Croce e delizia dell’archeologia da strada o da cantiere è quella di rimanere esposti alle intemperie e allo smog in qualunque periodo dell’anno.
E quindi, care amiche – voce Wanna Marchi on – o amici (no, lo schwa non lo uso, non mi sento ancora pronta), proviamo a fare una lista dei complementi di bellezza dei quali proprio non possiamo fare a meno.
Cosa non può mancare nello zaino di un’archeologa da strada per evitare di ritrovarsi con la pelle incartapecorita già a 30 anni?
Andiamo con ordine:
Crema idratante viso: quella serve per forza, anche se invece di essere archeologhe siete bancarie (e siete finite chissà per quale motivo su questo sito. Ah sì ecco, volevate fare le archeologhe da piccole, beccate!). Dicevamo: se non volete arrivare a 40 anni, guardarvi allo specchio e vedere che sul viso avete le stesse fenditure del cretto di Burri o le stesse crepe dello strato di argilla che si secca sotto il sole cocente di mezzogiorno, la crema idratante per il viso è il MUST HAVE, come dicono le beauty blogger brave nelle vesti di Mastrota. Quindi, ecco, regolatevi. In commercio ne esistono di tantissimi tipi, da quelle chimiche a quelle superbio che dentro non hanno niente se non l’acqua, da quelle per i povery come me a quelle ultra costose che dovete vendervi un rene anche solo per sbirciarle in vetrina (Sisley, dico a te, sì proprio a te!).
Crema idratante mani: ditemi che non sono l’unica a gennaio a ritrovarmi con le mani piagate da screpolature che poi si aprono come cozze facendo fuoriuscire sangue che manco nel miglior splatter tarantiniano. Il dramma è che con quelle mani noi ci lavoriamo e impugnare la trowel grondando sangue può rivelarsi un problemino. Dunque: crema idratante come se non ci fosse un domani, profumata, senza profumo, decidete voi, ma non lesinate sulla quantità.
Consigliato da Antonia: Dermovitamina Ragadi Geloni Crema 75 ml, 8,5 euro e vi guarisce da qualunque piaga. Nessuna affiliazione, solo esperienza e amore per il prossimo.
Balsamo labbra (o burro cacao come dicevamo negli anni ’90): questo per me è abbastanza un dramma, nel senso che ancora non sono riuscita a trovare un balsamo labbra che protegga davvero le labbra. Ho sempre la sensazione che dopo aver messo chili di burro cacao le mie labbra diventino più secche. Quindi se avete qualche dritta, segnalatemi qualche prodotto nei commenti. Rimane anche in questo caso l’indispensabilità della protezione di questa parte del viso che spesso rimane l’unica scoperta quando fa freddo (cappello, sciarpa, occhiali, scalda collo, etc etc).
Protezione solare: non mi fate sentire che in estate in cantiere non vi cospargete di protezione solare, sennò vi vengo a prendere e vi ci butto io in una vasca piena di SPF 50. A parte che anche in inverno bisognerebbe usare una protezione solare o quantomeno una crema idratante (vedi supra) con filtro solare, in estate è assolutamente indispensabile proteggere la pelle esposta per 8 ore ai raggi solari. Le migliori provate finora sono quelle a marchio Caudalie, in particolare questa per il viso io la trovo magica. Poi, è a base di vino: cosa volere di più?
Hair care: la polvere, la terra e lo smog spesso trasformano la chioma più fluente in un ammasso di paglia, spenta e secca. E quindi vai di shampoo ogni giorno – soprattutto in estate. Lavare troppo spesso i capelli non fa bene, lo saprete di sicuro, ma anche andare a letto con zolle di terra tra i capelli non è il massimo. E dunque arrivo in vostro soccorso con qualche consiglio utile: prediligete prodotti bio per i capelli (per esperienza posso dire che meno chimica c’è in shampoo e balsamo e più i capelli diventano forti, luminosi e morbidi) e per il lavaggio sperimentate il cowash (qui qualche info e alcuni prodotti utili e naturali), poi una maschera ogni tanto non fa male.
Gel/Mousse detergenti: lo ammetto, sono una maniaca della skin care in genere e della detersione in particolare. Appena torno dal cantiere, la prima cosa che faccio è lavare accuratamente il viso, dove nel frattempo si sono sedimentati gli stessi strati che ho scavato, facendo nascere nuove forme di vita aliena (vedi che alla fine gli alieni c’entrano sempre?!). Scegliete il detergente che si adatta meglio alla vostra pelle (secca, normale, mista, grassa) e usatelo senza paura. Se proprio devo dirla tutta io preferisco i detergenti da farmacia perché sono più delicati e meno aggressivi sulla pelle, però fate vobis. Basta che lo fate.
Extra Bonus: quando fa caldo, state schiumando sotto il sole, odiate tutti e l’Armageddon vi sembra vicino, una spruzzata di acqua termale vi aiuterà a respirare e a odiare un po’ meno questo lavoro.
Se avete altri consigli da elargire, lo spazio per i commenti non manca!
Antonia Falcone
Antonia
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/1280px-Carthage_museum_mosaic_1.jpg8201280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2022-10-13 18:15:562022-10-14 11:09:57La beauty routine dell'archeologa: pochi consigli ma buoni
Esistono due posti in Sardegna dove è possibile rivivere il passato. Nel futuro, o nel presente. Dipende se siete nativi digitali o meno.
Due luoghi della memoria, intesa come costruzione di identità che scaturisce, viva e mobile, dall’impatto e dal confronto con l’esterno. Perché la Sardegna è stata, nel corso dei millenni, non solo culla di antiche civiltà, ma soprattutto crocevia di popoli che l’hanno scelta di volta in volta come fortunoso attracco, come interlocutore commerciale, come terra da conquistare.
Se oggi l’archeologia sarda è spesso succulenta preda di fantarcheologi di ogni risma, di “cercatori” di Atlantidi e di Shardana o dei fissati con i giganti, raccontare correttamente il passato non appare solo una sfida necessaria per riappropriarsi della storia senza svenderla ai sensazionalismi, ma anche un modo per aprire nuove prospettive di narrazione.
E così come l’archeologia è ricerca continua, anche la valorizzazione presuppone attività di studio costanti che siano in grado di tirar fuori il meglio dal patrimonio culturale. Questa è l’idea alla base del progetto di comunicazione del quale vi parlo oggi, che ha interessato i parchi archeologici di Nuraghe Losa e del Pozzo Sacro di Santa Cristina.
I due parchi infatti sono stati oggetto di una ricerca condotta da Nabui sulle comunità del luogo, che ha portato alla luce due storie mai raccontate e che rischiavano di andare perse. Due storie che, affiancandosi alle informazioni storiche e archeologiche, arricchiscono di una nuova sfumatura la narrazione di questi luoghi unici al mondo, recuperando e valorizzando il patrimonio immateriale delle comunità, altrimenti destinato a perdersi.
E quindi torniamo proprio ai due luoghi dove voglio portarvi oggi, in compagnia di chatbot, visori e smartphone, alla scoperta di queste storie.
NURAGHE LOSA
Il suo nome originario è nurache ‘e losas che significa ‘nuraghe delle tombe’. Siamo ad Abbasanta in uno dei luoghi simbolo non solo della civiltà nuragica, ma della storia sarda, almeno fino all’alto medioevo: il Nuraghe Losa infatti ha continuato a vivere per secoli dopo l’età nuragica, come testimoniano per esempio le urne cinerarie romane scavate nella roccia accanto al monumento.
La maestosità del nuraghe è innegabile, così come è impagabile passeggiare all’interno delle tholoi girando tra i stretti corridoi, tutto rigorosamente in blocchi di basalto. Il complesso trilobato risale all’età del Bronzo medio (XV-XIV secolo a.C.) ed è espressione di un’estrema perizia costruttiva oltre che di uno spiccato senso delle proporzioni. Ma forse l’aspetto che più mi affascina ogni volta che visito il Nuraghe Losa è il suo essere perfettamente immerso nel paesaggio circostante. Sembra di essere sospesi nel tempo: il silenzio rotto solo dal fruscio dei radi arbusti, il grigio delle pietre contro l’azzurro del cielo, istanti che potrebbero durare per sempre.
