda uscita di Castellammare di Stabia), proseguire dritto su viale Europa, viale delle Puglie e via Panoramica. Girare a sinistra su viale Ippocastani (salita Quisisana).
Se siete con i mezzi è un po’ meno semplice, ma non impossibile:
Circumvesuviana Napoli-Sorrento (fermata Castellammare di Stabia), dirigersi verso Piazza Giovanni XXIII + Linea 5 (fermata Salita Quisisana) e poi qualche minuto a piedi verso l’ingresso della Reggia.
Oppure a piedi, sono circa 25 minuti, ma in salita.
Oppure in taxi dalla stazione.
BIGLIETTI
intero: € 6.00 (+ € 1.50 su prevendita online)
ridotto: € 2.00 (+ € 1.50 su prevendita online)
Gratuità come da normativa.
ATTENZIONE: Il biglietto di ingresso è acquistabile al momento solo sul sito www.ticketone.it, unico rivenditore online autorizzato. La biglietteria fisica nel museo ancora non è pronta.
CATALOGO
Il catalogo del museo è a cura di Massimo Osanna, Francesco Muscolino, Luana Toniolo ed è acquistabile a partire dai prossimi giorni sul sito di Electa Editore a questo link .
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/foto-Quisisana-2-2-scaled.jpg18092560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-10-04 21:03:032020-10-20 16:53:03Reggia di Quisisana, prezioso scrigno dei tesori dell’antica Stabiae
Che i più maliziosi leggeranno F**K e che, invece, è più semplicemente l’acronimo di Frequently Asked Questions, cioè le tante domande che periodicamente mi vengono rivolte a proposito di archeologia e archeologi.
In particolare, se molti aspiranti giovani archeologi mi contattano in DM su Instagram per chiedermi le cose più svariate attinenti la nostra professione, capita che tra i commenti di Facebook o tra i messaggi privati, le richieste di chiarimenti mi siano rivolte da semplici appassionati e curiosi.
È per questo motivo che ho pensato di inaugurare una nuova rubrica, dedicata proprio alle vostre FAQ.
COME SI DIVENTA ARCHEOLOGI?
Iniziamo da un grande classico: qual è il cursus honorum al termine del quale possiamo definirci archeologi a tutti gli effetti?
Consul, praetor, aedilis, quaestor, tribunus plebis, tribunus militum…
Ehm non questo.
Laurea triennale, laurea magistrale, specializzazione, dottorato, post dottorato.
Da un punto di vista strettamente formativo, la carriera di un archeologo comporta diversi anni di studio che possono culminare in uno (o più) assegni di ricerca, genericamente afferenti al titolo di post-doc. L’eventualità di passare svariati anni in giro per il mondo a procacciarsi borse di studio in prestigiosi enti di ricerca, attiene alla carriera di “ricercatore” che molti archeologi intraprendono.
Ma se non tutti gli archeologi sono ricercatori, tutti i ricercatori in discipline archeologiche sono sicuramente archeologi.
Sono infatti diversi gli ambiti professionali in cui può operare un archeologo e quindi diverse le carriere (ma di questo ci occuperemo in un’altra delle nostre FAQ).
In ogni caso, a rigor di legge, si può definire archeologo chi ha:
Laurea triennale in discipline archeologiche, Classe 13 ordinamento DM 509/99 o classe L1 D.M. 270/04 con indirizzo archeologico con un numero di crediti minimi nelle discipline storico-archeologiche corrispondenti a 60 CFU, più almeno 12 mesi, anche non continuativi, di documentata esperienza professionale, nell’ambito delle attività caratterizzanti il profilo.
Questa la definizione di Archeologo di Terza Fascia, secondo la normativa sancita dal Decreto Ministeriale 244/2019 in attuazione dell’articolo 9bis del D. lgs. 42/2004 (Codice del Beni Culturali) così come modificato dalla L. 110/2014.
