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Gli archeologi nel paese dei balocchi

C’era una volta un paese piccolo piccolo.

 

In una città grande grande di questo paese piccolo piccolo, si discuteva in quei giorni del ripristinare l’arena di un famoso vecchio rudere conosciuto in tutto il mondo.

 

Lo chiamavano sempre Colosseo e lui avrebbe voluto dire che in realtà la sua titolatura completa era Signor Anfiteatro Flavio, ma preferiva star zitto che in questi tempi moderni era meglio, tanto era abituato agli equivoci da secoli.

 

E di questa idea di ricucire un po’ là e un po’ qua il vecchio rudere parlavano tutti: dal professore universitario di fama che l’aveva proposta, al ministro addetto ai monumenti della nazione che, addirittura, ci aveva cinguettato sopra.

 

C’era chi diceva “Sì! Dai, facciamoci i concerti” e chi invece, convinto ormai che al vecchio rudere non rimanesse altro che farsi idolatrare, urlava al sacrilegio.

 

Taluni più sensatamente suggerivano che l’arena ripristinata sarebbe stata utile alla comprensione dei poveri turisti che, con tutti quei buchi, si chiedevano se i leoni e i gladiatori facessero in realtà i 100 m a ostacoli invece di combattere. Molti ipotizzavano tangenti e disastri, mentre qualcuno già immaginava di giocare nell’anfiteatro il derby con la palla rotolante.

 

Insomma la situazione era già abbastanza surreale quando su uno strumento nuovo, chiamato faccialibro, una signora archeologa si disse scandalizzata perché qualcuno aveva citato, sulle sorti del Colosseo, accanto a un professorone di archeologia grande grande, di quelli che stanno nelle enciclopedie pure da vivi per capirsi, un archeologo, per lei piccolo.

 

Piccolo perché non stava nelle aule polverose a insegnare, ma il lavoro di archeologo “si limitava” a farlo e, nei ritagli di tempo, osava anche essere il presidente di un’associazione che, come altre, rappresentava gli archeologi piccoli piccoli.

 

La signora doveva essere poco informata sulla realtà in cui viveva: perché anche lei, a ben vedere, era una di quegli archeologi piccoli, e anzi, da decenni, viveva proprio facendo lavorare altri archeologi piccoli piccoli.

 

E mentre tutti questi archeologi piccoli dicevano “che noi non siamo piccoli per niente e che i grandi ci vogliono tenere piccoli così almeno non diamo fastidio”, si alzarono le voci di un politico piuttosto grande, o almeno lui così credeva, e di un imprenditore grandissimo.

 

Stavolta non sulla storia del rudere vecchio, ma su un’altra leggenda che girava di quei tempi.

 

Infatti si diceva che per risollevare le sorti della cultura di quel paese piccolo piccolo bastava utilizzare una formula magica che consisteva nel fare una giravolta, quattro saltelli e scandire ben benino le sillabe “a co-sto ze-ro”.

 

La chiamavano in linguaggio altisonante decrisissolvenda. Perché si narrava, in sottoscala bui e polverosi, che quando c’è crisi la prima cosa da fare è rassegnarsi e la seconda è nascondere gli zecchini d’oro, aspettando tempi migliori.

 

E così il politico e l’imprenditore decisero che quegli stessi archeologi piccoli piccoli potevano anche continuare a lavorare nei call center e nei fast food o chiedere la paghetta a mamma e papà, perché il lavoro serio non era cosa per loro. Il lavoro serio, quello di valorizzazione, lo dovevano lasciare agli americani, quelli dei “repository”.

 

“Un lavoro che se Roma dovesse fare da sola, con le proprie risorse, richiederebbe decenni. Oggi, invece, possiamo avvalercene a costo zero” fecero incidere su un’epigrafe a futura memoria.

 

E tutti a plaudire a questa idea geniale.

 

Perché la formula magica “a costo zero” funziona sempre nel paese dei balocchi.

 

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Paola Romi (@opuspaulicium)

Antonia Falcone (@antoniafalcone)