Mi chiedo se non sia stata proprio questa la suggestione alla base del cortometraggio in realtà virtuale che è parte integrante del progetto di valorizzazione del parco e che vuole offrire un modo diverso di visitare e di “intravedere” un monumento. Non si tratta infatti della classica guida virtuale in app o audio guida, ma di un breve racconto video attraverso il quale percepire il Nuraghe con occhi nuovi: a guidare i visitatori sarà infatti l’arruffato Domenico nel suo apecar, continuamente disturbato dai gemelli Nanni e Didì che hanno eletto il Nuraghe Losa come luogo dei loro giochi d’infanzia. E grazie al visore vi sentirete parte della storia e potrete seguire con lo sguardo i due monelli nelle loro scorribande.
Ph. credit: Pierluigi Giroldini
Ph. crediti: Pierluigi Giroldini
Se invece siete nerd appassionati di chatbot, vi basterà interagire con lo stesso Domenico che, in linea diretta con voi, è pronto ad illustrarvi la storia del nuraghe e allo stesso tempo mettere alla prova la vostra conoscenza del monumento. Collegandovi all’account messenger della pagina Facebook @losaproject potrete infatti godere di questa visita guidata inusuale e interattiva e scoprire la storia delle persone che in questo luogo si riunivano per festeggiare momenti comunitari einformazioni di carattere storico-archeologico.
Io non ci ho fatto una bellissima figura, sigh.
POZZO SACRO DI SANTA CRISTINA
Dopo aver lasciato Domenico e i suoi due monelli a Losa, il percorso prosegue verso uno dei siti più visitati e amati dell’area: il Pozzo Sacro di Santa Cristina nel comune di Paulilatino. Croce e delizia di ogni archeologo che, di volta in volta, resta ammaliato dalla straordinaria perfezione della messa in opera del pozzo sacro e allo stesso tempo allibito dalla quantità di speculazioni anti scientifiche che il medesimo pozzo attira su di sé.
È indubbio infatti che il pozzo nuragico di Santa Cristina “Rappresenta il culmine dell’architettura dei templi delle acque. È così equilibrato nelle proporzioni (…), studiato nella composizione geometrica (…), così razionale (…), da non capacitarsi (…) che sia opera vicina all’anno 1000 a.C.”, come ebbe a dire Giovanni Lilliu e che trovarvisi lì davanti fa scattare immediatamente un senso di ammirazione e stordimento di fronte alle sue forme geometriche di rara perfezione.
Già soltanto il fatto che sia stato concepito e strutturato come una “serratura” visibile dall’alto ha dell’incredibile, sebbene tutto il “concept” (passatemi il termine) del monumento sia in realtà ben inquadrabile nell’orizzonte della sacralità legata al culto delle acque, elemento costante nella storia delle antiche civiltà. L’acqua arriva alla vasca, scavata nella roccia in fondo alla scalinata attraverso la quale vi si accede, da una falda perenne che mantiene il livello sempre costante. Siamo sempre nell’Età del Bronzo, in questo caso finale (XII a.C.).
La denominazione “Santa Cristina” parrebbe connessa alla chiesa campestre localizzata nei dintorni e databile tra XII e XIII secolo d.C. Intorno a Santa Cristina poi sorsero tante piccole abitazioni che servivano probabilmente ai monaci. Da queste parti le chiamano muristenes.
Le fonti del XIX secolo raccontano di una festa legata alla santa durante la quale una processione partiva dalla chiesa e arrivava proprio al pozzo per commemorare la morte di Santa Cristina. A riprova della forte e ininterrotta vocazione sacra dell’intera area.
Come ho reperito tutte queste informazioni? In parte online, ma soprattutto grazie al chatbot di @CristinaProject su Messenger che mi ha guidata nella visita e mi ha fornito un sacco di nozioni sulla storia del sito.
Al Pozzo Sacro di Santa Cristina è Tzia Maria a fare da guida attraverso il chatbot: si tratta della zia di Cristina, la panettiera di paese, l’unica in grado di raccontare quello che è successo alla povera Cristina. E Tzua Maria infatti mi ha anche detto che secondo gli abitanti della zona al nome Santa Cristina sarebbe legata una leggenda meno santa e più terrena: Cristina era una bambina di 11 anni che viveva col babbo Sebastiano. Andava in chiesa a pregare e durante la bella stagione, a messa, le si vedevano sempre i lividi sulle ginocchia. Pare che quello scellerato del padre l’avesse promessa in sposa a Teodoro, il signorotto del paese, il quale aveva promesso soldi e terreni al babbo di Cristina, in cambio di averla in sposa.
Come finisce questa storia? Ovviamente in modo tragico, come tutte le leggende locali. Ed è possibile seguire le vicissitudini di Cristina attraverso il cortometraggio in virtual reality e all’esperienza di cinema immersivo, ritrovandosi al fianco della bambina per fuggire con lei dalle grinfie del padre.
Ph. credit: Pierluigi Giroldini
Ancora una volta parole, immagini e storie per raccontare non solo un monumento, ma la connessione di quel monumento con la storia e il sentire comune delle popolazioni locali nel corso dei secoli.
Il progetto è stato realizzato da Nabui Società Benefit nell’ambito del proprio programma di rilancio culturale “Heritage Tourism Programme” in collaborazione con Cooperativa Archeotour e Cooperativa Paleotur. Il progetto è stato finanziato attraverso la misura “CultureLAB2018” della Regione Sardegna.
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_20210713_113716-scaled.jpg19202560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2021-10-26 10:33:002021-10-23 16:33:25Realtà Virtuale e Intelligenza Artificiale in Sardegna: Losa e Santa Cristina
Brevi video arricchiti da effetti speciali, musica coinvolgente e migliaia di views: Tik Tok ormai da qualche anno è entrato nella vita di tutti noi, volendo o meno. Basta scorrere la timeline dei social più utilizzati, come Facebook o Instagram, per ritrovarsi la condivisone di un contenuto dal social network cinese, inizialmente noto come musical.ly.
Se è vero che Tik Tok è soprattutto balletti, challenge e entertainment, è altrettanto innegabile che riuscire a distinguersi con contenuti di qualità può essere un valore aggiunto: basta dare un’occhiata per esempio all’account del Black Country Living Museum che conta più di 1 milione di followers.
E l’archeologia? Come si parla di archeologia su Tik Tok?
I contenuti più condivisi sono quelli relativi all’antico Egitto (ne dubitavate?), a Pompei e all’antica Roma e presentano per lo più aneddoti, curiosità, miti.
A distinguersi nel panorama italiano, vuoi per la tipologia di video che per il precoce utilizzo della piattaforma rispetto ad altri utenti, sono però due ragazze, nei cui canali mi sono imbattuta attraverso la mediazione di Instagram: spesso infatti chi realizza dei Tik Tok riporta gli stessi video come Reels Insta per poter raggiungere community diverse.
Parlo di Paola Pagano, meglio nota come @la_cicerona_ e Camilla, altresì nota come @archeomilla: entrambe molto attive su Tik Tok, entrambe archeologhe, ma con due approcci diversi alla piattaforma.
Paola ha puntato soprattutto sulla divulgazione archeologica e sugli aneddoti da guida turistica, mentre Camilla si diverte a decostruire molti dei luoghi comuni su archeologia e archeologi. Entrambe condividono altresì i momenti salienti della vita da cantiere, con la giusta dose di ironia a metà tra “non siamo Indiana Jones” e “non siamo poi così barbosi come ci descrivono” e si mettono in gioco con un notevole talento attoriale.
Dal momento che io invece sono pienamente Generazione Millenials e ancora non mi sono cimentata con Tik Tok – a ballare sono impedita e come attrice non ne parliamo proprio – ho pensato di fare qualche domanda a loro, così da capirci qualcosa in più.
Buona lettura!
Come e perché sei approdata su Tik Tok?
CAMILLA: Non ricordo esattamente come, un po’ per caso e per curiosità ho scaricato l’app e ho cominciato a “studiarla”, mi sono resa conto che aveva un grande potenziale e stava cambiando nella direzione che interessava a me, cioè la divulgazione, perciò mi sono buttata.