Detta in modo semplice: gli interventi sui beni archeologici sono affidati alla responsabilità e all’attuazione di archeologi, come definiti sopra.
Senza triennale e 12 mesi di esperienza professionale non si potrebbe lavorare come archeologi.
La legge ha individuato N. 3 fasce di archeologi, con mansioni e responsabilità diverse e progressive, che potete consultare qui.
Ne consegue che più si studia maggiori sono le responsabilità così come le possibilità lavorative: per esempio soltanto gli archeologi con specializzazione o dottorato sono abilitati alla redazione del documento di valutazione archeologica nel progetto preliminare di opera pubblica (VIARCH).
A questo proposito vi segnalo che il portale http://www.archeologiapreventiva.beniculturali.it/ – dove era possibile iscriversi come operatori abilitati – è in dismissione come recita l’annuncio in homepage
“Il portale non verrà più aggiornato e sarà progressivamente dismesso. Tutti gli archeologi interessati, anche se già iscritti, devono effettuare una nuova registrazione e l’invio della domanda di iscrizione sul portale “professionisti dei beni culturali”. I committenti e le stazioni appaltanti interessati a verificare nominativi e qualifiche degli archeologi ai sensi della del D.Lgs. 163/2006-D.Lgs. 50/2016 art. 25/ sono pregati di fare riferimento al portale “professionisti dei beni culturali”; non verranno infatti effettuate nuove iscrizioni per la consultazione. Si ricorda che la iscrizione agli elenchi non è obbligatoria né può venire richiesta come tale; al contrario, per esercitare le attività previste dal DM. 244/2019 e da tutte le normative da esso recepite, è sufficiente il possesso dei requisiti, che possono venire autonomamente presentati al committente dal professionista”.
E quindi?
Come si diventa archeologi? Si prende una laurea e si fa esperienza (per iniziare).
Non basta dunque aver scavato nel giardino di casa della nonna per piantare un cactus né aver letto tre-libri-tre su “archeologia, misteri, alieni e cose assurde che però fanno vendere copie e fare soldi” (no, la categoria – purtroppo – non la trovate proprio scritta così sugli scaffali delle librerie) per potersi definire archeologi e tanto meno per poter intervenire sui beni archeologici.
Quello dell’archeologo è un lavoro serio, fatto di competenze molteplici e diversificate acquisite in anni di studio ed esperienza sui cantieri didattici e/o nei laboratori universitari.
E se anche a voi è capitato di dover rispondere all’obiezione del – fastidiosissimo – passante di turno “eh, ma tanto voi state in cantiere SOLO a guardare la ruspa”, sciorinategli tutta la lista degli imperatori romani (soprattutto quelli del Basso Impero) o tutte le facies della ceramica dell’età del bronzo con i dettagli morfologici delle forme ceramiche decorate a impressione o i diversi centri di produzione dell’invetriata medievale, chiedendogli cosa ne pensa del nuovo metodo di datazione della ceramica messo a punto dall’Università di Bristol che utilizza le più recenti tecnologie di spettroscopia, di risonanza magnetica nucleare ad alta risoluzione e di spettrometria di massa per isolare gli acidi grassi.
La sua faccia sarà questa
E il vostro compiacimento impagabile.
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/pokes-fun-at-1164459_1280.jpg8531280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-09-09 15:04:162020-09-09 15:46:22FAQ ARCHAEOLOGY: come si diventa archeologi?
Ci stiamo lasciando faticosamente e lentamente alle spalle alcuni dei mesi più difficili per noi millennials, generazione abituata a viaggiare, spostarsi, conoscere il mondo.
A causa dell’emergenza COVID-19 infatti molti dei viaggi programmati per svago e/o lavoro sono stati annullati e così ci siamo ritrovati spesso a sfogliare foto di vecchie vacanze o di missioni archeologiche degli anni passati, condividendole con nostalgia su Facebook (che non smette mai con la funzione “Ricordi” di riportarci indietro nel tempo) o nelle Stories Instagram, chiedendoci quando potremo tornare a vagabondare per i quattro angoli del mondo.
