Dell’IVA e della solidarietà. Storie di straordinaria attualità #1

Ciao, mi chiamo Giulia, e sono archeologa, ricercatrice, guida turistica e chi più ne ha più ne metta. Faccio più lavori, perché altrimenti non so come pagarmi da vivere, tasse comprese. Un lavoro l’ho scelto e l’altro mi è capitato, ma alla fine mi sono accorta di fare sempre lo stesso lavoro, cioè stare in questa comunità, per riflettere assieme su chi siamo e cosa vogliamo essere. Ogni tanto (direi spesso) è tutto un po’ faticoso, ma allo stesso tempo so che va bene così, perché credo in ciò che faccio, anche se non ci sono sabati, né domeniche, né giorno, né notte, né Pasqua, né Ferragosto.

 

Ecco magari… santificare (a proprio piacimento) qualche festa, vivere più serenamente un periodo di febbre (e non voglio pensare a malattie ben peggiori), non dover ricorrere a un terzo lavoro per pensare anche alla pensione integrativa (ma integrativa di cosa?)… questo magari…

 

 

Prologo – 27 febbraio 2015

 

Era il 27 febbraio, una giornata di sole, già calda per essere ancora pieno inverno. In bicicletta si stava che era un piacere. E felice in bicicletta arrivo in piazza Cavour, dove è già attivo e agguerrito un gruppo di persone della mia stessa età. Sembra un po’ di stare a Londra, uno speakers’ corner: un piccolo palchetto rialzato a fianco di una aiuola e tante persone che con piglio deciso e voce ferma, ordinatamente, esprimono le loro difficoltà e i loro bisogni.

 

I primi ad aver avanzato questa proposta furono allora gli avvocati, ovviamente non quelli affermati e di successo, ma quelli della nostra generazione che, pur brillanti e intellettualmente con le carte in regola, faticano a arrivare a fine mese. Come noi, come tutta la schiera di professionisti preparati e precari che affollano il mondo del lavoro nel 2015.

 

E gli avvocati rischiano di non poter esercitare a causa di un balzello troppo gravoso e legato all’essere iscritti ad un albo: l’iscrizione, appunto, è talmente onerosa che molti non possono pagarla, ma senza iscrizione non puoi esercitare. Insomma un circolo vizioso per cui, come dice Valeria, “non lavoro per avere reddito, ma ho bisogno di un reddito per lavorare”.

 

Un vero paradosso, e non di tipo meramente speculativo. Non c’è nulla di bello e affascinante in questo paradosso, che è stato concepito da un sistema economico per il quale il lavoro autonomo è stata la comoda e pilatesca risposta per abolire forme di lavoro più sicure, quali, ad esempio, i contratti a tempo indeterminato.

 

Sei autonomo, sei inserito in un libero mercato di contrattazione e poco importa se poi lavori 8 ore al giorno per la stessa ditta, tutti i giorni, o addirittura per lo Stato, che non ti paga neppure il 4%.

 

Sei autonomo e quindi devi provvedere, autonomamente appunto, a un’assicurazione personale – che per noi archeologi può essere anche molto delicata specie se lavori sul campo, a – se puoi concederti il lusso – una pensione integrativa – che di integrativo per chi è iscritto alla gestione separata non ha nulla –, a pagarti autonomamente giorni di malattia e ferie, ovvero a non fare ferie e a scongiurare tutti i santi del Paradiso, e con Paradiso intendo tutti quelli possibili religiosi e non, di non ammalarti e – ahimé – forse a non avere figli, dati i tempi elefanteschi con cui eventualmente ti verrebbe erogata una minima quota maternità.

 

Insomma un sistema economico capestro, che di agevolazione per questa generazione – che sarà peraltro la maggior forza lavoro dei prossimi 40 anni – non ha proprio nulla. 

 

Bene, i “giovani” avvocati hanno detto “basta!”, e il 27 febbraio hanno organizzato un accogliente speakers’ corner nei giardinetti, curiosamente appena concimati davanti alla Corte di Cassazione di Roma, e con loro architetti, ingegneri, geometri (pensate… tutte assieme queste tre categorie!!!), parafarmacisti, giornalisti, archivisti, guide e, ah! io, archeologa… e sono stata accolta con tanto calore e interesse, assieme a molti altri lavoratori autonomi.

