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Tomba di Tarquinia - archeologia archeologi

Sand Creek ovvero Dell’esistenza e Necessità della Figura dell’Archeologo ~ di Paola Romi

Strana professione la nostra, strani i fenomeni che la attraversano, celebrano e tartassano. Siamo fieri e granitici nella nostre certezze. Siamo giusti, siamo scevri da interessi strettamente economici, siamo certi di lavorare per il bene comune.
I fieri ed alteri sacerdoti della Storia.

 

Questo è il prequel ovviamente, o forse la convinzione di qualche fortunato.

 

La verità è un’altra, la raccontano in tanti sul web, ne abbiamo parlato spesso anche noi di PA. È una realtà fatta di grandissimi problemi pratici, economici e legislativi, eppure noi continuiamo a sentirci baciati dalla dea Fortuna perché, alla fine, facciamo un mestiere che ci piace. In fondo siamo comunque dei privilegiati.

 

Usciamo dalla metafora e torniamo al presente.

 

Tarquinia, settembre 2013: la missione dell’università di Torino scopre una tomba etrusca. Intatta. Due giorni fa notizia rimbalza su tutti i media, in Italia e all’estero ed una generazione di archeologi, con una punta di inevitabile invidia, constata che forse vale ancora la pena di fare questo lavoro.

 

Ieri 24 settembre. Esce un articolo del Corriere della Sera in cui, nel non esiguo spazio dedicato alla notizia, protagonista non è l’eccezionale scoperta, né il team che l’ha realizzata, ma lo sponsor, anzi uno degli sponsor, dello scavo: 53 anni, laureato in economia, docente universitario e AD di una florida impresa. Si parla di lui, della sua passione per l’archeologia, del suo passare le ferie, come tutta la famiglia, a scavare. Si descrivono le sue emozioni, si lascia a lui l’onore di entrare per primo nella tomba e sempre a lui l’onere di accennare ad “un’interpretazione” del contesto.

 

“Interpretazione”? No, scusate, ma gli archeologi? L’equipe della missione?

 

Non pervenuti.

 

Solo alla fine, quasi a chiosare con erudita leggerezza, si lascia la parola al professore che ha diretto lo scavo. Per una notazione da antichista, ovvio.

 

Constatato che forse persino Schliemann e Carter impallidirebbero davanti a tale visione dell’archeologia, quello che mi chiedo è come mai questo accade, perché, se una testata nazionale dà quel taglio all’articolo, se un non professionista entra per primo in una tomba inviolata, se la nostra figura professionale sembra non avere nessun valore ontologico, un motivo ci deve essere.

 

E chissà, magari questo è il prezzo da pagare nel non avere un ben definito approccio alle sponsorizzazioni: sì, no, forse, ci piacciono, non ci piacciono. Il risultato di questa relazione incerta, anche quando scientificamente non nefasta come in questo caso, può anche essere questo: lo sponsor che sostituisce il professionista.

 

Non illudiamoci, però. Il liberale professor Benini è il meglio che ci possa capitare. Per il resto rimaniamo, ahimè, trasparenti, considerati sostituibili senza troppi danni da chi lavora a titolo gratuito.