Archeoschiscetta, lo street food dell’archeologo
Gli archeologi da strada – quelli cioè che di lavoro si occupano prevalentemente di sorveglianze archeologiche – si dividono in due gruppi:
- con il portapranzo
- senza il portapranzo
Gli archeologi senza portapranzo a loro volta sono classificabili in due sottogruppi:
- archeologi da panino, quelli che mettono quotidianamente alla prova la resistenza (o resilienza?) dei propri stomaci a colpi di fette di pane o rosette infarcite di mortazza (mortadella, nda). L’archeologo da panino in genere soffre ciclicamente di gastrite, malessere che attribuisce allo stress da lavoro (e parla con l’architetto, e urla con gli operai, e rispondi all’ennesimo passante che ti chiede “cosa avete trovato?”) e ai caffè, ma che invece cova laddove la dieta è monopolizzata da insaccati e carboidrati. Mangiare un panino al volo, d’altra parte, consente al nostro impavido archeologo di prendere contemporaneamente le misure della trincea, facendo esercizi di equilibrismo con panino, metro e taccuino. Ovviamente questa categoria di archeologo non teme nulla, sa che la vita fa schifo e amen, via andare.
- archeologi da tavola calda, quelli che non rinuncerebbero mai a primo e/o secondo, contorno, acqua e caffè, rigorosamente seduti ai tavolini metallici di un baraccio di periferia o ai tavoli, apparecchiati con tovaglie di carta a quadretti, di tavole calde da camionisti (esistono elenchi segretissimi , che girano tra pochi eletti, di luoghi del suburbio romano dove si mangia come da Cracco, ma con porzioni degne della definizione di “piatto di pasta”, chè invece il gourmet “lo damo ar gatto”). Alla base di questa scelta alimentare più equilibrata c’è di certo la considerazione, inconscia o rivendicata, che già la vita da archeologi è brutta assai, almeno in pausa pranzo salviamo la dignità. O anche la segreta speranza di fare amicizia con i vicini di tavolo (che non si sa mai, tra una chiacchiera e l’altra viene fuori che stanno cercando un aiuto camionista da assumere a tempo indeterminato e taaac curriculum vitae)
NdA: come ci piace a noi archeologi categorizzare tutto
Io appartengo decisamente alla prima categoria, l’archeologa cum portapranzo, vale a dire che se esco di casa la mattina presto senza la borsetta termica munita di cibaria, bottiglietta dell’olio, mini taglia di sale, posate e tovaglioli, mi sento ignuda. Un po’ come se uscissi senza scarpe antinfortunistiche.
La schiscetta – da qui in poi archeoschiscetta – dunque per me è compagna insostituibile delle fugaci pause pranzo a bordo strada, in macchina o sulle panchine dei giardini pubblici.
La sua utilità risiede in molteplici aspetti:
- permette di risparmiare soldi
- consente una variatio maggiore nel menu settimanale
- permette di non buttare gli avanzi della cena della sera prima
- ti consente di spendere i soldi – gli stessi risparmiati sopra – da Tiger o Dmail in contenitori multicolor, multimaterial, multiunicorni, senza alcun senso di colpa. Tanto è per lavoro.
MA.
C’è sempre un MA.
Ci sono una serie di fattori, per così dire deterrenti, che potrebbero remare contro. Li esaminiamo uno alla volta.
LA PIGRIZIA
Pranzare con l’archeoschiscetta vuol dire prepararla la sera prima, in altre parole essere previdenti. E lo sappiamo tutti che l’archeologo è per definizione un procrastinatore di professione: ne consegue che chiedere ad un archeologo di prepararsi il pranzo quasi 24h prima è volergli un po’ male, tipo Marco Giunio Bruto con Cesare.
Ma l’archeologo ha anche delle qualità e tra queste spicca il suo essere particolarmente adattivo in situazioni di stress: ecco quindi che il nostro prode eroe – ed eroina – risolve la questione “pigrizia” preparando chilate di riso/farro/orzo che possano bastare per una settimana, da condire di giorno in giorno con il contenuto di conserve comprate al supermercato a pacchi o – per i più fortunati – mandate con il pacco da giù.
E il pranzo è servito (cit.)