PAOLA: Tutto è cominciato nel periodo del lockdown. La chiusura dei confini, il blocco del turismo, la perdita improvvisa del lavoro da guida turistica aggiunta all’impossibilità di sfogare le mie frustrazioni a teatro (una delle mie grandi passioni) mi aveva particolarmente turbata. Sentivo la necessità di riconnettermi al mio mondo fatto di archeologia, di divulgazione e di condivisione. Così ho reso TikTok il mio “palcoscenico” e trasformato i miei brevi video in “pillole recitate” di Storia e Archeologia riuscendo a comprimere, in meno di 60 secondi, tutte le mie passioni. Si, era quello di cui avevo bisogno e ringrazio la mia piccola ma fedele community per supportarmi e seguirmi sempre con entusiasmo.
Puoi svelare ai nostri lettori qualche trucchetto per chi si avvicina per la prima volta alla piattaforma e qualche account a tema archeologico da seguire?
CAMILLA: La caratteristica che rende unico Tiktok rispetto agli altri social è che apprezza la spontaneità, quindi la prima cosa è essere se stessi e la seconda, se si vuole avere un seguito, è offrire agli utenti un contenuto utile, che sia intrattenimento, informazione o educazione.
Sul tema archeologico c’è ancora ampio spazio, account interessanti e divertenti sono quello della Cicerona (@la_cicerona_) e di Michela (@professione.archeologa).
PAOLA: Approdare su una piattaforma prevalentemente composta da una community di adolescenti e ventenni non è facile, soprattutto quando l’obiettivo è quello di portare cultura al suo interno. Quello che ho fatto io è stato proporre i miei contenuti adeguandoli al LORO modo di comunicare e di vivere il social. Bisogna mettersi in gioco e divertirsi in prima persona: TikTok è un luogo “di pausa” dove si entra per sorridere e all’occorrenza per imparare senza accorgersene. Compreso il giusto canale di comunicazione, non è impossibile andare virale: il bello di TikTok è che dà una possibilità a tutti, cercare di tenere alte le views è la vera sfida (e talvolta è davvero frustante). Nel mio piccolo, consiglio di seguire sempre le tendenze riadattandole alla forma del proprio canale, di pubblicare tramite la strumentazione offerta dalla stessa app (con una certa frequenza) e di affidarsi ai dati statistici ma è pur vero che questo possa anche non bastare.
Il commento più buffo o assurdo che ti hanno fatto.
CAMILLA: Assurdi talmente tanti che non li ricordo più, invece di buffo mi sono sentita dire spesso che ho la stessa voce di Dory, quella di Nemo per intenderci, e sinceramente mi ha fatto molto piacere sia perché trovo il personaggio davvero dolcissimo, sia perché adoro la voce che la doppia in italiano, quindi per me è un bel complimento (considerando che quando mi riascolto mi vengono i brividi).
PAOLA: Ne ho ricevuti tanti e non ne ricordo uno in particolare: per la maggior parte sono di apprezzamento, buffi, altri simpatici; non sono mancate critiche (talvolta anche da qualche collega in incognito) ma è un rischio che corro volentieri perché “bene o male, basta che se ne parli”. Tra quelli più buffi mi vengono in mente quelli relativi alla sorveglianza archeologica: feci un video dove spiegavo la mia giornata in cantiere. Il TikTok in questione fece più di 180k views e tutti i commenti avevano qualcosa in comune: il fatto di paragonarmi ai nostri amati/odiati “ummarell” seppur retribuiti! È stato buffo comprendere che, alla fine, visti da occhi estranei non siamo poi così diversi dai nostri tanto criticati pensionati dietro le transenne!
Chi sono le nostre tiktoker?
ARCHEOMILLA
Camilla si è laureata in Conservazione dei Beni Culturali ad indirizzo archeologico e ha cominciato la professione di archeologa lavorando con le ditte archeologiche, quasi sempre a progetto su scavi d’emergenza, imparando tantissimo sul campo, facendo tanta tanta gavetta (dalla survey, alle assistenze, agli scavi), per poi iniziare a lavorare come libera professionista, collaborando con colleghi o con ditte e associazioni, con sempre maggiori responsabilità all’interno dei cantieri, e lo step successivo è stato integrare anche lavori in totale autonomia. Da circa un anno ha iniziato a dedicarmi alla divulgazione sui social (instagram, tiktok, youtube), anche se la sua occupazione principale resta lo scavo d’emergenza.
Paola Pagano, nasce il 3/9/1990 a Napoli, radicata a Civitavecchia (RM) ormai da tempo. All’età di otto anni ha deciso che avrebbe voluto essere un’archeologa: ogni scelta che avrebbe preso da quel momento in poi l’avrebbe condotta lì. Si è laureata in Scienze Archeologiche Classiche nel 2013 in Epigrafia Latina e nel 2019 in Archeologia con una tesi di Antichità Romane ed Epigrafia doliare, con il massimo della votazione. Nel 2015 ha conseguito l’abilitazione professionale da guida turistica per Roma ed il suo territorio grazie alla quale ha accompagnato migliaia di turisti a spasso per la città eterna divulgando oltreoceano le sue conoscenze archeologiche (e non) sulla Città Eterna. Ha avuto modo di collaborare con l’Antiquarium Comunale del Celio (RM) per la catalogazione del materiale bollato e non bollato della collezione ivi presente e di scavare in siti di particolare interesse quali Coppa Nevigata, Pyrgi, Pietrabbondante, Castrum Novum e Tuscolo. Da anni è attiva nel campo dell’assistenza, sorveglianza archeologica, della documentazione e della catalogazione dei materiali come freelance ed attualmente è al primo anno della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici Federico II di Napoli in attesa dell’inizio della campagna di scavi presso il sito archeologico di Pompei.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/smartmockups_kraggahb.jpg12801920Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2021-07-19 12:17:122021-07-19 12:21:48Due archeologhe da seguire su Tik Tok
Tempi di pandemia, di musei chiusi e di buoni propositi.
“Quando quest’incubo sarà finito non vedo l’ora di tornare in un museo”.
L’ho detto, l’ho sentito dire a molti amici, l’ho letto sui social.
E quindi sono qui apposta per darvi qualche motivo per tornare nella madre di tutti i siti archeologici, nella città diventata archetipo dell’archeologia, nel sito che riempie le prime pagine dei giornali ad ogni nuova “sensazionale” scoperta: ovviamente parlo di Pompei.
E Pompei non è solo un sito archeologico visitato da milioni di turisti, l’antica città sommersa da una violentissima pioggia di lapilli e frammenti litici, che fece dire a Goethe nel 1786 “Molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità. Credo sia difficile vedere qualcosa di più interessante”, nè soltanto lo sfondo perfetto per foto e selfie.
Pompei è soprattutto un contenitore di storie, eternate e arrivate fino a noi attraverso gli oggetti che l’eruzione ha conservato pressochè intatti. Molti di questi oggetti, segni tangibili della vita che doveva scorrere serena tra le sue strade, nelle botteghe, nelle ville e nelle insulae fino al 79 d.C., dal 25 gennaio 2021 sono visibili tra le sale del nuovo allestimento dell’Antiquarium all’interno del Parco Archeologico, spazio museale dedicato all’esposizione permanente di reperti che illustrano la storia del sito vesuviano.
Pompei ha sempre avuto un suo Antiquarium, un po’ come l’Acropoli di Atene ha sempre avuto un suo museo: siti e musei che vanno letti insieme perchè si completano a vicenda.
Semplificando, mi piace pensare che la visita ad un sito archeologico risponda alla domanda DOVE? e la visita al rispettivo museo risponda alla domanda COSA?
Ed è proprio l’unione dei due che ci aiuta ad avere un’idea più complessa e completa del fluire della storia.
Adesso facciamo un salto indietro nel tempo per seguire le vicissitudini che hanno portato al nuovo allestimento:
1873-1874: nasce il primo Antiquarium grazie a Giuseppe Fiorelli negli spazi sottostanti la terrazza del Tempio di Venere, dove furono esposti reperti esemplificativi della vita quotidiana e i calchi delle vittime dell’eruzione.
1914, Pompei, Antiquarium, sala II, esposizione Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Parco Archeologico di Pompei
1926: l’Antiquarium viene ampliato da Amedeo Maiuri, con l’aggiunta di grandi mappe con gli sviluppi aggiornati degli scavi e di nuovi reperti provenienti dalla Villa Pisanella di Boscoreale e dagli scavi di via dell’Abbondanza. L’esposizione si struttura secondo un percorso cronologico, dalle origini della città all’eruzione.
