Articoli

Archeologia

Ritorno (all’archeologia)

Da qualche settimana vivo in Inghilterra e tra adempimenti burocratici e il nuovo lavoro, inizio solo adesso a ritrovare una certa normalità. E il tempo di tornare a scrivere, finalmente! Eccomi quindi con un post che non saprei definire se non “personale”. Il personale racconto dell’inizio di una nuova avventura.

Il racconto, anche, di un ritorno, il ritorno all’archeologia.

Eh sì, perché la novità, nonché il motivo per cui mi sono trasferita in UK, è che qui faccio l’archeologa da campo. D’assalto, sembra certe volte, perché i ritmi sono intensi nell’archeologia commerciale inglese, quella che in Italia definiamo archeologia preventiva.

Scriverò più in là di come funzionano qui le cose, le differenze rispetto all’Italia (che sono tante e saltano agli occhi ben prima di mettere piede in cantiere), ma quello su cui riflettevo in questo fine settimana appena passato, che si è come messo a fuoco dopo la domanda di una collega e che voglio condividere con voi, è la sensazione di essere tornata esattamente dove volevo essere: alla terra, agli strati, ai tagli, ai riempimenti, alla fatica fisica del lavoro sul campo e alla fatica intellettuale di leggere quello che la terra racconta.

(Tra parentesi, la riconoscete subito quella fatica: si manifesta nella posizione tipica dell’archeologo, in piedi o accovacciato davanti alla sua US, testa un po’ piegata sul lato, sopracciglia aggrottate e faccia a punto interrogativo).

Ora, esistono tanti tipi di archeologi e tante diverse archeologie, ma ho sempre amato scavare, fin dalla prima volta, un bel po’ di anni fa. Ho preso parte a diverse campagne di scavo da allora, ma nel complesso non ho avuto molta esperienza, non in confronto a tanti colleghi. L’ho sempre avvertita come una mancanza, ma si sa, la vita segue il suo corso e non sempre riusciamo a fare quello che ci piacerebbe.

Così, finita la scuola di specializzazione e mandati alcuni CV che non hanno per la maggior parte avuto risposta, ci ho messo una pietra sopra.

L’ho fatto senza molto crucciarmi per la verità.

Nel mio futuro ci sarebbe stata l’archeologia sul campo oppure no, non era un problema.

Nel frattempo avrei continuato a studiare, a fare ricerca, a scrivere.

Questo blog e tutto ciò che da queste pagine è nato, gli articoli, le conferenze, le collaborazioni, le conoscenze nate sui social e diventate amicizie nel mondo reale, sono una buona testimonianza di com’è andata.

Ed è andata bene, devo dire, anzi più che bene, ma è stato anche il lento consolidarsi di una realizzazione che avevo avuto anni fa, quando stavo per laurearmi per la seconda volta e mi chiedevo se fosse davvero il caso di proseguire gli studi (specializzazione, dottorato?).

Ho scelto gli studi, alla fine, ma quella consapevolezza è rimasta e forse, con lei, un po’ di pessimismo: non sarei mai riuscita a mantenermi con l’archeologia.

“Vattene all’estero” mi è stato detto tante volte. Come se fosse facile, pensavo.

Quando ho fatto domanda per questo lavoro, l’ho fatto perché era una buona occasione, ma ero anche giunta ad una decisione.

L’archeologia, d’ora in poi, sarà per me solo quella social.

Basta mandare domande, aspettare risposte, fare colloqui.

Appendo la trowel al proverbiale chiodo.

Poi, un lunedì pomeriggio di fine febbraio, ho ricevuto l’offerta di lavoro.

Da allora sono state settimane da pazzi, passate tra aeroporti, notti al pc e code in uffici, impegnate a potare a termine gli impegni precedenti (non sempre ci sono riuscita) e a prepararmi per la partenza.

Poi l’arrivo qui. Altri giorni da pazzi.

L’inizio del lavoro, un nuovo ritmo a cui abituarsi, tante cose da imparare, molte altre in cui riprendere la mano dopo anni di assenza dai cantieri.

L’impatto con l’archeologia commerciale inglese è stato duro com’è dura la terra da queste parti quando non piove per tre giorni.

Non al punto da farmi pensare “cosa ci sono venuta a fare qui?” (sono calabrese, se c’è una cosa che non mi manca è la testardaggine), ma duro abbastanza da farmi rimboccare le maniche e dire “ok, ricominciamo”.

Mi ha aiutato il fatto di aver incontrato persone che non sono solo brave nel loro lavoro, ma sono attente a chi hanno davanti. Qualcuno mi ha “adottato”, non c’è davvero termine più adatto, e questo ha reso le cose più facili.

Poi venerdì scorso, mentre portavamo gli ultimi attrezzi dal sito verso il container dove vengono riposti alla fine di ogni settimana, una collega, anche lei straniera, qui da alcuni mesi, mi pone una domanda, quella di cui parlavo all’inizio del post.

“Are you happy, here?”

Sei felice, qui?

Ci ho pensato un momento.

Ho risposto di sì.

Il ritorno alla terra non è stato facile e sono solo le prime settimane, ma sì, è stato un ritorno felice.