Perché una delle magie dell’archeologia è senza dubbio quella di portarci in giro per il pianeta, sia fisicamente, seguendo missioni archeologiche o programmando viaggi nei siti più sperduti dell’orbe terracqueo, e sia virtualmente, studiando e leggendo di antiche civiltà e culture millenarie.
E quando si dice archeologia esotica il pensiero corre immediatamente all’Egitto.
È inutile negarlo: molti di noi archeologi si sono imbarcati in questa avventura durissima di studio, sacrificio, illusione e disillusione che prende il nome di Archeologia proprio con la convinzione di diventare egittologi.
Confesso che il primo corso che ho seguito all’Università è stato quello di Egittologia, poi abbandonato dopo qualche lezione per la consapevolezza che io e i geroglifici non avremmo mai potuto avere un lunga storia d’amore: non ci capivamo abbastanza.
Così come molti non archeologi si appassionano alla nostra disciplina (con esiti non sempre ortodossi → vedi alla voce fanta-archeologia) per la curiosità che suscitano piramidi, mummie e i meravigliosi corredi funerari dei faraoni.
La millenaria cultura egizia insomma fa sognare da sempre intere generazioni, ed è per questo che viaggiare in Egitto è un’aspirazione di molti: dalle Piramidi di Giza alle crociere sul Nilo fino al Museo Egizio del Cairo, l’Egitto è certamente un paese da scoprire, con la giusta prospettiva.
Per chi infatti vuole viaggiare in Egitto è necessario avere a disposizione il visto, che va richiesto sia per gli adulti che per i bambini.
No Visto = No Viaggio
Cos’è il Visto Egitto?
È un documento che autorizza i richiedenti a viaggiare ufficialmente nel paese dei faraoni ed è rilasciato dal Dipartimento per l’Immigrazione egiziano.
Come di voi già sapranno, esistono diverse tipologie di visti: c’è quello per motivi lavorativi, quello per studio e il visto turistico, che ci interessa se vogliamo fare un viaggio di piacere nella terra delle piramidi.
È importante sapere che esistono due varianti del visto turistico per l’Egitto: il “single entry” e il “multiple entry”, che, come dicono i nomi stessi, si differenziano per il numero di ingressi nel Paese durante il periodo di validità del visto (90 giorni con 30 giorni consecutivi di permanenza).
Quali sono i requisiti per richiedere il Visto Egitto?
I viaggiatori devono possedere un passaporto valido per almeno 8 mesi e in caso di visita a familiari e/o amici bisogna essere dotati di una lettera di invito.
Se si viaggia in gruppo inoltre bisogna ricordarsi di richiedere il visto per tutti contemporaneamente in un unico modulo.
Come si richiede il Visto Egitto?
Ormai è possibile richiedere il visto online (e-Visa), compilando i moduli di richiesta necessari e avendo a disposizione i seguenti documenti:
Passaporto in corso di validità
Itinerario di viaggio
Dati dei pernottamenti prenotati
Al termine della registrazione si procede quindi con il pagamento online (Visa, Mastercard, CartaSi, American Express, Postepay o PayPal) e si attende l’invio del visto Egitto via mail, che poi va stampato e portato in viaggio.
La richiesta del Visto Egitto può essere presentata in qualunque momento, ma si consiglia di farlo almeno 7 giorni prima della partenza.
In questo momento (giugno 2020) anche in Egitto sussiste il divieto di entrare nel Paese, ma se si vuole iniziare a programmare un viaggio per quando migliorerà la situazione è possibile comunque richiedere il visto, anche se le richieste ovviamente rimarranno in sospeso finché non sarò possibile viaggiare nuovamente. A quel punto si procederà all’elaborazione delle domande del Visto Egitto.
Spero che questo post sul Visto Egitto possa essere utile a tutti i lettori di Professione Archeologo, siano essi archeologi o appassionati, che hanno in programma di tornare presto a viaggiare scegliendo proprio l’Egitto come prossima meta.