Settembre 1943: i bombardamenti distruggono un’intera sala dell’Antiquarium, con la perdita di circa 1000 reperti
Giugno 1948: grazie alla caparbietà e ai restauri di Maiuri l’edificio riapre al pubblico in occasione del 2° centenario degli scavi di Pompei.
1948, Pompei, Antiquarium, facciata. Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Parco Archeologico di Pompei
1948, Pompei, Antiquarium, sala II, esposizione Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Parco Archeologico di Pompei
1948, Pompei, Antiquarium, sala IV, esposizione Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Parco Archeologico di Pompei
1980: il terremoto reca ulteriori danni all’Antiquarium che rimane chiuso per trentasei anni
2016: l’Antiquarium apre nuovamente con spazi dedicati ad esposizioni temporanee
Arriviamo al 2021, ai tempi pandemici che stiamo vivendo tutti e a un segnale importante: l’Antiquarium riapre nella sua ultima veste, con un allestimento del tutto nuovo, come promessa di rinascita.
L’allestimento è curato da COR arquitectos & Flavia Chiavaroli, e recupera gli spazi delle gallerie originali, oltre ad aver previsto il restauro delle vetrine espositive degli anni cinquanta. L’organizzazione è a cura di Electa.
La visita è facilitata da AmedeoBot, un chatbot che non necessita di app da scaricare, ma si attiva grazie ad un QR code e offre al visitatore una narrazione audio alla scoperta dell’Antiquarium e di alcuni punti di interesse del parco. Realizzato su progetto e sviluppo di Machineria, consiste in una chat interattiva che risponde in tempo reale a richieste di informazioni sul percorso.
Poichè ho avuto la fortuna di poter visitare l’Antiquarium su invito di Electa Editore, vi illustro i 3 motivi per i quali il nuovo allestimento merita sicuramente una visita, appena possibile (qui trovate le mie Instagram Stories).
La luce
Il nuovo allestimento è un percorso nella luce e verso la luce: le prime sale alle quali si accede dal piano terra dell’edificio sono infatti in penombra e illustrano i primi secoli di vita di Pompei con alcuni pezzi diventati ormai iconici.
Parete con architetture prospettiche Metà I secolo a.C. Affresco Area vesuviana
Arrivati al primo piano – ne sono certa – il primo pensiero che vi colpirà sarà: e luce fu!
Le sale infatti sono caratterizzate da una fortissima luminosità, che riporta all’atmosfera dell’Antiquarium pensato da Amedeo Maiuri. Le opere esposte inoltre non sono ammassate, ma al contrario ben distanziate e consentono quindi di aggirarsi nelle sale con disinvoltura, senza sentirsi schiacciati dal peso della storia.
Spesso i musei archeologici hanno questo problema: troppa roba, troppi pezzi, troppi vasi che inibiscono il visitatore invece di accompagnarlo in un percorso di conoscenza.
Ph. credit: Antonia Falcone
Le ultime scoperte
Uno dei motivi per visitare l’Antiquarium è – senza alcun dubbio – il “tesoro” di amuleti di I d.C. rinvenuto nel 2019 nella Casa con Giardino nella Regio V.
Lo so che l’archeologia non è fatta solo di oggetti splendenti, ma soprattutto di cocci brutti, però che vi devo dire? Questi piccoli amuleti variopinti sono incredibili. E voi, come me, vi ritroverete a guardarli uno per uno, interpretandone il materiale e le rappresentazioni.
Rimango sempre basita (F4) quando gli archeologi si chiedono perchè qualunque notizia riguardi Pompei finisce sulle prime pagine dei giornali e riesca a catalizzare l’attenzione del mondo.
P E R C H É ?
A me basta questa coppa in vetro deformata dal calore dell’eruzione come risposta.
Pompei è l’immagine cristallizzata della fine. La rappresentazione tangibile di un evento traumatico che mette termine alla storia.
É una città che conserva ancora gli ultimi attimi della vita. Fermi. Immobili.
E anche della morte, con i calchi dei defunti.
Ph. credit Antonia Falcone
Già nel 62 d.C. Pompei era stata colpita da un forte terremoto che aveva devastato molte domus ed edifici pubblici, ma era stata in grado di rialzarsi, fino a quel terribile giorno del 79 d.C.
Quando la vita dei suoi abitanti a è finita per sempre.
O forse no.
Visto che continua a vivere nelle ricerche archeologiche che tentano di ricostruire gli ultimi attimi di una città suo malgrado eterna.
Pompei, frequentata città della Campania […] è sprofondata a causa di un terremoto che ha devastato tutte le regioni adiacenti e che ciò è avvenuto proprio nei giorni invernali che i nostri antenati garantivano essere al sicuro da un pericolo del genere. Questo terremoto si è verificato alle None di Febbraio, sotto il consolato di Regolo e di Virginio, ed ha devastato con gravi distruzioni la Campania, regione che non era stata mai al sicuro da queste calamità e che ne era sempre uscita indenne, anche se tante volte morta di paura […] A questi danni se ne aggiungono altri: è morto un gregge di seicento pecore, alcune statue si sono rotte, alcuni dopo questi fatti sono andati errando con la mente sconvolta e non più padroni di sé.
Seneca, Questioni Naturali, 6, 1, 1-2
Antonia Falcone
E ora un po’ di info:
Antiquarium di Pompei
ingresso da Porta Marina (Via Villa dei Misteri) Piazza Esedra (piazza Porta Marina Inferiore)
orari dal 1 novembre al 31 marzo: 9.00 – 17.00 (ultimo ingresso 15.30)
biglietti L’accesso all’Antiquarium è incluso nel biglietto di ingresso agli scavi intero: € 16.00 (+ € 1.50 su prevendita online) ridotto: € 2.00 (+ € 1.50 su prevendita online) Gratuità come da normativa
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_20210129_145046-scaled.jpg19202560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2021-02-03 17:52:392021-02-03 17:53:05Nuovo Antiquarium: un buon motivo per tornare a Pompei
Avere un amico/fidanzato/parente archeologo non significa solo sorbirsi nell’ordine:
Tutti i documentari e/o podcast di Barbero
Discussioni interminabili sulla periodizzazione dell’Età del Bronzo
Richiami costanti alla perfezione dell’arte classica
Rimproveri saccenti al grido di “Ah se ci fosse ancora il sacro rispetto per il Mos Maiorum”
O farsi trascinare entusiasticamente (per l’archeologo, un po’ meno per voi):
A vedere l’ultima mostra sui frammenti in giacitura terziaria emersi durante lo scavo della fogna in località Ndocazzosto
A visionare le serie tv e/o film di argomento storico con borbottio in sottofondo che corregge ogni singola imperfezione ricostruttiva. Che se il regista fosse presente penserebbe “chi me l’ha fatto fare a me di fare film dopo una gavetta di anni come schiavo nelle peggiori produzioni cinematografiche per dovermi pure accollare le critiche di questo qua”
A scarpinare per chilometri nelle lande desolate del contado alla ricerca di siti archeologici ignoti ai più.
Ecco, come se tutto ciò non bastasse a farvi spuntare l’aureola, l’archeologo è pure esigente in fatto di regali.
E quindi per aiutarvi a non ammazzar…ehm deludere il vostro archeologo del cuore, vi aiuto con una lista di 5 regali che lo faranno felice.
Medeart è il brand di gioelli a tema archeologico e artistico creato da Marilisa Lo Pumo. Marilisa è un’archeologa siciliana e a Leonforte ha un laboratorio nel quale, insieme alla madre, crea gioielli e accessori ispirati e dedicati all’archeologia, all’arte e al mondo dell’antichità. Contemporaneamente, essendo un’archeologa libera professionista, lavora nei cantieri di Archeologia Da Strada.
Medeart qualche giorno fa mi ha inviato due magnifiche creazioni e un codice sconto del 10% per i followers di Professione Archeologo, da utilizzare sullo shop Etsy a questo link: https://www.etsy.com/it/shop/MedeARTarcheofashion
Avrete diritto ad una promozione del 10% su tutti i gioielli presenti sullo shop online, valida per tutto il periodo delle feste (da domani 10 dicembre al 6 gennaio), inserendo, al momento dell’acquisto, il codice sconto:
Sulla pagina fb, accanto al nome, in alto, è attivo il pulsante per contattarla anche su Whatsapp.
La Tabula Peutingeriana
Sì proprio quella, ma stampata su rotolo di tela canvas per rendere il vostro salotto protagonista del Medioevo. È alta 42 cm, lunga 5,70 metri, e la stampa è in alta risoluzione.