 

E io ho guardato a tutto ciò con profonda stima e riconoscenza.

 

Persone di ambiti diversi, provenienti da professioni ordinistiche e non, tutte accomunate dalla stessa volontà di avere e chiedere dignità e sicurezza del poter, voler, dover lavorare per esistere e dalla forte consapevolezza che è tempo di agire uniti, in una potente solidarietà interprofessionale.

 

 

(Continua…)

 

 

Giulia Facchin

 

 

Ah! Se volete approfondire:

 

• https://www.facebook.com/pages/Coalizione-27-Febbraio-27F/2309433792499278?sk=timeline

• http://www.lavoripubblici.it/news/2015/03/professione/Equit-Previdenziale-e-Lavoratori-autonomi-parola-d-ordine-Incrociare-le-lotte-_14769.html

• http://www.lavoripubblici.it/news/2015/03/professione/Equit-previdenziale-e-Partite-IVA-nasce-il-Coordinamento-27-Febbraio-_14804.html

• http://www.lavoripubblici.it/news/2015/04/professioni/Le-Partite-IVA-fanno-sul-serio-il-24-aprile-manifestazione-nazionale-sotto-la-sede-dell-INPS_15053.html

• http://nuvola.corriere.it/2015/04/22/caro-tito-boeri-le-partite-iva-scrivono-allinps/

• http://ilmanifesto.info/storia/prima-tappa-linps-la-carovana-dei-diritti-del-movimento-freelance/

• http://www.huffingtonpost.it/riccardo-laterza/lesperimento-della-coalizione-27f_b_7128042.html

• http://www.left.it/2015/04/23/la-coalizione27febbraio-delle-libere-professioni-a-tito-boeri-linps-renda-la-previdenza-piu-equa/

 

 

#Archeostorie: una NON recensione di parte

Archeostorie NON è un manuale barboso.

 

Archeostorie NON è solo per gli addetti ai lavori.

 

Archeostorie NON è il libro dove scoprire che gli alieni hanno costruito le piramidi.

 

Archeostorie NON è accademico.

 

Archeostorie NON è tutto quello che avete letto finora sull’archeologia.

 

Archeostorie è un mix ben shakerato di passato, presente e futuro. Sono le vite di archeologi in carne e ossa. Archeostorie è un modo diverso di pensare l’archeologia. E di farla.

 

E ora che abbiamo la vostra attenzione possiamo raccontarvi qualcosa in più.

 

Archeostorie, manuale non convenzionale di archeologia vissuta non è un libro pianificato a tavolino, è un testo nato letteralmente nella Rete e dalla Rete.

 

Quale Rete? Il web certo, i social soprattutto, ma essenzialmente da quella rete di contatti, stimoli e collaborazioni che il vivere l’archeologia e lo stare online ha creato. Quindi più che  rete si potrebbe dire reti, al plurale, come archeostorie, come archeologie.

 

Perché quello che scoprirete leggendo il testo è che la pluralità delle archeologie non risiede essenzialmente  solo negli ambiti geografici e archeologici di cui ci si occupa ma anche, e forse soprattutto, nella pluralità delle attività con cui la si “applica” alla quotidianità della vita.

 

Quali “mestieri” fanno e raccontano gli autori di Archeostorie?  Tanti, non tutti quelli possibili ma molti. Talvolta inaspettati. Non vogliamo anticiparveli, ma dirvi che alla base di questo caleidoscopio di esperienze c’è un’idea semplice e ovvia quanto forse rivoluzionaria: la pratica dell’archeologia non ha confini e non conosce steccati.

 

Chi ha scritto le archeostorie ? Per non svelarci troppo vi diciamo solo chi le ha curate, con molta verve e pazienza: Cinzia Dal Maso e Francesco Ripanti.