Antonia Falcone
* in collaborazione con visti.it
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/spencer-davis-ONVA6s03hg8-unsplash-scaled.jpg17072560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-06-22 16:33:412020-06-22 16:34:49In Egitto con il visto elettronico: come funziona?
Gloria Carraro è archeologa e consulente culturale.
Laureata in Scienze dei Beni Culturali curriculum Archeologico presso l’Università di Pavia attualmente si occupa di didattica archeologica organizzando laboratori per bambini.
Abituata a destreggiarsi tra bimbi urlanti, infiniti “maestra, perché?”, sempre con le mani appiccicose di colla vinilica (argilla), il suo lavoro prima della pandemia e della chiusura delle scuole consisteva nella divulgazione della storia e dell’archeologia attraverso gli strumenti ludici: elaborati di argilla disegni, attività laboratoriali.
Ph. credit: Gloria Carraro
Adesso anche il suo lavoro è cambiato e si è spostato su youtube: Gloria crea, gira e monta video a tema archeologico dedicati ai bambini,sul suo canale video Youtube.
Le ho rivolto 15 domande a cui rispondere al volo.
1 – Nome?
Gloria Carraro
2 – Età (vera o mentale)?
Verso i 40, rimasta intorno ai 20
3 – Segni particolari?
Sono testarda. Ho dei tatuaggi. I miei genitori volevano chiamarmi Selvaggia.
4 – Perché hai scelto di fare l’archeologa?
A 5/6 anni i miei genitori iniziarono a portarmi nei siti archeologici, i primi che ho visitato erano in Grecia e Turchia. L’orario preferito, perché ce la prendevamo con comodo al mattino – eravamo dormiglioni in vacanza – era tipo mezzogiorno, quindi credo che le insolazioni che ho preso in quegli anni abbiamo prodotto strani effetti sul mio percorso di studi.
Scherzi a parte, conoscere il passato attraverso i resti, le tracce antiche, mi ha sempre affascinato.
5 – Perché fai ancora l’archeologa?
Per testardaggine e perché spero di lasciar traccia ai bambini di quanto sia importante e soprattutto bello scoprire il Passato.
6 – Che lavoro farai da grande?
Spero lo stesso di ora. Magari con qualche modifica. Di sicuro voglio mantenere il contatto con i bambini.
7 – Descrivi in tre righe le difficoltà del tuo lavoro.
Cultura: mancano i soldi
Lavori con i bambini quindi è facile e tutti sono capaci…
Certi ambienti della cultura sono abbastanza chiusi.
8 – Un genio può esaudire un tuo desiderio riguardante l’archeologia in Italia. Cosa chiedi?
Che sia riconosciuta al pari di altri lavori.
9 – Raccontaci in una frase cosa fa chi si occupa di didattica archeologica e perché lo fa.
Ho iniziato il mio lavoro nel 2006 con un progetto che si intitolava “Vivi l’Archeologia. Scoprire l’Archeologia, Imparare la Storia” con l’idea di voler sensibilizzare i ragazzi all’archeologia.
“Scoprire l’Archeologia, Imparare la Storia”, è poi diventato il mio motto, perché sono convinta che i giovani, attraverso la scoperta delle tracce antiche dell’uomo, imparino anche la storia.
Quindi in una frase: sensibilizzare i giovani verso l’archeologia e i beni culturali, rendendo piacevole l’esperienza laboratoriale o di visita.
Ph. credit: Gloria Carraro
Ora giochiamo:
10 – Che periodo storico butteresti giù dalla torre: la preistoria, l’età classica o il medioevo? Perché?
No, dai, non si può rispondere a questa domanda.
Devo proprio?
Allora sarò banale: il Medioevo. Perché ha asportato molto materiale di età classica… però se lo buttassi giù non avremmo tutte le meraviglie che sono state prodotte in quel periodo.