LA LOCATION
Benchè il cinema e i romanzi d’avventura ci abbiano convinti che un archeologo DEVE per forza girare con una Range Rover super accessoriata e con le gomme infangate, la realtà è un tantino diversa.
Se si facesse uno studio statistico sull’automobile posseduta in prevalenza dagli archeologi sono certa che la risposta sarebbe una sola:
Pandino. Do you know?
Ma non tutti gli archeologi sono automuniti, io per prima quando ho iniziato a fare questo lavoro mi spostavo a Roma con i mezzi pubblici (poi un giorno vi racconterò di quando l’autobus mi ha lasciata da sola alle 7 di mattina nel campo rom Casilino 900, in attesa degli operai che non sono mai arrivati).
Quando non hai la macchina, girare in autobus o metro con tutta l’attrezzatura da archeologo (tra cui palina, casco, zaino) a cui aggiungere il portapranzo diventa davvero proibitivo.
Superare questo ostacolo logistico è impensabile anche per l’archeologo più creativo.
(E no, andare in cantiere con lo zaino che hai usato nell’interrail del 1995 non è LA soluzione.)
LA FANTASIA
Se il menu a base di panino è monotematico e il menu della tavola calda non lo decidiamo noi, nel caso dell’archeoschiscetta il discorso si fa più complesso e ci interroga sul nostro reale livello di “cheffitudine” (al di là delle millemila edizioni di Masterchef che abbiamo messo in sottofondo mentre finivamo la documentazione del giorno) che dividerei in tre categorie.
- Lo zozzone ovvero Rubio Chef
L’importanza del menu non sta nella variabilità degli ingredienti, ma nel saper prontamente amalgamare il tutto annegandolo nella maionese o nell’olio. Con questo approccio alla cucina, ovviamente non importa cosa mettiamo nell’archeoschiscetta, tanto sarà impossibile distinguere i sapori.
2. Il salutista ovvero Germidi Soia Chef
Stiamo tutto il giorno nel traffico, nello smog, sporchi di polvere dispersi tra i rumori della città: almeno il pranzo facciamolo sano (anche per contrastare la gastrite di cui sopra), così poi ci sentiamo meno in colpa a sfondarci di birra durante l’aperitivo. E dunque via libera a pranzi crudi e sconditi: la varietà del menu dipende da verdura e frutta di stagione (not my fault).
3. Il tutorialista ovvero Fatto in casa da Benedetta Chef
L’archeologo che non si vuole arrendere, che non vuole accettare una vita di riso freddo e pasta al pesto.
E quindi si impegna al massimo, come in tutto quello che fa.
L’archeologo sa infatti che per acquisire skills bisogna prima di tutto studiare: dunque passa in libreria a fare incetta di libri di cucina, si iscrive ai più popolari canali youtube e vai di cucina sperimentale.
Che al confronto dell’archeologia sperimentale è comunque una passeggiata, pensa ingenuamente il nostro archeologo, prima di ritrovarsi a postare il piatto del giorno – bruciato e stomachevole – sul gruppo facebook Cucinare Male.
Sic transit gloria mundi.
E voi che archeologo siete?
Antonia Falcone
Ph. credit: Simone Albanese, account IG @simone_jaymz
Vedendo le tue storie aspettavo da tempo questo post.
La mia regola è: massimo risultato col minimo sforzo (che poi è la mia filosofia di vita in qualunque ambito): perciò alterno la triste mozzarella scubba (= scondita) con pomodorini o bresaola a cose cucinate, tipo frittata o farinata (che però mangio in 3 o 4 giorni, così sono coperta e vale la pena dell’investimento in termini di tempo ed energie per la preparazione). Vorrei solo aggiungere che l’archeoschiscetta non è solo appannaggio dei professionisti archeologi, ma anche di chi, a dispetto della scrivania, deve comunque pranzare (e non è detto che abbia un bar/forno/tavola calda) a portata di mano. Perché il momento del pranzo è democratico. Così come lo sbrano che mi prende ogni sacrosanto giorno dalle 12.30 in avanti (che tanto poi tra una balla e l’altra mangio alle 14).
Mente chi pensa di poter saltare il pranzo.
Ecco, ora mi è venuta voglia di farinata. Esci la ricetta