 

Quale è il finale di questa bella storia di condivisione? Il finale lo scriveranno gli archeologi che hanno deciso di raccontarsi in modo non convenzionale e quelli ai quali è affidata ogni giorno la tutela e la valorizzazione del nostro immenso patrimonio culturale. Work in progress.

 

Archeostorie vi dà appuntamento venerdì 10 aprile nella Sala conferenze del Museo Pigorini, alle ore 17:

 

34 MODI DI FARE ARCHEOLOGIA
Brainstorming di massa sui mestieri dell’archeologo

 

Ci saremo anche noi di Professione Archeologo.

Potete seguire il livetwitting con hashtag #archeostorie e farci domande live.

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

Foto credit: @OpusPaulicium

15 domande a… Marina Lo Blundo, assistente museale e blogger

Marina lo Blundo è assistente alla vigilanza museale e blogger.

 

Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università di Genova, ha da poco terminato il dottorato di ricerca in Storia e Conservazione dell’Oggetto d’Arte e d’Architettura all’Università di Roma Tre.

 

Pioniera dell’archeoblogging, nel 2008 ha fondato il blog Generazione di Archeologi e oggi cura i contenuti dei blog della Soprintendenza archeologica della Toscana e del Museo Archeologico Nazionale di Venezia.

 

Il suo lavoro ufficiale è quello di Assistente alla vigilanza per il Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

 

Le abbiamo rivolto 15 domande a cui rispondere al volo.

 

*

 

 

1 – Nome?

 

Marina Lo Blundo.

 

2 – Età (vera o mentale)?

 

Vera 33; mentale spesso e volentieri tra i 17 e i 23 (chiedete in giro, ve lo confermeranno).

 

3 – Segni particolari?

 

R moscia. Inascoltabile soprattutto se abbinata alla C e alla T aspirate, nonché alla C e alla G strascicate (acquisite in questi anni a Firenze). Aggiungeteci anche che ho un accento sporchissimo fatto di toscanismi inseriti qua e là nella cadenza genovese a sua volta inquinata dalle mie origini nella Riviera di Ponente. Capite bene che è preferibile per me scrivere, piuttosto che parlare in pubblico…

 

4 – Perché hai scelto di fare l’archeologa?

 

Perché sinceramente non avrei saputo cos’altro fare.

 

5 – Perché fai ancora l’archeologa?

 

Perché sinceramente non saprei cos’altro fare. Scherzi a parte, ringrazio il Cielo di avermi fatto vincere il famoso concorso per Assistenti alla vigilanza nei musei statali del 2008: se non l’avessi vinto non so cosa farei oggi. Di lavoro retribuito almeno. Ma l’archeoblogger la farei indipendentemente. Mi piace, è parte di me. Non ne potrei fare a meno.

 

6 – Che lavoro farai da grande?

 

Stante la recentissima riforma del MiBACT con la creazione della Direzione Generale dei Musei, credo proprio che farò l’Assistente alla Vigilanza a vita. Spero almeno di restare all’Archeologico di Firenze: non potrei pensare di vivere lontano dalla mia Chimerina…

 

7 – Descrivi in tre righe cosa non va nel tuo lavoro.

 

L’assistente alla vigilanza così come viene inteso dalla maggior parte della vecchia generazione di funzionari svilisce totalmente il personale entrato col nuovo concorso, che si ritrova a stare su un panchetto quando potrebbe essere speso utilmente per altri compiti all’interno delle Soprintendenze.

 

Detto questo, nella quotidianità del mio lavoro non vanno le piccinerie e i dispettucci tra custodi e la sciatteria, a tutti i livelli, nell’affrontare i problemi di gestione del museo.

 

8 – Un genio può esaudire un tuo desiderio riguardante l’archeologia in Italia. Cosa chiedi?

 

Gente savia al MiBACT. Mi piacerebbe che si creasse un circolo virtuoso in cui il Ministero funzioni e faccia ricadere a pioggia sulle altre istituzioni a vario titolo pubbliche e private gli effetti di un buongoverno. Effetti che dovrebbero ricadere anche sui professionisti, da chi si spezza giornalmente la schiena in cantiere a chi fa ricerca, a chi fa comunicazione. Utopia. E vabbè.