11 – Una giornata di montaggio video: chi ti farebbe compagnia con le sue chiacchiere, Alberto Angela o Massimo Polidoro? Perché?
Alberto Angela. Sai che viaggi nel tempo ti fa fare?
Certo che lo sai, sei l’ultrà (ovviamente in senso buono) delle Angelers.
12 – Spiegaci la differenza tra archeologo e paleontologo come faresti con un bambino.
Se vuoi ascoltare come racconto la differenza tra l’archeologo e il paleontologo, c’è un video su YouTube.
Brevemente direi, il paleontologo si occupa dei dinosauri e l’archeologo delle tracce lasciati dagli uomini del passato.
13 – Per un laboratorio didattico devi scegliere un consulente tra Giovanni Muciaccia e Paolo Bonolis dei tempi di Bim Bum Bam. Chi vorresti? E perché?
Direi Muciaccia per la sua creatività.
14 – Il libro per bambini più bello che hai letto e quello che vorresti scrivere.
Cipì di Mario Lodi perché è legato alla mia infanzia.
Negli anni ho letto molti libri per via del lavoro di promozione della lettura che faccio nelle biblioteche, farò sicuramente torto a qualche bel libro ma ti cito due titoli di divulgazione per bambini :
Lucy, la prima donna (Daniele Aristarco)
In Grecia (Giuseppe Zanetto)
Il libro che vorrei scrivere è la continuazione di “Selvaggia Dior e le porte del tempo. Oscuri misteri in Mesopotamia”, testo che ho pubblicato con Edizioni Astragalo nel 2016.
15 – La tua definizione di archeologia.
L’archeologia è una disciplina che fa da intermediario tra il presente e il passato.
Progetto e sviluppo attività didattiche e ludiche di archeologia e comunicazione educativa al patrimonio culturale.
Dal 2006 propongo a scuole, biblioteche e associazioni culturali i progetti:
“Vivi l’Archeologia. Scoprire l’Archeologia, Imparare la Storia” (scuola primaria), “Archeologia a piccoli passi” (scuola dell’infanzia), “Due chiacchiere con Ullo, Drusilla e … un Archeologo” (biblioteche).
Dal 2009 ho ampliato l’offerta per gli enti pubblici e le case editrici proponendo attività di promozione della lettura e di valorizzazione del Patrimonio Culturale.
Nel 2016 pubblico con Edizioni Astragalo il libro per bambini “Selvaggia Dior e le porte del tempo. Oscuri misteri in Mesopotamia”
Nelle #PilloleMetologiche di oggi lascio la parola ad A. Carandini e alle sue Storie dalla Terra (p. 155) per capire una volta per tutte la differenza tra la Legge del Terminus Post Quem e la Legge del Terminus Ante Quem.
► Una moneta o un altro reperto databile rinvenuto in uno strato offre un Terminus Post Quem per l’unità stratigrafica, posto che sia il più tardo di quelli coevi alla formazione dello strato, e cioè che che non sia un residuo o un intruso.
Esempio: → se la moneta è del 73 d.C. lo strato si sarà formato nello stesso anno o in un momento comunque successivo, anche lontanissimo.
► La legge del Terminus Ante Quem invece afferma che, se la cronologia di un’unità stratigrafica è nota, tutte quelle che la precedono nella sequenza stratigrafica sono per forza più antiche.
Esempio: → la ceramica del II secolo d.C. rinvenuta in uno strato più recente di un altro strato che contiene ceramica del III secolo d.C. perde ogni valore cronologico: è da considerarsi residua.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/97794514_3324173634282419_948611632618012672_n.png750500Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-05-14 19:52:382020-05-14 19:52:43#PilloleMetodologiche: Post Quem o Ante Quem?
Dal 9 marzo l’Italia è entrata in lockdown e la Fase Due è iniziata solo da pochissimo.