E non è la sorpresa di trovare un frammento di ceramica romana o un teschio animale pressoché integro. Non è la curiosità del barista del pub sotto casa che mi vede vestita in abiti da lavoro e mi chiede “cosa avete trovato oggi?”. Non è nemmeno il viaggio in minivan con musica anni ’90 sparata a tutto volume o le chiacchiere con i colleghi durante le pause o dopo il lavoro.

È la sensazione di essere tornata alle origini, alle basi del lavoro di archeologo, al rapporto con la terra, alla ricostruzione del passato lì dove essa ha inizio.

Non sono una romantica del lavoro. Sono consapevole di essere parte di un ingranaggio in un progetto enorme che ha ritmi serrati.

Però concordo con chi dice che il nostro mestiere è un privilegio.

Per come le cose vanno nel nostro paese c’è il rischio serio che lo diventi non solo in senso figurato, ma anche in senso sociale, che potrà permettersi di farlo solo chi proviene da un background capace di sostenerlo anche se non guadagna niente con ricerca e progetti.

Il Regno Unito non è immune a questo rischio, ma per il momento continua ad attrarre archeologi da tutta Europa e se lo fa non è solo per il fascino intrinseco della terra di sua Maestà.

È perché al privilegio (e alla fatica) del contatto con la terra corrisponde un riconoscimento che è anche economico e che permette di fare quello che in Italia non sempre è possibile.

Appunto, vivere di archeologia. Almeno per un po’.

Vi terrò aggiornati su come andrà.

 

@domenica_pate

Archaeology and Me

Cos’è l’Archeologia? La risposta di #archaeoandme

Cos’è l’Archeologia?

L’archeologia siamo noi.

L’archeologia è metodologia, è città, è scoperta, è inclusione, è cittadinanza.

E’ questo che racconta la mostra Archaeology & Me in corso al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme.

Il sottotitolo è “Pensare l’archeologia nell’Europa Contemporanea”.

In tempi di exit, muri e distanze, tornare all’Europa e alla sua cultura come collante di popoli diversi e come spinta propulsiva all’integrazione può sembrare una sfida ardua, a tratti senza speranze. Eppure la storia guarda avanti, oltre i particolarismi temporali che vorrebbero mettere fine ad un progetto europeo partito da lontano e destinato a continuare a lungo.

Chi meglio degli archeologi sa che la pazienza e la continua ricerca di costruzione di legami, US dopo US, frammento dopo frammento, sono alla base della creazione di connessioni cronologiche e spaziali?

Il progetto europeo NEARCH nasce proprio da questa idea e dalla volontà di indagare la percezione che i cittadini europei hanno dell’archeologia. Il concorso pubblico “L’archeologia secondo me” ha lanciato una sfida: un’immagine, un video, una testimonianza che potessero rispondere alla domanda cruciale in questo XXI secolo, così lontano dalle epoche remote che siamo abituati a studiare, e cioè Cos’è l’archeologia?

Le risposte sono sorprendenti e danno il senso della complessità dell’archeologia nella sua percezione e nel suo essere disciplina costantemente in trasformazione.

Stupisce soprattutto la contaminazione tra linguaggi diversi espressi dalle opere in mostra: un’archeologia che non è soltanto il monumento immortalato al tramonto, ma è il tatuaggio di un gladiatore sfoggiato sullo sfondo del Colosseo, i Lego che riproducono una battaglia, il fumetto con le 5 regole dell’archeologo, i piedi nudi su uno strato preistorico, gli smartphone puntati sulla Dama di Elche o le videoinstallazioni di Second Life, il punto di vista del reperto che viene scavato, scoperto ed esposto in un museo.

#archaeoandme

Un esperimento di User Generated Content che rende merito alle tante sfaccettature della disciplina, sempre meno appannaggio dei soli addetti ai lavori e invece ogni giorno più pubblica, volta al coinvolgimento dei cittadini, eredi e custodi della storia, ricostruita, ricomposta e interpretata da noi professionisti in un dialogo costante “con quello che c’è là fuori”.

Una seconda sezione della mostra è invece dedicata all’aspetto metodologico della ricerca: dalla scoperta alle nuove tecnologie fino ai più riusciti esperimenti di archeologia pubblica in Europa senza trascurare la contaminazione con l’arte contemporanea, oggi terreno sempre più fertile di sperimentazioni.

Il percorso si chiude poi con la domanda cruciale “A chi appartiene il passato?” con una carrellata di testimonianze fotografiche legate all’archeologia coloniale, alla percezione distorta della storia antica durante fascismo e nazismo e un focus sulle tragedie contemporanee che impattano sul patrimonio culturale.

Ed è proprio attraversando le sale, osservando gli oggetti esposti, soffermandosi sui particolari di una foto o di un disegno che pian piano si fa strada l’idea che l’archeologia siamo davvero noi, che ogni singolo coccio non è altro che il prodotto dell’umanità e che forse il nostro compito è proprio quello di tornare ad umanizzare il passato per umanizzare il presente.

Tanti i punti di vista, tante le archeologie, tanti i protagonisti che insieme formano una collettività.

*

Antonia Falcone (@antoniafalcone)