 

9 – Se ti reincarnassi in un/a fiorentino/a famoso, chi vorresti essere?

 

Giovanni Poggi, Soprintendente alle Belle Arti durante la II Guerra Mondiale e in particolare nell’Estate del ’44, quando Firenze fu bombardata e poi liberata dagli Alleati. Forse non è un fiorentino famoso, ma sarebbe bene che lo fosse. Egli difese strenuamente il patrimonio artistico fiorentino, le collezioni degli Uffizi e di Palazzo Pitti in particolare, seguì personalmente il trasporto delle opere d’arte in rifugi sicuri fuori Firenze, difese ad ogni costo i capolavori dai furti più o meno legalizzati dei Tedeschi, rischiò molto in nome dell’Arte che difese ad ogni costo.

 

Persona che antepose la salvaguardia del patrimonio artistico ad ogni altra cosa; il suo non fu semplicemente un lavoro, ma una vocazione, una missione. La storia di Poggi si conosce poco, soprattutto fuori Firenze, ma fu un supporto molto importante per i Monuments Men che lavorarono in Toscana tra il 1944 e il 1945. Senza la sua attività probabilmente molte opere d’arte sarebbero andate perdute, cadute in mano ai Tedeschi e/o distrutte per sempre.

 

Ora giochiamo:

 

10 – Che libro butteresti giù da Ponte Vecchio: Etruscologia di Massimo Pallottino o Introduzione allo studio dell’Etrusco di Mauro Cristofani? Perché?

 

Ehm… posso dire che non ho mai letto né l’uno né l’altro? No, oddio, Introduzione allo studio dell’Etrusco dev’essermi passato per le mani però, ecco, non ha lasciato molto il segno… (shame on me, ma so a mala pena leggere tincsvil sulla zampa della Chimera)

 

11 – Una giornata di guardiania al MAF con Massimo Bray o Giuliano Volpe? Perché?

 

Giuliano Volpe non me ne voglia, ma con Massimo Bray mi divertirei un monte a twittare e a far twittare la Chimera (@ChimeraMAF)

 

12 – È l’anno 2100. E’ la fine del mondo prospettata dai Maya (alla fine c’avevano ragione, avevano sbagliato solo l’anno). Puoi scegliere di salvare solo un’opera del Museo: la Chimera, il Vaso François o l’Arringatore? Perché?

 

Eh, la Chimera è la Chimera. Mi dispiace per gli altri, anche se devo ammettere che l’Arringatore mi è sempre stato simpatico. Il Vaso François invece… beh, non sarebbe la prima volta che viene distrutto per la cattiveria di un custode (curiosi di sapere chi fu il primo?).

 

13 – Devi noleggiare un DVD da vedere con la Chimera: scegli L’etrusco uccide ancora o Una notte al museo? Perché?

 

Una notte al museo, che ricorda a lei le sue scorribande notturne per i corridoi e a me tutta la fatica che devo fare ogni volta per domarla. Vi ho mai raccontato di quella volta che l’ho trovata a giocare a scacchi con l’Obesus di Chiusi e Larthia Seianti?

 

14 – Di chi faresti volentieri a meno? Del turista fai da te che “Scusi, ma per il Colosseo, devo girare dopo Piazza della Signoria?” oppure della neolaureata che “io vorrei lavorare in un Museo e lo farei anche gratis”? Perché?

 

Andrò un po’ controcorrente, però farei a meno non tanto del turista fai da te quanto del “visitatore ad ogni costo”, quello che siccome ha comprato una card per entrare in tutti i musei del mondo deve per-correrli tutti, senza avere alcuna idea di quello che sta guardando. Senza sapere neanche dove si trova.

 

E purtroppo, e andrò ulteriormente controcorrente, iniziative come la #domenicaalmuseo non fanno altro che evidenziare questa situazione. Le folle oceaniche che si riversano al museo approfittando del biglietto gratuito semplicemente attraversano il museo: una percentuale molto bassa è davvero interessata e visita con cognizione di causa o quantomeno con interesse. Ma la maggior parte, mi dispiace dirlo, non ha assolutamente idea di dove si trova; per costoro essere al museo archeologico o alla pinacoteca o in un centro commerciale non fa nessuna differenza. Non lo dico così tanto per dire, ma in base a lunghe osservazioni in sala.