Non so quanti di voi hanno già ripreso a lavorare, io non sono tra questi e non ho idea di quanto tempo ancora dovrà passare prima di tornare in cantiere. Per ora cerco di sopravvivere tra ansie, refresh sul sito dell’Inps e ricerca spasmodica di notizie sull’emissione del bonus di aprile.
E mi ritengo comunque fortunata perché immagino che prima o poi la nostra presenza sarà richiesta sui cantieri di opere pubbliche, considerati servizi essenziali per la collettività. A differenza di molti colleghi che, dopo la laurea in archeologia, hanno abbandonato cocci, trowel e matrix per cogliere le opportunità offerte dal turismo e che oggi non sanno cosa sarà del loro futuro. Sono tantissimi infatti gli archeologi che negli ultimi anni hanno lavorato prevalentemente come guide turistiche e che oggi sono fermi in attesa di tempi migliori (o di reinventarsi una vita).
Ma non sono qui per angosciarvi con lamentationes varie ed eventuali, a far salire il picco d’ansia bastano le splendide giornate che si alternano fuori dalla finestra o le notizie che leggiamo tutti i giorni online.
Voglio piuttosto raccontavi quello che avrei voluto fare in questo mese di quarantena e quello che invece ho fatto.
Preparatevi a uno scontro epico aspettative vs realtà.
ASPETTATIVA n. 1
Sistemo l’archivio delle documentazioni
Non negate, anche voi avete terabyte di documentazioni di cantieri che risalgono più o meno al Pleistocene, perché “non si sa mai che possa servirmi quella foto fatta a una trincea completamente sterile nel cantiere di Pizzo Sperduto nel lontano 1977 a.C.”.
E quindi: quale occasione migliore di una quarantena forzata per sistemare una volta per tutte file, cartelle, foto e archiviarle con un criterio cronologico – geografico – tipologico?
Che poi alla fin fine, ad essere realisti, ci potrebbero volere giusto un paio di giornate per far uscire dal caos primordiale quella cartella DOCUMENTAZIONI che giace esangue sul desktop e dalla cui vista ritraiamo terrorizzati lo sguardo.
REALTÀ
Cartella, quale cartella?
Giuro che ci ho provato. Mi sono armata di buona volontà, ho fatto una lista delle cose da fare, del criterio da utilizzare, e poi…
…ho preso la cartella, l’ho copiata sull’hard disk (per mettere a tacere la coscienza) e mi sono dedicata alla lettura di un interessantissimo articolo su “Perché il magico potere del riordino con gli archeologi non funziona”.
Sarà per la prossima pandemia.
ASPETTATIVA n. 2
Scrivo quel paper o quel libro in sospeso da mesi
Saranno passati forse due anni dal leggendario giorno in cui ho detto (e anche scritto sui social): “ho un’idea rivoluzionaria per un libro, ma – mannaggia mannaggetta – non trovo mai il tempo per sedermi alla scrivania per più di un’ora al giorno e dare libero sfogo alla mia inesauribile vena creativa. Ecco, avrei giusto bisogno di un mese senza impegni e senza preoccupazioni lavorative per dare finalmente alle stampe il nuovo Premio Pulitzer dell’archeologia”.
Quale momento migliore, per la miseria, di quasi due mesi di lockdown per scrivere QUEL libro?
Voglio dire: non sto lavorando, le giornate non passano mai, non posso andare in giro, i week end sono tutti uguali.
Non capiterà mai più un momento più propizio di questo.
E invece…
REALTÀ
Inizio domani.
Prometto.
ASPETTATIVA n. 3
Leggo quel libro – seguo quel corso online – studio
Ok. Non ho messo in ordine la documentazione. Non ho scritto il libro.
Ma sicuramente il tempo e il modo per aggiornarmi sulle questioni lavorative lo troverò.
Ho la cartella “Elementi salvati” su Facebook piena di link a:
Corsi
Webinar
Manuali
Durante i mesi lavorativi è praticamente impossibile mettersi a studiare o a seguire corsi dopo 8 ore di cantiere e con la sveglia all’alba, e poi i week end sono spesso dedicati a scrivere le documentazioni o, banalmente, ad avere una vita oltre l’archeologia.
