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La locandina di Big Bang Data - 31 gennaio 2017 - Roma

#BigBangData: il come e il perché di un workshop di debugging collaborativo su OpenICCD

Da qualche anno a questa parte si fa un gran parlare di open data (dati aperti) specialmente in connessione con enti ed amministrazioni pubbliche.

Se ne parla, naturalmente, anche nel campo dei beni culturali, e non perché è un tema che va di moda e fa tanto archeonerd, ma perché in questo caso specifico “liberare” i dati significa anche permettere l’accesso ad una conoscenza che è, per principio, appartenente a tutti, quella al nostro patrimonio culturale.

Fotografie di reperti archeologici, di monumenti e opere d’arte. Schede di catalogo di ogni oggetto custodito nei nostri musei. Foto d’epoca. Giardini e parchi storici. Palazzi e residenze di pregio.

Sono solo alcuni dei “dati” che possono essere “liberati”, le cui informazioni possono essere messe in rete e condivise, così che chiunque ne abbia bisogno, vuoi per curiosità personale o per motivi di ricerca o business, possa avervi accesso.

I dati aperti, però, non devono essere soltanto disponibili, devono anche essere accessibili, il che significa che chi li rilascia deve farlo in modo tale da rendere la loro consultazione facile e aperta a tutti e quanto più possibile pronta al riuso.

Riuso, in particolare, è la parola chiave, perché se c’è una cosa che ho capito dei dati aperti è che il loro valore cresce in modo direttamente proporzionale alla loro riusabilità (termine proprio dell’informatica, wikipedia lo definisce così).

Il concetto è immediato quando il “dato” è un’immagine, visto che il grado di riusabilità di un’immagine pubblicata in rete dipende prima di tutto dalla licenza con la quale essa è rilasciata (è per questo che piattaforme come Wikicommons sono una ricchezza per l’umanità, come sappiamo bene noi archeostickeristi).

E se invece abbiamo a che fare con una scheda di catalogo?

In tal caso, visto che una scheda catalografica altro non è se non un set di informazioni organizzate, la riusabilità dipende prima di tutto dal modo in cui le informazioni sono state organizzate, archiviate e condivise.

È insomma una questione di metodo e di processo, entrambi concetti con cui noi archeologi abbiamo una certa familiarità, ma è anche una questione di necessità e delle finalità con cui questi dati sono stati “prodotti” da qualcuno e verranno in seguito cercati da qualcun altro.

In altre parole, perché i dati aperti vengano riusati ed esprimano quindi tutto il loro potenziale, è necessario che chi “crea” i dati e chi “riusa” trovino un terreno comune, che diventa tanto più fertile quanto più fitto e proficuo è il dialogo tra le parti coinvolte.

È proprio questo lo scopo con cui nasce Big Bang Data.

I dati aperti sono quelli rilasciati dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, il quale, tra le altre cose, gestisce il Catalogo generale del patrimonio archeologico, architettonico, storico artistico e etnoantropologico nazionale. Nel 2016 l’istituto ha lanciato la piattaforma OpenICCD il cui fine dichiarato è quello di “avviare un processo di condivisione dei dati di catalogazione dei beni culturali”, una vera e propria miniera per chiunque operi nel campo dei beni culturali, organizzata su base regionale e per categoria (reperti archeologici, oggetti d’arte, beni fotografici).

Dentro OpenICCD, però, sono presenti anche strumenti che vogliono “soddisfare le esigenze di utenti che si presentano diversificati per caratteristiche e aspettative”: l’istituto quindi non sta solo rilasciando i propri dati, ma si sta aprendo a quel dialogo di cui parlavo prima e lo sta facendo mettendo in campo tutta una serie di strategie per la condivisione mirata al riuso.

Scusate se è poco, verrebbe da dire.

In questo percorso il personale di ICCD è stato aiutato da opensensorsdata, che ha messo a punto il masterplan e testato con ICCD modelli e piattaforme, in un “clima da bottega” che ha coinvolto persone dalle competenze molto diverse tra loro e che Luca Corsato ha raccontato magistralmente in questo post.

Tutto questo costituisce il prequel di Big Bang Data.

Quello che succede adesso è il passo successivo. Questi strumenti ci sono, i dati sono già presenti e molti altri verranno rilasciati nel corso del tempo.

Serve stabilire quel famoso dialogo. Ed è qui che entriamo in scena noi.

