L’e-book di #svegliamuseo: ne parliamo con Francesca, Alessandro e Valeria
L’estate è arrivata e in valigia non possono mancare i libri da leggere sotto l’ombrellone.
Ma visto che siamo nel 2014 e che in vacanza ci andiamo “armati” di tablet e e-book reader, il nostro consiglio è di non lasciarvi sfuggire il primo e-book a firma #svegliamuseo.
Per una serie di ragioni: innanzitutto è gratuito (basta cliccare qui e scaricarlo), poi perché è frutto del lavoro di un team giovane e motivato, e infine perché termini come digital strategy, storytelling, social media strategy ormai sono diventati patrimonio comune anche nel settore dei beni culturali.
Abbiamo fatto qualche domanda al team di #svegliamuseo per saperne qualcosa in più.
Ciao ragazzi e complimenti per la bella iniziativa. Cominciamo subito con una domanda a bruciapelo: diamo ai nostri lettori, perlopiù archeologi, tre motivi per scaricare l’e-book di #svegliamuseo. A chi è rivolto l’e-book di #svegliamuseo e perché dovrebbe portarselo sotto l’ombrellone quest’estate?
[Francesca De Gottardo] Come ci si poteva facilmente aspettare e come dice lo stesso titolo, abbiamo progettato questo e-book tenendo a mente un target principale ben preciso: i musei. Nello specifico, ci rivolgiamo ai professionisti dei musei italiani che si occupano di comunicazione e che vogliono migliorare il proprio approccio agli strumenti digitali.
È un testo che può aiutare a orientarsi nel mondo del web chi si trova a fare i conti con social media e siti internet per la prima volta, ma, nello stesso tempo, anche chi ha già dimestichezza con questi strumenti può trovare nuove angolazioni e punti di vista differenti.
Perché portarlo sotto l’ombrellone?
Innanzitutto, perché ci sono tantissimi esempi da cui prendere ispirazione: l’e-book è ricco di case studies interessanti di provenienza nazionale e internazionale su come utilizzare social media e storytelling in ambito culturale. Motivo numero due: perché sono elencate tutte le caratteristiche per valutare la qualità di un sito web e sono spiegati passo dopo passo i principali tool di analisi dei dati online. Si tratta di elementi molto tecnici e solitamente ostici, che i nostri Federico Giannini e Pietro Colella sono riusciti a rendere accessibili, con esempi e immagini che chiunque può seguire. Infine, perché la conoscenza è il passo fondamentale per valutare attentamente il significato della parola “impossibile”. Ci auguriamo che questo e-book riesca a far capire non solo l’importanza della comunicazione digitale, ma anche come questa sia molto più a portata di mano di quanto molti musei non credono.
Ora entriamo nel particolare. Il vostro volume parla anche di social media strategy. Potete dirci in breve quali sono secondo voi gli strumenti digitali adatti ad una strategia di promozione e valorizzazione sul web per un museo archeologico e in base a cosa si può effettuare una scelta?
[Francesca] Gli strumenti sono molti, ognuno con le proprie caratteristiche distintive, in termini sia di tipologia di contenuti, di target, che di modalità di interazione. Direi che il criterio su cui basare la scelta deve essere strategico: il museo si deve chiedere alcune domande fondamentali, come “a chi voglio parlare? su quali piattaforme si trova il mio pubblico? quali obiettivi voglio ottenere? quanto tempo a disposizione ho? quali e quanti contenuti voglio condividere?”.
Ad esempio, se un museo archeologico volesse rivolgersi a un pubblico prettamente giovane – tra i 20 e i 30 anni – con l’obiettivo di far conoscere l’esistenza del museo e le collezioni, avesse una media di un paio d’ore a settimana a disposizione e molte fotografie di incredibili pezzi del III sec. a.C., probabilmente consiglierei di aprire un blog su Tumblr. È qui che si trova il pubblico più giovane e Tumblr, grazie alle tag, consente maggiore possibilità di diffusione dei contenuti anche presso utenti che non seguono già il profilo, a differenza di Facebook. È una piattaforma altamente visiva che premia le fotografie di qualità e la creatività nel proporre i contenuti. Inoltre, è incredibilmente facile programmare in anticipo la pubblicazione dei post, concentrando in un breve tempo le pubblicazioni di tutta la settimana.
L’approccio “target + obiettivo → quale social network” dovrebbe sempre essere alla base della strategia di comunicazione online di un museo, per evitare di perdere tempo e risorse nelle piattaforme sbagliate, per poi magari lamentarsi dei risultati.
Passiamo dal “come”, al “cosa”, ossia ai contenuti. Di cosa dovrebbe “parlare” un museo al suo pubblico? I contenuti devono differenziarsi in base agli strumenti che si utilizzano?
[Alessandro D’Amore] Credo che non ci sia niente di più bello per un museo (e per il suo pubblico) che raccontare le storie che contiene. Perché aspettare che il pubblico venga a visitare il museo per far conoscere loro le storie che ci sono dietro ai reperti e non fare l’operazione contraria, cioè attrarre visitatori attraverso le storie raccontate online? Ovviamente ogni piattaforma ha le proprie regole e le proprie metriche: non si può scrivere su Facebook come si scrive su Twitter (a parte il limite dei caratteri), così come non si può scrivere per il blog come si scrive un articolo specialistico. È tutta una questione di registri.
Per sapere quale registro utilizzare, dobbiamo conoscere le piattaforme e i pubblici che le utilizzano.