Quindi alla fine i link ai corsi e ai libri da leggere si accumulano, creando una condizione perenne di frustrazione per non riuscire mai a incrementare le già molteplici competenze che abbiamo.
In questi giorni di lockdown credo di aver messo millemilamilioni di “parteciperò” a dirette e webinar sui social, con l’ottimismo della volontà di chi ci crede fino in fondo.
REALTÀ
Sì va bene tutto, ma mi dite voi COME FACCIO A NON VEDERE L’ULTIMA SERIE NETFLIX della quale tutti parlano sui social?
Cioè anche io ho il diritto, peraltro chiaramente sancito dalla Costituzione, di commentare e litigare con chiunque su Facebook, soprattutto con la mia migliore amica che, dopo averle messo l’emoji arrabbiata, non mi guarderà più in faccia per la prossima decade.
Tutto questo post per dire che neanche una pandemia mondiale può arrestare quel tratto distintivo dell’archeologo medio che si chiama “procrastinazione”.
Se invece voi siete persone migliori di così, scrivetemi nei commenti cosa siete riusciti a combinare durante questo lockdown!
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/miniature-figure-1745753_1280-1.jpg7681280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-05-04 16:36:162020-05-14 11:00:27Archeologi in lockdown: aspettative vs realtà
Con le #PilloleMetodologiche di oggi voglio sfatare un mito duro a morire: gli archeologi che scavano con il pennellino. Non esiste servizio televisivo dedicato all’archeologia nel quale non compaia un archeologo al lavoro che impugna un pennellino. E invece tutti gli archeologi sanno che sono ben altri gli strumenti che si usano su uno scavo archeologico.
Vediamo quali.
Ci facciamo quindi aiutare da Maura Medri (Dizionario di Archeologia, pp. 265-266) e da Andrea Carandini (Storie dalla terra, pp. 178-185 ) a fare chiarezza su quali sono gli attrezzi del mestiere:
► Gli strumenti più comuni dello scavo sono pale, picconi e picconcini, zappe, carriole, secchi, palette, scopette, spazzole e cazzuole.
► L’attrezzo indispensabile è la trowel , la cazzuola inglese con lama da 10 cm, robustissima e non flessibile, l’unica con cui sia possibile ripulire e scavare in modo corretto.
► Per rimuovere strati omogenei e di notevole volume (p.e. riempimenti, depositi, crolli), si usano gli strumenti grandi: una persona – la più esperta – sta al piccone; una alla pala che raccoglie i materiali di risulta e li carica sulla carriola mantenendo pulita la superficie dello strato; una alla carriola che si occupa dell’ultima cernita dei reperti e del trasporto della terra di risulta.
► Il piccone è utile per lavori pesanti come spiombare le sezioni. Durante lo scavo la terra va lavorata con ordine e alla stessa profondità per facilitare l’intervento della pala. Ci sono due tipi di pala: quella di forma triangolare e quella di forma rettangolare: per infilarle nella terra bisogna servirsi del peso del proprio corpo, facendo forza con la mano sinistra sul ginocchio sinistro.
► Per ripulire le superfici degli strati e delle strutture e per scavare strati di piccoli o medi volumi si usano gli strumenti più di fino. Ogni scavatore deve essere dotato di un kit di attrezzi: cazzuola inglese, paletta e secchio.
► Con la trowel si raschiano le superfici degli strati per ripulirli o si incidono le superfici degli strati per scavarne il volume. Può essere usata delicatamente o con forza a seconda della pressione esercitata su di essa. Afferrandola per la lama o usandola alla rovescia si incide e si raschia con maggiore efficacia. lo scavo con la trowel consente una raccolta completa dei reperti. Si consiglia di usare la trowel associata a una paletta in modo che il movimento per asportare la terra ed esporre la superficie del nuovo strato coincida con il trasporto della terra sulla paletta.