 

La neolaureata che lavorerebbe anche gratis mi fa solo tenerezza. A meno che, certo, non arrivi con l’atteggiamento borioso di chi ha capito tutto della vita (e purtroppo ce n’è a giro): ricordo, quand’ero stata appena assunta, che in museo a Firenze c’erano due studentesse stagiste; ricordo l’aria di sufficienza con cui guardavano noi che eravamo “solo” custodi. Non so, sinceramente, che fine abbiano fatto.

 

15 – La tua definizione di archeologia.

 

Per me l’archeologia è una disciplina “sociale”: il fine ultimo di ogni ricerca archeologica è la restituzione alla comunità di un tassello della sua storia, antica o meno antica che sia. Per questo a mio parere non si può prescindere dalla comunicazione e dal racconto. Non c’è archeologia se manca il racconto, ma il racconto ha bisogno di qualcuno cui lo si racconti.

 

Quella degli archeologi è una missione “sociale”, non mi stancherò mai di dirlo. Se ci dimentichiamo del nostro Patrimonio perché non ne conosciamo il valore e non lo riconosciamo come nostro, è un danno per la società. Guardate cos’è successo a Mosul, se volete avere un esempio forte di ciò che intendo.

 

[Photo credit: Paola Romi @OpusPaulicium]

 

 

(@pr_archeologo)

Art Bonus Foto libere

Se un giorno d’estate un ricercatore (o sulle limitazioni alla libertà di fotografare fonti archivistiche e bibliografiche)

Il non-sense è sempre in agguato.

 

È strano, ma proprio nei provvedimenti salutati con grande entusiasmo spesso si nasconde un vulnus assurdo ed imprevisto che invece di migliorare la situazione riesce quasi a peggiorare quella esistente.

 

Correva l’anno 2014 quando, tra scene di giubilo e applausi vari, col decreto detto Art Bonus, il Ministro Dario Franceschini decise di liberalizzare la riproduzione fotografica dei beni culturali conservati in ogni dove.

 

L’Italia era finalmente entrata nel XXI secolo! O almeno così pareva.

 

Ben presto, infatti, gli addetti ai lavori ed i più attenti esperti di open data rilevarono che il provvedimento, in effetti, aveva ben più di un problema e che a ben guardare di dati aperti non si trattava affatto.

 

“Sempre meglio di niente” commentarono gli ottimisti. “Eppur si muove” cinguettarono i sarcastici. “Tutto da rifare” dissero i soliti borbottoni. Ma nemmeno questi ultimi avevano previsto che la situazione potesse peggiorare. E invece, l’imprevedibile accadde.

 

Perché, cari lettori, come un tempo si insegnava nelle neglette lezioni di educazione civica, i decreti, come i pomodori in barattolo, hanno la scadenza. Per questo motivo, dopo un po’, vanno convertiti in legge. E nel convertire Art bonus, così amato e criticato, nella foga di migliorarlo, ci scappò il “pastrocchio”.

 

All’indomani della pubblicazione della legge, un ignaro ricercatore (se fosse studente, dottorando, professionista o professore non è dato saperlo, ma di sicuro esperto in materia di Beni Culturali) si accorse di una cosa.

 

Tutti potevano fotografare tutto, ma lui, i documenti d’archivio che gli servivano per proseguire le sue ricerche, no.

 

Quelle foto avrebbe dovuto pagarle.

 

Ohibò, era mai possibile che il legislatore ritenesse le esigenze del ricercatore meno importanti di quelle del turista che scatta un selfie con Paolina Borghese?

 

Rilesse bene tutto. No, purtroppo non si era sbagliato.

 

Sembra un racconto fantasioso e invece è tutto vero.

 

Lo scorso luglio, con la conversione in legge di Art Bonus, è stato approvato un emendamento restrittivo che esclude dalla libera riproduzione i beni archivistici e bibliografici, inizialmente prevista dal decreto.