Quale medievista non vorrebbe la maglia con su scritto “Il Bere vince sempre contro il Male” oppure “In Omnia Pericula Tasta Testicula”? Quindi se avete un amico o amica che vive di con per su fra tra Barbero e parla solo di pievi, castelli e castellari, nella Bottega di F&L trovate l’idea regalo giusta.
E qui rimaniamo sul classico, praticamente il corrispettivo dell’anello Trilogy per l’archeologo.
Ce ne sono di vario tipo, ma tutte ugualmente indispensabili. E non crediate che all’archeologo basti una sola trowel, sareste degli ingenui. Il vero archeologo ne possiede almeno, e ripeto almeno, tre. Che non si sa mai, dovesse rompersi o finire nel mucchio di terra.
Perché si sa che gli archeologi potrebbero mangiare pane e cipolle a vita, pur di spendere tutti gli incassi delle loro (misere) fatture in libri, cataloghi, repertori.
Qui ve ne ho selezionati alcuni:
Il mio. Archeosocial è il libro che ho curato nel 2018, dedicato ad Archeologia e Social.
Un qualsiasi libro di Barbero. Anche se il titolo che mi incuriosisce di più della sua bibliografia è senza ombra di dubbio questo.
Il Catalogo del nuovo Museo Archeologico di Stabiae oppure quello della mostra sui Marmi Torlonia. Li trovate entrambi qui e qui sul sito di Electa Editore.
Vi saluto con un extra bonus dedicato ai più piccoli.
Se voi genitori archeologi volete traviare la vostra prole e condannarla a un futuro di contratti precari ed escavatori a bordo strada, questo è il regalo giusto:
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_20201215_204014-scaled.jpg19202560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-12-15 21:58:222021-01-03 12:39:33Un Natale da archeologi: 5 idee regalo
Gli archeologi da strada – quelli cioè che di lavoro si occupano prevalentemente di sorveglianze archeologiche – si dividono in due gruppi:
con il portapranzo
senza il portapranzo
Gli archeologi senza portapranzo a loro volta sono classificabili in due sottogruppi:
archeologi da panino, quelli che mettono quotidianamente alla prova la resistenza (o resilienza?) dei propri stomaci a colpi di fette di pane o rosette infarcite di mortazza (mortadella, nda). L’archeologo da panino in genere soffre ciclicamente di gastrite, malessere che attribuisce allo stress da lavoro (e parla con l’architetto, e urla con gli operai, e rispondi all’ennesimo passante che ti chiede “cosa avete trovato?”) e ai caffè, ma che invece cova laddove la dieta è monopolizzata da insaccati e carboidrati. Mangiare un panino al volo, d’altra parte, consente al nostro impavido archeologo di prendere contemporaneamente le misure della trincea, facendo esercizi di equilibrismo con panino, metro e taccuino. Ovviamente questa categoria di archeologo non teme nulla, sa che la vita fa schifo e amen, via andare.
archeologi da tavola calda, quelli che non rinuncerebbero mai a primo e/o secondo, contorno, acqua e caffè, rigorosamente seduti ai tavolini metallici di un baraccio di periferia o ai tavoli, apparecchiati con tovaglie di carta a quadretti, di tavole calde da camionisti (esistono elenchi segretissimi , che girano tra pochi eletti, di luoghi del suburbio romano dove si mangia come da Cracco, ma con porzioni degne della definizione di “piatto di pasta”, chè invece il gourmet “lo damo ar gatto”). Alla base di questa scelta alimentare più equilibrata c’è di certo la considerazione, inconscia o rivendicata, che già la vita da archeologi è brutta assai, almeno in pausa pranzo salviamo la dignità. O anche la segreta speranza di fare amicizia con i vicini di tavolo (che non si sa mai, tra una chiacchiera e l’altra viene fuori che stanno cercando un aiuto camionista da assumere a tempo indeterminato e taaac curriculum vitae)
NdA: come ci piace a noi archeologi categorizzare tutto
Io appartengo decisamente alla prima categoria, l’archeologa cum portapranzo, vale a dire che se esco di casa la mattina presto senza la borsetta termica munita di cibaria, bottiglietta dell’olio, mini taglia di sale, posate e tovaglioli, mi sento ignuda. Un po’ come se uscissi senza scarpe antinfortunistiche.
La schiscetta – da qui in poi archeoschiscetta – dunque per me è compagna insostituibile delle fugaci pause pranzo a bordo strada, in macchina o sulle panchine dei giardini pubblici.
La sua utilità risiede in molteplici aspetti:
permette di risparmiare soldi
consente una variatio maggiore nel menu settimanale
permette di non buttare gli avanzi della cena della sera prima
ti consente di spendere i soldi – gli stessi risparmiati sopra – da Tiger o Dmail in contenitori multicolor, multimaterial, multiunicorni, senza alcun senso di colpa. Tanto è per lavoro.
MA.
C’è sempre un MA.
Ci sono una serie di fattori, per così dire deterrenti, che potrebbero remare contro. Li esaminiamo uno alla volta.
LA PIGRIZIA
Pranzare con l’archeoschiscetta vuol dire prepararla la sera prima, in altre parole essere previdenti. E lo sappiamo tutti che l’archeologo è per definizione un procrastinatore di professione: ne consegue che chiedere ad un archeologo di prepararsi il pranzo quasi 24h prima è volergli un po’ male, tipo Marco Giunio Bruto con Cesare.
Ma l’archeologo ha anche delle qualità e tra queste spicca il suo essere particolarmente adattivo in situazioni di stress: ecco quindi che il nostro prode eroe – ed eroina – risolve la questione “pigrizia” preparando chilate di riso/farro/orzo che possano bastare per una settimana, da condire di giorno in giorno con il contenuto di conserve comprate al supermercato a pacchi o – per i più fortunati – mandate con il pacco da giù.
E il pranzo è servito (cit.)
LA LOCATION
Benchè il cinema e i romanzi d’avventura ci abbiano convinti che un archeologo DEVE per forza girare con una Range Rover super accessoriata e con le gomme infangate, la realtà è un tantino diversa.
Se si facesse uno studio statistico sull’automobile posseduta in prevalenza dagli archeologi sono certa che la risposta sarebbe una sola:
Pandino. Do you know?
Ma non tutti gli archeologi sono automuniti, io per prima quando ho iniziato a fare questo lavoro mi spostavo a Roma con i mezzi pubblici (poi un giorno vi racconterò di quando l’autobus mi ha lasciata da sola alle 7 di mattina nel campo rom Casilino 900, in attesa degli operai che non sono mai arrivati).
Quando non hai la macchina, girare in autobus o metro con tutta l’attrezzatura da archeologo (tra cui palina, casco, zaino) a cui aggiungere il portapranzo diventa davvero proibitivo.
Superare questo ostacolo logistico è impensabile anche per l’archeologo più creativo.
(E no, andare in cantiere con lo zaino che hai usato nell’interrail del 1995 non è LA soluzione.)
LA FANTASIA
Se il menu a base di panino è monotematico e il menu della tavola calda non lo decidiamo noi, nel caso dell’archeoschiscetta il discorso si fa più complesso e ci interroga sul nostro reale livello di “cheffitudine” (al di là delle millemila edizioni di Masterchef che abbiamo messo in sottofondo mentre finivamo la documentazione del giorno) che dividerei in tre categorie.
Lo zozzone ovvero Rubio Chef
L’importanza del menu non sta nella variabilità degli ingredienti, ma nel saper prontamente amalgamare il tutto annegandolo nella maionese o nell’olio. Con questo approccio alla cucina, ovviamente non importa cosa mettiamo nell’archeoschiscetta, tanto sarà impossibile distinguere i sapori.
2. Il salutista ovvero Germidi Soia Chef
Stiamo tutto il giorno nel traffico, nello smog, sporchi di polvere dispersi tra i rumori della città: almeno il pranzo facciamolo sano (anche per contrastare la gastrite di cui sopra), così poi ci sentiamo meno in colpa a sfondarci di birra durante l’aperitivo. E dunque via libera a pranzi crudi e sconditi: la varietà del menu dipende da verdura e frutta di stagione (not my fault).
3. Il tutorialista ovvero Fatto in casa da Benedetta Chef
L’archeologo che non si vuole arrendere, che non vuole accettare una vita di riso freddo e pasta al pesto.