► Altri attrezzi come bisturi, cucchiai, palette a sezione circolare, cazzuole a manico lungo, etc. possono essere utili quando gli altri strumenti sono inappropriati.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/Untitled-design.png7271080Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-04-30 09:10:002020-05-13 23:00:15#PilloleMetodologiche: gli attrezzi dell'archeologo
Per le #PilloleMetodologiche di questa settimana andiamo alla scoperta di uno dei misteri irrisolti dell’archeologia di tutti i tempi: trovare l’inclinazione e il diametro dei cocci da disegnare.
E ci facciamo aiutare in questa impresa titanica da Maria Supino con il suo volume (un po’ datato, ma pur sempre valido) “Fondamenti teorici e pratici del disegno dei reperti archeologici mobili” (pp. 52-60).
L’INCLINAZIONE
► La ricerca dell’inclinazione dei frammenti è indispensabile per la ricostruzione e l’individuazione rispettivamente del diametro e della forma di un manufatto non più intero.
► Per determinare l’esatta inclinazione del frammento, cioè la posizione da esso assunta, rispetto al presunto piano orizzontale di appoggio dell’oggetto intero, è necessario che il frammento conservi almeno in parte l’orlo, il fondo o il piede.
► L’individuazione dell’inclinazione di un frammento, ossia l’angolo che esso formava con il piano orizzontale di lavoro del vasaio, si ottiene appoggiando la parte di orlo, di fondo o di piede conservata su un piano perfettamente orizzontale in modo da farla aderire completamente, senza lasciare cioè interstizi attraverso i quali filtri luce.
► Quindi, determinato il tratto del frammento lungo il quale si vuole far passare la linea di sezione (il tratto di maggior lunghezza), si calcolano:
– L’altezza del punto C dal piano orizzontale (CC’); – La distanza (BC’) del punto C’ (proiezione di C sul piano orizzontale) dal punto B, appartenente all’orlo del frammento.
► Prima di riportare le distanze BC’ e CC’ così stabilite sul quadrante sinistro dello schema ortogonale di riferimento disegnato, è necessario determinare il diametro dell’orlo.
IL DIAMETRO
Per calcolare il diametro si possono utilizzare due metodi.
Il primo procedimento consiste nel riportare su un foglio di carta l’arco di circonferenza del frammento in oggetto.
► Si appoggia l’orlo del frammento con la giusta inclinazione direttamente sul foglio di carta e si ripassa il profilo con una matita oppure si ricalca il profilo dell’orlo preso con il profilografo a pettine
► Quindi si fa collimare l’arco di circonferenza tracciato sul foglio di carta con il corrispondente arco del cerchiometro, ottenuto tracciando una serie di circonferenze concentriche, con diametri progressivi su un cartoncino. così si ottiene l’inclinazione.
Il secondo procedimento consiste nel determinare il diametro del frammento applicando all’arco di circonferenza la regola geometrica secondo la quale “per tre punti non allineati passa una ed una sola circonferenza”.
► sia a l’arco della circonferenza dato di cui dobbiamo determinare il centro per ottenere il diametro;
► centrando il compasso nel punto 1 fissato circa a metà dell’arco, con apertura a piacere, ma minore della metà dell’arco, si descrive la circonferenza c che interseca l’arco a nei punti 2 e 3;
► centrando il compasso nel punto 2 con apertura 2 – 1 si descrive l’arco d che interseca la circonferenza c nei punti 6 e 7;
► centrando il compasso nel punto 3 con apertura 3 – 1, si descrive l’arco e che interseca la circonferenza c nei punti 4 e 5;
► il punto 0, intersezione delle rette congiungenti i punti 4-5 e 6-7, è il centro cercato.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/93873289_3259273100772473_6323200227838787584_n.jpg630940Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-04-27 15:52:202020-05-14 11:06:22#PilloleMetodologiche: il disegno dei materiali ceramici
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