 

Si torna quindi al regime precedente: le immagini di documenti d’archivio e libri dovranno essere pagate, anche se si è autorizzati a farle con mezzi propri, oppure commissionate al concessionario di turno.

 

Ovviamente tale norma, oltre che essere illogica, crea e creerà problemi a chi fa ricerca o a chi, per svolgere compiutamente il proprio lavoro, ha bisogno di materiale d’archivio.

 

Della sensibilizzazione e della legittima protesta sulla questione si occupa ormai da molti mesi il movimento Fotografie Libere per Beni Culturali, che si propone di favorire la fruizione libera e gratuita delle fonti documentarie in archivi e biblioteche per finalità di ricerca. Sul sito troverete approfondimenti, rassegna stampa e iniziative intraprese.

 

Anche grazie a questa mobilitazione, qualcuno dei componenti della Commissione Cultura della Camera ha ammesso, con apprezzabile sincerità, che la decisione presa è stata un errore. Di prossime rettifiche, tuttavia, per il momento non si ha nessuna notizia.

 

Nell’attesa che qualcosa cambi nel prossimo futuro, è possibile firmare la petizione lanciata da Foto Libere per i Beni Culturali, già sottoscritta da tanti ricercatori, studenti, archeologi e intellettuali fra i quali figurano anche diverse personalità illustri.

 

Foto Libere per il Beni Culturali è anche su Twitter e Facebook.

 

*

 

Paola Romi (@OpusPaulicium)

 

 

 

Ragione e sentimento. Lavorare gratis in un museo è l’aspirazione sbagliata?

Decadenza. Passione. Risorse umane. Risorse economiche.

 

Ciao Valentina,

 

di sicuro i quattro termini, ripresi dalla tua lettera al Sindaco di Roma Ignazio Marino, sono più che adatti a descrivere la situazione dei lavoratori dei Beni Culturali. Personalmente, avrei scelto di utilizzarli in altro modo e sarei arrivata ad una richiesta nettamente opposta.

 

Ma andiamo con ordine.

 

Io e te non ci conosciamo, ma abbiamo in comune più cose di quante immagini. Entrambe viviamo a Roma, entrambe amiamo l’arte, entrambe abbiamo studiato o studiamo beni culturali. Entrambe abbiamo qualcosa da dire.

 

Non voglio perdere tempo ed entro subito nel merito della questione.

 

“Lavoro” e “gratis”non possono andare d’accordo perchè sono sono due concetti semanticamente opposti. “Gratuito” è ciò “che si fa o si riceve o si ha senza pagamento, senza compenso”, esattamente agli antipodi, quindi, della parola “lavoro” che invece presuppone una retribuzione per la prestazione svolta.

 

Tenere aperto un museo è un lavoro, concorderai con me. Necessita di competenze ed esperienza e in quanto lavoro va retribuito.

 

Tenere aperto un museo solo con chi “vuole” farlo gratis squalifica il museo stesso oltre che le professionalità del settore. E tra queste ultime tra qualche anno ci sarai anche tu, con la tua laurea, il tuo master o il tuo dottorato. Questa sì che è decadenza.

 

Facciamo un salto avanti nel tempo, diciamo… di cinque anni.

 

Per allora avrai terminato gli studi e ora stai cercando lavoro. Hai mandato centinaia di curriculum, partecipato a concorsi su concorsi e finalmente, un giorno ti chiamano per un colloquio in un museo. Il sogno della tua vita. Era ora!

 

Sei preparata, determinata e certa che questa volta sta per arrivare la grande occasione.

 

Ecco, immagina che nella sala d’aspetto per il colloquio ci siamo io e te.

 

Entrambe abbiamo gli stessi titoli, le stesse esperienze e la stessa ambizione: lavorare in quel museo.

 

La differenza tra me e te è che io non ho bisogno di essere retribuita (sono benestante di famiglia, voglio ancora fare esperienza, ho un marito che mi mantiene, fai un po’ tu). Tu invece, ne hai bisogno, eccome: i tuoi non ti mantengono più ora e devi pagare l’affitto della stanza e le bollette, oltre che a una birretta con gli amici ogni tanto e quel corso di yoga a cui finalmente hai deciso di iscriverti.