E quindi si impegna al massimo, come in tutto quello che fa.
L’archeologo sa infatti che per acquisire skills bisogna prima di tutto studiare: dunque passa in libreria a fare incetta di libri di cucina, si iscrive ai più popolari canali youtube e vai di cucina sperimentale.
Che al confronto dell’archeologia sperimentale è comunque una passeggiata, pensa ingenuamente il nostro archeologo, prima di ritrovarsi a postare il piatto del giorno – bruciato e stomachevole – sul gruppo facebook Cucinare Male.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/1605807665288.jpg8101080Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-11-19 18:49:352020-11-20 13:10:08Archeoschiscetta, lo street food dell'archeologo
C’è un palazzo che si staglia imponente e signorile lungo il costone del Monte Faito, guardando dall’alto la distesa di case e strade di una cittadina vesuviana, un tempo nota come Stabiae, adagiata a sud del Golfo di Napoli.
Dalla terrazza di questo edificio, che spicca per il colore rosso della sua facciata, si gode una delle viste più suggestive del Golfo: lo sguardo si allarga a perdita d’occhio tra il blu del mare, il verde delle fertili terre vesuviane e il bianco dei paesi che uno dopo l’altro si susseguono ininterrottamente, fino ad abbracciare in lontananza il profilo delle isole.
E mentre con gli occhi ci si riempie l’animo del panorama di uno dei luoghi più belli d’Italia, alle spalle si percepisce distintamente l’aria umida che viene dai boschi del monte, inglobati all’interno del parco palatino, tra sentieri, sedili in marmo e fontane, nell’aspetto tipico del giardino all’italiana.
Siamo nella Reggia di Quisisana a Castellammare di Stabia, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, forse in età medievale, ma la cui acme si colloca sotto la dinastia borbonica, quando con gli interventi condotti da re Ferdinando IV di Borbone nella seconda metà del XVIII secolo il complesso assunse l’aspetto di palazzo per la caccia e la villeggiatura.
Credits: Parco Archeologico di Pompei
Diventa facile immaginare nobildonne e nobiluomini aggirarsi tra palme, pini e castagni, durante l’epoca del Grand Tour: la Reggia di Quisisana infatti divenne una tappa obbligata per i rampolli delle famiglie europee che passavano per Castellammare di Stabia, ospiti dei Borbone.
A questo periodo di splendore e agio successe purtroppo l’abbandono, a partire dagli anni sessanta del Novecento, con ulteriori danneggiamenti dovuti al terremoto del 1980. Ma un tesoro architettonico di tal fatta non poteva rimanere nell’incuria a lungo e così un radicale restauro, conclusosi nel 2009, ha riportato la Reggia borbonica agli antichi fasti.
La nuova vita della Reggia di Quisisana è iniziata definitivamente il 24 settembre 2020 con l’inaugurazione del Museo Archeologico di Stabiae, dedicato all’esposizione dei prestigiosi reperti provenienti dal territorio stabiano.
L’operazione di riconversione del palazzo a spazio archeologico è stata curata e promossa dal Parco Archeologico di Pompei con l’organizzazione di Electa, per restituire al patrimonio italiano un edificio simbolo della storia di Castellammare.
Credits: Mina Grasso
Credits: Mina Grasso
Il nuovo Museo Archeologico di Stabiae
La caduta e la rinascita sembrano essere una costante nelle vicende storiche di Castellamare di Stabia: nel corso della sua storia millenaria sono stati diversi i momenti in cui si è trasformata da località agiata, prediletta dai nobili per il ristoro del corpo e dello spirito, a simbolo di decadimento e declino, riscattato poi da una nuova rifioritura.
Facevo queste riflessioni mentre, a bordo della circumvesuviana in transito verso Castellammare, assistevo al campionario di umanità che popola il mitico trenino campano: dai ragazzi vocianti ai villeggianti inglesi diretti a Sorrento che sembrano usciti direttamente dal Grand Tour passando per i volti pieni di aspettative dei turisti che sbarcano a Pompei. Un catalogo completo di chi popola temporaneamente o quotidianamente la piana vesuviana.
E immaginavo come doveva svolgersi la vita qui millenni fa, quando Castellammare era Stabiae e invece dei condomini bianchi di mattoni e cemento, il panorama era punteggiato da ville signorili che nulla avevano da invidiare alle domus pompeiane o alle villae rurali del suburbio romano.
Proprio camminando tra gli spazi del nuovo museo di Stabiae, sala dopo sala, ho ripercorso, con un po’ di fantasia e anche un po’ di nozioni archeologiche, il catalogo delle ville d’otium, dove i nobili del tempo trascorrevano le loro pigre giornate tra le indicazioni di lavoro da dare a fattori e pastori che lavoravano nella pars rustica dei palazzi e le conversazioni con ospiti e clientes, circondati da affreschi e mosaici, magari sorseggiando del buon Falerno.
Credits: Mina Grasso
Crdedits: Mina Grasso
Affreschi provenienti dalle ville stabiane
Quanto erano grandi le ville stabiane?
Beh, basti pensare che la cd Villa di San Marco si estendeva per circa 11.000 mq in posizione panoramica, rivolta verso il mare sul ciglio del pianoro di Varano. Non conosciamo purtroppo i nomi dei proprietari della dimora signorile e la denominazione attuale deriva da una cappella esistente in zona nel ‘700, ma certamente dovevano essere di classe agiata per potersi permettere una simile ricchezza architettonica e di arredi. La villa si sviluppa su diversi livelli attorno a due ampi peristili circondati da una grande piscina, da sale di rappresentanza finemente affrescate e da ambienti residenziali. Nella dimora non mancava un quartiere termale per la cura del corpo e un imponente atrio tetrastilo.
Come in tutte le ville anche qui era presente il quartiere produttivo con ambienti di lavoro, ambienti di servizio, vani per la conservazione e la lavorazione delle derrate alimentari. Non bisogna infatti dimenticare che fulcro dell’economia delle ville erano l’agricoltura e l’allevamento.
Soffitto con planisfero. Stabia, villa San Marco, I secolo d.C.
Una delle ville più conosciute del territorio stabiano è senza dubbio la cd Villa Arianna, così denominata dall’affresco raffigurante Arianna abbandonata da Teseo a Nasso, rinvenuto sulla parete di uno dei triclini. I suoi affreschi sono universalmente noti, come la celeberrima “Flora” oggi conservata al Mann.
Le sale della Reggia di Quisisana dedicate a Villa Arianna raccolgono sia le variopinte decorazioni parietali staccate durante le esplorazioni borboniche, sia i materiali raccolti nella pars rustica della residenza. La villa, una delle più antiche sorte sul pianoro di Varano, attualmente è stata riportata in luce per circa 3.000 metri quadrati, corrispondenti a circa un quinto della sua estensione originaria.
Villa Arianna si caratterizza per la sua ricca articolazione architettonica: rampe e gallerie collegano le diverse ali della dimora signorile, organizzata in quattro nuclei databili tra l’età tardo repubblicana e l’età flavia: atrii, terme, triclinii, una palestra, ambienti di servizio e cubicula.
La dimora restituisce l’immagine precisa di un complesso destinato non solo al piacere intellettuale ma anche al lavoro. Uno dei pezzi forti dell’esposizione è infatti il carro a quattro ruote utilizzato per il trasporto delle merci prodotte nel quartiere rustico: molto diffusa era la coltura di vite e olivo, così come sui vicini monti Lattari era praticata la pastorizia. Il rinvenimento delle numerose anfore esposte nel museo conferma la vocazione fortemente produttiva delle ville e la vivace economia agropastorale del territorio.
Credits: Antonia Falcone
Credits: Antonia Falcone
Villa Arianna, Stabia
Si stima che nell’antica Stabiae ci fossero decine di ville, delle quali solo una parte è stata messa in luce anche grazie al lavoro meticoloso di Libero D’Orsi (1888 – 1977) che dedicò gran parte della sua attività professionale agli scavi archeologici, allestendo nel centro cittadino anche l’Antiquarium che mostrava i reperti dei luoghi.
L’esposizione presenta infatti i reperti di altre residenze come Villa del Pastore, il cd Secondo Complesso, Villa del Petraro e Villa di Carmiano (con la ricostruzione di uno degli ambienti) per dare l’idea di quanto dovesse essere ricco il territorio stabiano.