Nota dolente: i siti web, ai quali è dedicato il secondo capitolo del libro. Rispetto a molte istituzioni internazionali i nostri musei sembrano sottovalutare l’importanza di avere un sito web ben progettato e aggiornato costantemente e, tra le altre cose, sono molto rare le versioni in lingua straniera, quantomeno in inglese. Vi siete dati una spiegazione per questo ritardo? La motivazione si può trovare solo nella cronica carenza di fondi?
[Valeria Gasparotti] Non penso che il fatto di avere un sito web un po’ datato sia esclusiva dei musei nel nostro paese.
Molti musei stranieri hanno siti web che non sono altro che statiche pagine in html e ricorrono a blog o ai social per “rinnovare” la propria immagine online. Penso che più che di mancanza di fondi si possa parlare di mancanza di consapevolezza: spesso il desiderio di essere “moderni” spinge i musei a pensare di dover adottare la tecnologia più scintillante con la grafica più accattivante. Ma la riflessione dovrebbe essere più strategica che estetica. Il sito dovrebbe rispondere prima di tutto a un’esigenza di trasmissione delle informazioni nella maniera più accessibile possibile. Questo significa non solo renderlo navigabile da persone con disabilità – per esempio utenti non vedenti – ma anche, più in generale, garantire la fruizione dei contenuti adattandoli a bisogni e necessità di tutti i tipi di utenti. Questa riflessione dovrebbe quindi informare la scelta rispetto a cosa è prioritario, specie quando i fondi sono pochi.
Per esempio, si parla spesso della rivoluzionaria diffusione di smartphones nelle tasche dei visitatori. Molti musei usano le poche risorse a disposizione per produrre app senza domandarsi se è ciò che veramente i visitatori vorrebbero o userebbero. In certi casi, invece, basterebbe un mobile website, investimento molto più contenuto e sostenibile nel tempo, per servire in maniera più efficace i visitatori e garantire che i nostri contenuti siano fruibili “on the go”.
Alessandro, tu nell’e-book hai approfondito il capitolo sullo storytelling digitale. Non credi che sia necessario fare un lavoro di storytelling non solo online, ma anche offline? Penso per esempio ai pannelli delle mostre o delle aree archeologiche, spesso poco attrattivi per un pubblico di non addetti ai lavori, oppure al coinvolgimento “live” di alcune fasce di pubblico come gli anziani o i bambini.
[Alessandro] Assolutamente sì. Come ha intelligentemente scritto Jasper Visser in un suo post, nel digital storytelling la parte che ci interessa non è l’aggettivo digital, ma lo storytelling. Aver approfondito la parte dello storytelling online non vuol dire farla primeggiare su quella offline; anzi, non c’è cosa peggiore per un’istituzione che creare divario tra comunicazione online e offline. Tanto è vero che ho dedicato un paragrafo ai testi (online e offline) dal provocatorio titolo “il tempio tetrastilo è morto”. Volevo riferirmi proprio alla terminologia e alle scelte linguistiche che si fanno senza tenere presente i propri pubblici.
Il punto principale è ricordare che non scriviamo per noi stessi. Mai. E questo vale a maggior ragione nella progettazione della pannellistica o delle brochure di un museo. Il coinvolgimento di diverse fasce di pubblico è fondamentale, ma la maggior parte della comunicazione che vediamo nei musei è monotonale. Generalmente non c’è alcuna diversificazione neanche nelle audioguide, che pure sarebbero uno strumento molto versatile per coinvolgere diverse fette di pubblico.
L’e-book che stiamo presentando è solo l’ultimo delle utilissime ‘tool’ ideate dal vostro team per i musei. Un progetto che ci è piaciuto molto, di recente, è stato SvegliaMuseoOnAir, una serie di appuntamenti live su youtube (qui il canale) per approfondire gli aspetti più importanti della social media strategy per i musei, da Google analytics a youtube e video stategy passando per FB e twitter. Qual è il canale meno “sfruttato” dai musei italiani, secondo voi?
[Valeria] Ancora una volta mi allontanerei dall’idea che esistano delle cose che i musei italiani non fanno rispetto ai musei stranieri. Non esistono, secondo me, piattaforme che devono essere universalmente sfruttate. Dipende sempre dal contesto, per esempio, Vine o iTunes in Italia non hanno forse ancora “attecchito” e non mi vengono in mente casi specifici di musei italiani che li utilizzano significativamente.
Questo però non è necessariamente un male. Che senso avrebbe adottare una piattaforma, investire tempo e risorse per produrre contenuti adeguati, se l’utenza che vogliamo raggiungere non la utilizza? Sebbene possiamo pensare che esistano social media in cui “è obbligatorio” esserci, sempre di più la riflessione deve partire dalle domande “quali social usano i miei visitatori? Quali piattaforme sono le più adatte per i contenuti che voglio diffondere?”.
Adeguare il nostro contenuto alla “cultura” di un canale social è un’altra cosa cruciale. Per esempio, moltissimi musei, italiani ed esteri, sono presenti su YouTube, ma quanti di loro lo utilizzano diversamente da un semplice archivio video? La cultura di YouTube richiede ben altro tipo di lavoro, vedi per esempio The Brain Scoop, serie di episodi targati Field Museum pensati, creati e divulgati appositamente per questa piattaforma.
Siamo certi che questo ebook sarà un valido supporto per tutta la community dei musei italiani. Grazie per il tempo che ci avete dedicato e in bocca al lupo per i progetti futuri di Svegliamuseo!
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