 

Ecco, immaginiamo che in questo scenario ben poco fantascientifico, i fondi per tenere aperto il museo sono esigui, anzi, il museo potrebbe chiudere da un giorno all’altro. Sarebbe un peccato, una magnifica collezione chiusa per sempre!

 

Io entro a colloquio. Dico all’esaminatore che per me non c’è nessun problema a tenere aperto il museo senza essere pagata.

 

Poi entri tu.

 

Alla fine del colloquio chiedi all’esaminatore qual è lo stipendio mensile.

 

 

I conti sono facili.

 

Sceglieranno me. Li ho scongiurati di prendermi, non voglio neanche il rimborso spese modello stage. No,voglio proprio lavorare gratuitamente. Io amo la cultura.  Io tornerò a casa gongolante, ho realizzato il mio sogno.

 

 

Tu tornerai a casa dopo l’ennesimo colloquio andato a vuoto.  Cosa penserai allora? O meglio, cosa farai?  Cercherai un altro lavoro, probabilmente lavorerai qualche mese in un call center, poi in pizzeria, poi farai la freelance, poi poi poi.

 

 

Poi cosa?

 

 

Avrai studiato dieci anni e non avrai avuto la possibilità di lavorare nel settore per il quale ti sei formata. E sconsiglierai a chiunque te lo chiederà di studiare storia dell’arte o archeologia. Non ne vale la pena, non si sopravvive.
Quindi come vedi risorse umane e risorse economiche, in una società che non sia basata sullo schiavismo o sulle caste, non sono due voci alternative. Semplicemente perché non “campiamo d’aria”. Nè io nè te.

 

 

Le risorse umane necessitano di risorse economiche.

 

 

Prendere la strada del “io lo faccio anche gratis” significa avviare una selezione in base al censo, tra chi può permetterselo e chi non può e dovrà cambiare lavoro.
Siamo sicuri che il progresso scientifico e culturale, perché a questo servono i musei, a conservare ma anche a divulgare, insegnare, progredire, assolveranno alla loro missione con un personale selezionato in base al censo?

 

 
Io non credo. Come non credo che la passione possa uccidere la ragione.

 

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

15 domande a… Diletta Menghinello, archeologa on the road

Diletta Menghinello è archeologa e blogger.

 

Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università della Tuscia di Viterbo, si è specializzata presso l’Università la Sapienza di Roma.

 

Archeologa on the road, ha maturato un’esperienza pluriennale nell’assistenza archeologica e nell’archeologia preventiva.

 

Dal 2009 gestisce il Gruppo Facebook USCIRE DAL TUNNEL DELL’ARCHEOLOGIA SI PUO’!!! e nel 2014 ha fondato il blog Archeopatia. Soliloqui, deliri, peregrinazioni e allucinazioni della parafilia dell’antico dai primi sintomi alla completa remissione.

 

Le abbiamo rivolto 15 domande a cui rispondere al volo.

 

Buona lettura!

 

*

 

1 – Nome?

 

Diletta Menghinello [disambiguazione: Diletta è il nome].

 

2 – Età (vera o mentale)?

 

Anagrafica 36. Mentale: a volte 7, a volte 65. Mediamente i conti tornano.

 

3 – Segni particolari?

 

Cinica tendente al nichilismo.

 

4 – Perché hai scelto di fare l’archeologa?

 

Qui devo evocare la nerd che è in me e parlare di “stratigrafie”, se non archeologiche, mentali. Substrato etrusco, madre amante della materia, immotivata avversione per il ben avviato studio paterno da geometra e cieca adesione al dogma radical chic acquisito al liceo classico che la cultura umanistica prima o poi paga. Il tutto drasticamente aggravato dal tentativo non riuscito di laurearmi in Giurisprudenza.