Credits: Mina Grasso
Credits: Mina Grasso
Passeggiare per il nuovo Museo Archeologico di Stabiae all’interno della Reggia di Quisisana è un viaggio nella storia di questo territorio, circondati dai rossi e dai gialli delle pareti che si compenetrano con i colori degli affreschi, stupefacentiper la loro brillantezza arrivata intatta fino ai nostri giorni.
E se è vero, come mi ha raccontato il tassista che mi ha riportata a valle, che il nome della Reggia deriva dall’espressione “Quisisana” pronunciata dal re borbonico mentre oziava nel giardino della sua residenza riposando sotto un albero per guarire dai suoi malanni, mi piace pensare che con un nuovo museo archeologico a Castellammare qui-si-sana non solo il corpo ma anche lo spirito.
Visitare la reggia borbonica di Quisisana a Castellammare di Stabia merita. Veramente stupenda…. io sono del posto e mi sono molto emozionata. Ho trovato una realtà museale meravigliosa, sia dal punto di vista culturale che paesaggistico.
La presentazione delle sale è concisa e chiara, i reperti sono ben sistemati nelle teche, gli affreschi sono spettacolari.
Dalle sale si vede il golfo di Castellammare con il Vesuvio, ma l’occhio si spinge fino a cercare gli elementi noti dei paesi lungo la costa o le pendici non solo del Vesuvio ma anche dei monti circostanti. Si vedono bene: lo scoglio di Rovigliano, il campanile di Pompei, i silos di torre annunziata , il convento benedettino di colle Sant’Alfonso a Torre del Greco, il Museo di Pietrarsa, il convento dei Camaldoli.
Il giardino, anch’esso ” finestra” sul Golfo e sul Vesuvio, lasciato a bosco, dove sembra mancare l’opera dei giardinieri borbonici, rimanda a passeggiate rilassanti, ad immagini bucoliche, a dame e bimbi intenti nei loro passatempi.
Ho vissuto emozioni forti, ritornare ai miei avi mi ha accarezzato l’anima….
Nunziatina Ranieri
E ora un po’ di informazioni pratiche:
COME ARRIVARE
Partiamo dalla nota dolente.
Se siete in auto è semplice:
Autostrada A3 Napoli-Salerno (uscita Castellammare di Stabia), imboccare SS145 per 8,5 km (seconda uscita di Castellammare di Stabia), proseguire dritto su viale Europa, viale delle Puglie e via Panoramica. Girare a sinistra su viale Ippocastani (salita Quisisana).
Se siete con i mezzi è un po’ meno semplice, ma non impossibile:
Circumvesuviana Napoli-Sorrento (fermata Castellammare di Stabia), dirigersi verso Piazza Giovanni XXIII + Linea 5 (fermata Salita Quisisana) e poi qualche minuto a piedi verso l’ingresso della Reggia.
Oppure a piedi, sono circa 25 minuti, ma in salita.
Oppure in taxi dalla stazione.
BIGLIETTI
intero: € 6.00 (+ € 1.50 su prevendita online)
ridotto: € 2.00 (+ € 1.50 su prevendita online)
Gratuità come da normativa.
ATTENZIONE: Il biglietto di ingresso è acquistabile al momento solo sul sito www.ticketone.it, unico rivenditore online autorizzato. La biglietteria fisica nel museo ancora non è pronta.
CATALOGO
Il catalogo del museo è a cura di Massimo Osanna, Francesco Muscolino, Luana Toniolo ed è acquistabile a partire dai prossimi giorni sul sito di Electa Editore a questo link .
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/foto-Quisisana-2-2-scaled.jpg18092560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-10-04 21:03:032020-10-20 16:53:03Reggia di Quisisana, prezioso scrigno dei tesori dell’antica Stabiae
Che i più maliziosi leggeranno F**K e che, invece, è più semplicemente l’acronimo di Frequently Asked Questions, cioè le tante domande che periodicamente mi vengono rivolte a proposito di archeologia e archeologi.
In particolare, se molti aspiranti giovani archeologi mi contattano in DM su Instagram per chiedermi le cose più svariate attinenti la nostra professione, capita che tra i commenti di Facebook o tra i messaggi privati, le richieste di chiarimenti mi siano rivolte da semplici appassionati e curiosi.
È per questo motivo che ho pensato di inaugurare una nuova rubrica, dedicata proprio alle vostre FAQ.
COME SI DIVENTA ARCHEOLOGI?
Iniziamo da un grande classico: qual è il cursus honorum al termine del quale possiamo definirci archeologi a tutti gli effetti?
Consul, praetor, aedilis, quaestor, tribunus plebis, tribunus militum…
Ehm non questo.
Laurea triennale, laurea magistrale, specializzazione, dottorato, post dottorato.
Da un punto di vista strettamente formativo, la carriera di un archeologo comporta diversi anni di studio che possono culminare in uno (o più) assegni di ricerca, genericamente afferenti al titolo di post-doc. L’eventualità di passare svariati anni in giro per il mondo a procacciarsi borse di studio in prestigiosi enti di ricerca, attiene alla carriera di “ricercatore” che molti archeologi intraprendono.
Ma se non tutti gli archeologi sono ricercatori, tutti i ricercatori in discipline archeologiche sono sicuramente archeologi.
Sono infatti diversi gli ambiti professionali in cui può operare un archeologo e quindi diverse le carriere (ma di questo ci occuperemo in un’altra delle nostre FAQ).
In ogni caso, a rigor di legge, si può definire archeologo chi ha:
Laurea triennale in discipline archeologiche, Classe 13 ordinamento DM 509/99 o classe L1 D.M. 270/04 con indirizzo archeologico con un numero di crediti minimi nelle discipline storico-archeologiche corrispondenti a 60 CFU, più almeno 12 mesi, anche non continuativi, di documentata esperienza professionale, nell’ambito delle attività caratterizzanti il profilo.
Questa la definizione di Archeologo di Terza Fascia, secondo la normativa sancita dal Decreto Ministeriale 244/2019 in attuazione dell’articolo 9bis del D. lgs. 42/2004 (Codice del Beni Culturali) così come modificato dalla L. 110/2014.
Detta in modo semplice: gli interventi sui beni archeologici sono affidati alla responsabilità e all’attuazione di archeologi, come definiti sopra.
Senza triennale e 12 mesi di esperienza professionale non si potrebbe lavorare come archeologi.
La legge ha individuato N. 3 fasce di archeologi, con mansioni e responsabilità diverse e progressive, che potete consultare qui.
Ne consegue che più si studia maggiori sono le responsabilità così come le possibilità lavorative: per esempio soltanto gli archeologi con specializzazione o dottorato sono abilitati alla redazione del documento di valutazione archeologica nel progetto preliminare di opera pubblica (VIARCH).
A questo proposito vi segnalo che il portale http://www.archeologiapreventiva.beniculturali.it/ – dove era possibile iscriversi come operatori abilitati – è in dismissione come recita l’annuncio in homepage
“Il portale non verrà più aggiornato e sarà progressivamente dismesso. Tutti gli archeologi interessati, anche se già iscritti, devono effettuare una nuova registrazione e l’invio della domanda di iscrizione sul portale “professionisti dei beni culturali”. I committenti e le stazioni appaltanti interessati a verificare nominativi e qualifiche degli archeologi ai sensi della del D.Lgs. 163/2006-D.Lgs. 50/2016 art. 25/ sono pregati di fare riferimento al portale “professionisti dei beni culturali”; non verranno infatti effettuate nuove iscrizioni per la consultazione. Si ricorda che la iscrizione agli elenchi non è obbligatoria né può venire richiesta come tale; al contrario, per esercitare le attività previste dal DM. 244/2019 e da tutte le normative da esso recepite, è sufficiente il possesso dei requisiti, che possono venire autonomamente presentati al committente dal professionista”.
E quindi?
Come si diventa archeologi? Si prende una laurea e si fa esperienza (per iniziare).
Non basta dunque aver scavato nel giardino di casa della nonna per piantare un cactus né aver letto tre-libri-tre su “archeologia, misteri, alieni e cose assurde che però fanno vendere copie e fare soldi” (no, la categoria – purtroppo – non la trovate proprio scritta così sugli scaffali delle librerie) per potersi definire archeologi e tanto meno per poter intervenire sui beni archeologici.
Quello dell’archeologo è un lavoro serio, fatto di competenze molteplici e diversificate acquisite in anni di studio ed esperienza sui cantieri didattici e/o nei laboratori universitari.
E se anche a voi è capitato di dover rispondere all’obiezione del – fastidiosissimo – passante di turno “eh, ma tanto voi state in cantiere SOLO a guardare la ruspa”, sciorinategli tutta la lista degli imperatori romani (soprattutto quelli del Basso Impero) o tutte le facies della ceramica dell’età del bronzo con i dettagli morfologici delle forme ceramiche decorate a impressione o i diversi centri di produzione dell’invetriata medievale, chiedendogli cosa ne pensa del nuovo metodo di datazione della ceramica messo a punto dall’Università di Bristol che utilizza le più recenti tecnologie di spettroscopia, di risonanza magnetica nucleare ad alta risoluzione e di spettrometria di massa per isolare gli acidi grassi.
La sua faccia sarà questa
E il vostro compiacimento impagabile.
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/pokes-fun-at-1164459_1280.jpg8531280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-09-09 15:04:162020-09-09 15:46:22FAQ ARCHAEOLOGY: come si diventa archeologi?
Gloria Carraro è archeologa e consulente culturale.
Laureata in Scienze dei Beni Culturali curriculum Archeologico presso l’Università di Pavia attualmente si occupa di didattica archeologica organizzando laboratori per bambini.
Abituata a destreggiarsi tra bimbi urlanti, infiniti “maestra, perché?”, sempre con le mani appiccicose di colla vinilica (argilla), il suo lavoro prima della pandemia e della chiusura delle scuole consisteva nella divulgazione della storia e dell’archeologia attraverso gli strumenti ludici: elaborati di argilla disegni, attività laboratoriali.
Ph. credit: Gloria Carraro
Adesso anche il suo lavoro è cambiato e si è spostato su youtube: Gloria crea, gira e monta video a tema archeologico dedicati ai bambini,sul suo canale video Youtube.
Le ho rivolto 15 domande a cui rispondere al volo.
1 – Nome?
Gloria Carraro
2 – Età (vera o mentale)?
Verso i 40, rimasta intorno ai 20
3 – Segni particolari?
Sono testarda. Ho dei tatuaggi. I miei genitori volevano chiamarmi Selvaggia.
4 – Perché hai scelto di fare l’archeologa?
A 5/6 anni i miei genitori iniziarono a portarmi nei siti archeologici, i primi che ho visitato erano in Grecia e Turchia. L’orario preferito, perché ce la prendevamo con comodo al mattino – eravamo dormiglioni in vacanza – era tipo mezzogiorno, quindi credo che le insolazioni che ho preso in quegli anni abbiamo prodotto strani effetti sul mio percorso di studi.
Scherzi a parte, conoscere il passato attraverso i resti, le tracce antiche, mi ha sempre affascinato.
5 – Perché fai ancora l’archeologa?
Per testardaggine e perché spero di lasciar traccia ai bambini di quanto sia importante e soprattutto bello scoprire il Passato.
6 – Che lavoro farai da grande?
Spero lo stesso di ora. Magari con qualche modifica. Di sicuro voglio mantenere il contatto con i bambini.
7 – Descrivi in tre righe le difficoltà del tuo lavoro.
Cultura: mancano i soldi
Lavori con i bambini quindi è facile e tutti sono capaci…
Certi ambienti della cultura sono abbastanza chiusi.
8 – Un genio può esaudire un tuo desiderio riguardante l’archeologia in Italia. Cosa chiedi?
Che sia riconosciuta al pari di altri lavori.
9 – Raccontaci in una frase cosa fa chi si occupa di didattica archeologica e perché lo fa.
Ho iniziato il mio lavoro nel 2006 con un progetto che si intitolava “Vivi l’Archeologia. Scoprire l’Archeologia, Imparare la Storia” con l’idea di voler sensibilizzare i ragazzi all’archeologia.
“Scoprire l’Archeologia, Imparare la Storia”, è poi diventato il mio motto, perché sono convinta che i giovani, attraverso la scoperta delle tracce antiche dell’uomo, imparino anche la storia.
Quindi in una frase: sensibilizzare i giovani verso l’archeologia e i beni culturali, rendendo piacevole l’esperienza laboratoriale o di visita.
Ph. credit: Gloria Carraro
Ora giochiamo:
10 – Che periodo storico butteresti giù dalla torre: la preistoria, l’età classica o il medioevo? Perché?
No, dai, non si può rispondere a questa domanda.
Devo proprio?
Allora sarò banale: il Medioevo. Perché ha asportato molto materiale di età classica… però se lo buttassi giù non avremmo tutte le meraviglie che sono state prodotte in quel periodo.
11 – Una giornata di montaggio video: chi ti farebbe compagnia con le sue chiacchiere, Alberto Angela o Massimo Polidoro? Perché?
Alberto Angela. Sai che viaggi nel tempo ti fa fare?
Certo che lo sai, sei l’ultrà (ovviamente in senso buono) delle Angelers.
12 – Spiegaci la differenza tra archeologo e paleontologo come faresti con un bambino.
Se vuoi ascoltare come racconto la differenza tra l’archeologo e il paleontologo, c’è un video su YouTube.
Brevemente direi, il paleontologo si occupa dei dinosauri e l’archeologo delle tracce lasciati dagli uomini del passato.
13 – Per un laboratorio didattico devi scegliere un consulente tra Giovanni Muciaccia e Paolo Bonolis dei tempi di Bim Bum Bam. Chi vorresti? E perché?
Direi Muciaccia per la sua creatività.
14 – Il libro per bambini più bello che hai letto e quello che vorresti scrivere.
Cipì di Mario Lodi perché è legato alla mia infanzia.
Negli anni ho letto molti libri per via del lavoro di promozione della lettura che faccio nelle biblioteche, farò sicuramente torto a qualche bel libro ma ti cito due titoli di divulgazione per bambini :
Lucy, la prima donna (Daniele Aristarco)
In Grecia (Giuseppe Zanetto)
Il libro che vorrei scrivere è la continuazione di “Selvaggia Dior e le porte del tempo. Oscuri misteri in Mesopotamia”, testo che ho pubblicato con Edizioni Astragalo nel 2016.
15 – La tua definizione di archeologia.
L’archeologia è una disciplina che fa da intermediario tra il presente e il passato.
Progetto e sviluppo attività didattiche e ludiche di archeologia e comunicazione educativa al patrimonio culturale.
Dal 2006 propongo a scuole, biblioteche e associazioni culturali i progetti:
“Vivi l’Archeologia. Scoprire l’Archeologia, Imparare la Storia” (scuola primaria), “Archeologia a piccoli passi” (scuola dell’infanzia), “Due chiacchiere con Ullo, Drusilla e … un Archeologo” (biblioteche).
Dal 2009 ho ampliato l’offerta per gli enti pubblici e le case editrici proponendo attività di promozione della lettura e di valorizzazione del Patrimonio Culturale.
Nel 2016 pubblico con Edizioni Astragalo il libro per bambini “Selvaggia Dior e le porte del tempo. Oscuri misteri in Mesopotamia”
Nelle #PilloleMetologiche di oggi lascio la parola ad A. Carandini e alle sue Storie dalla Terra (p. 155) per capire una volta per tutte la differenza tra la Legge del Terminus Post Quem e la Legge del Terminus Ante Quem.
► Una moneta o un altro reperto databile rinvenuto in uno strato offre un Terminus Post Quem per l’unità stratigrafica, posto che sia il più tardo di quelli coevi alla formazione dello strato, e cioè che che non sia un residuo o un intruso.
Esempio: → se la moneta è del 73 d.C. lo strato si sarà formato nello stesso anno o in un momento comunque successivo, anche lontanissimo.
► La legge del Terminus Ante Quem invece afferma che, se la cronologia di un’unità stratigrafica è nota, tutte quelle che la precedono nella sequenza stratigrafica sono per forza più antiche.
Esempio: → la ceramica del II secolo d.C. rinvenuta in uno strato più recente di un altro strato che contiene ceramica del III secolo d.C. perde ogni valore cronologico: è da considerarsi residua.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/97794514_3324173634282419_948611632618012672_n.png750500Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-05-14 19:52:382020-05-14 19:52:43#PilloleMetodologiche: Post Quem o Ante Quem?
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