E il fatto che adesso io passi la maggior parte del tempo nei cantieri a rincorrere geometri e ingegneri vari rispettivamente a 1/2 e 1/4 del loro stipendio lo considero un capolavoro di ironia. La vita spesso ha un grande senso dell’umorismo.

 

5 – Perché fai ancora l’archeologa?

 

Perché a parte questo e la cameriera non so fare altro. E il secondo è un lavoro terribilmente faticoso.

 

6 – Che lavoro farai da grande?

 

Sfrutterò in modo ignobile gli averi dei miei avi aprendo B&B e orticelli bio con il recondito pensiero di riservarmi un pezzetto di terra su cui scavare abusivamente nei momenti di noia.

 

7 – Descrivi in tre righe cosa non va nel tuo lavoro.

 

Corruzione e clientelismi vari connaturati all’italico sistema di risoluzione dei conflitti tra pubblico e privato che rendono la qualità del lavoro un optional (se non direttamente un elemento di disturbo) e la finalizzazione ultima dell’archeologia – che è pur sempre una scienza sociale – una pura utopia. La mancanza di una normativa adeguata fa il resto.

 

8 – Un genio può esaudire un tuo desiderio riguardante l’archeologia in Italia. Cosa chiedi?

 

Un Ministro dei Beni Culturali tedesco.

 

9 – Se ti reincarnassi in una delle figure professionali che si incontrano in cantiere chi vorresti essere?

 

Un certo tipo di funzionaria. Quella che arriva scocciata con un ritardo di circa due ore e mezza nel tuo cantiere lustrato per l’occasione, che ti illumina sulla sua meritoria ascesa alla poltrona ereditata dal prozio defunto mentre due valletti le infilano scarpe antinfortunistiche intonse e che se ne va dopo 5 minuti servita e riverita, senza aver colto a pieno la differenza tra una sezione e una pianta. Godrei certamente dei miei primi momenti di gloria sul posto di lavoro. Strano Paese l’Italia…

 

Ora giochiamo:

 

10 – Che libro butteresti dalla torre: Storie dalla terra o L’arte romana nel centro del potere? Perché?

 

Senza nulla togliere al primo, il libro di Bandinelli è una tappa obbligata per lo studente di archeologia e non solo: ben scritto, affascinante, una meravigliosa avventura dell’anima che ti porta a concludere che in fin dei conti hai fatto la scelta giusta nella vita. Forse solo per questo dovrei buttarlo dalla torre. Ma alla fine no, lancio l’altro!

 

11 – Una birra dopo il lavoro con Massimo Osanna o Giuliano Volpe? Perché?

 

Osanna. Alla terza gli estorcerei la promessa di un lavoretto a Pompei.

 

12 – A cena fuori con Bray o Franceschini? Perché?

 

Franceschini. Qualcosa di quell’uomo mi dice che si offrirà volontario per pagare il conto.

 

13 – Puoi scegliere un “archeologo famoso” disposto a passare una giornata con te a guardare l’escavatore. Chi vorresti?

 

Edward C. Harris. Una volta resosi conto del sadismo del suo matrix applicato all’archeologia d’emergenza e fatta pubblica ammenda, acconsentirebbe di sicuro a tornare senza traumi a “strato alfa” e “strato beta”, facendo la felicità di migliaia di archeologi nel mondo.

 

14 – Di chi faresti volentieri a meno in cantiere? Umarells o un caposquadra piacione?

 

Umarells. Mentre infatti il piacione si autodistrugge in tre giorni passando brevemente dal viscidume all’aperta ostilità (a meno che non ci stiate, allora è tutto un altro discorso), il vegliardo ex-ruspista classe ’23 passato indenne ad almeno un conflitto mondiale e agli anni di piombo è praticamente indistruttibile.

 

15 – La tua definizione di archeologia.

 

L’archeologia è soprattutto un disturbo mentale di tipo maniacale. Analizzandola più benevolmente, è quella scienza che, attraverso un impianto teorico da astrofisica ed una rigorosa metodologia chirurgica, si propone di dare risposte perennemente incerte a quesiti ormai passati di moda. Come si vede, anche così si ritorna alla prima definizione.

 

 

 (@pr_archeologo)