Il workshop del 31 gennaio sarà l’inizio di quello che a noi piace pensare come un percorso quanto più possibile condiviso e replicabile di lavorazione sui dati aperti in campo culturale.

Fondamentale è il concetto di bug, un altro prestito dal linguaggio informatico, termine che in questo caso indica semplicemente le mancanze, le cose che non funzionano e le incomprensioni tra attori diversi.

Quali bug percepisce chi organizza e rilascia i dati?

E quali bug percepiscono gli utenti? Sono diversi a seconda dei loro interessi e delle motivazioni che li spingono al riuso?

Ecco, sarà interessante scoprirlo insieme.

Capire, per esempio, se un imprenditore che ha in mente di usare gli opendata di ICCD per valorizzare dal punto di vista turistico-economico un territorio, percepisce le stesse difficoltà di chi vuole usare quei dati per realizzare una ricerca storico-archeologica.

E quali difficoltà di riuso vede in OpenICCD un operatore museale che sta mettendo a punto una mostra che colleghi e raccordi i reperti del suo museo a quelli del territorio circostante?

E non finisce qui.

Parleremo anche di lessico e searchability, di dati georeferiti, di crowdsourcing per il debugging e di quale utilità possono avere in questo i social media, discuteremo di normativa e di codifiche. E verranno presentati e raccontati esempi virtuosi e best practice di riuso con gli interventi di Wikimedia Italia e dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (IBC), lo stesso lavoro che ha portato ad OpenICCD.

Si lavorerà sodo durante Big Bang Data e dal workshop usciranno idee, proposte, e, ce lo auguriamo, delle linee guida su cui elaborare strategie di lavoro futuro.

Lo abbiamo percepito come un modello, un vero e proprio format in cui il nostro ruolo (mio e di Antonia, di Astrid e Paola) è quello di fungere da raccordo tra i diversi attori e allo stesso tempo promuovere e incentivare una “metodologia della collaborazione” (un po’ come gli spingitori di guzzantiana memoria 😛 ) che non si limiti solo ad ICCD.

Per il momento, però, partiamo da qui.

Questo è il link all’evento Facebook con tutte le informazioni pratiche e il programma, mentre qui la notizia sul sito di ICCD con il link al modulo di iscrizione.

 

Domenica Pate

@domenica_pate

 

Pompei città aperta: #scriptorivm e dintorni

A volte gli esperimenti più arditi vengono realizzati dove meno te lo aspetti.
E così la banalità dei luoghi comuni e la parzialità di una certa informazione appaiono d’improvviso quasi comiche.

 

 

Pompei non è solo una città che crolla.
Pompei non è solo un sito archeologico con enormi problemi e con a capo, in veste di commissario straordinario, un generale.
Pompei non è solo il Grande Progetto.
Pompei è anche #scriptorivm

 

 

Di cosa sto parlando? Di una fantastica esperienza che io, con molti altri, ho vissuto il 19 ed il 20 giugno. A Pompei appunto.
Inutile spiegare come è nata l’iniziativa, vi basta navigare sul sito dell’evento per scoprirlo.

 

 

Io invece vi racconterò cosa e come l’abbiamo fatto ma, soprattutto, con quale spirito.

 

 
Riuniti all’interno dell’Auditorium nell’area archeologica, per due giorni, ci siamo tutti impegnati a produrre, sistemare e trasformare dati aperti utili alla fruizione e allo studio dell’antica città vesuviana.

 
Io per esempio ho lavorato nel gruppo che ha realizzato un “database bibliografico georeferenziato”. Sicuramente questa definizione farà rabbrividire i miei compagni di avventura ma, per capirci, il prodotto della due giorni è stata una pianta digitale della città in cui, cliccando sulle domus o sulle insulae, appare la bibliografia relativa. L’inserimento dati ovviamente è stato solo parziale ma il sistema ormai c’è e “riempirlo” richiederà un lavoro lungo e non certo complicato.

 

 

Altri hanno lavorato alla base cartografica, quella su cui noi abbiamo inserito successivamente i nostri dati e, credetemi, hanno fatto un gran lavoraccio.

 

 

Altri ancora hanno girato Pompei sotto il sole cocente per mappare la città da un punto di vista fotografico. E gli ultimi, che in realtà erano il gruppo I, hanno anche realizzato un bel sito internet sulla Pompei antica e moderna. Con grande attenzione a temi prettamente storico-archeologici, come la mappatura di graffiti ed iscrizioni, ma anche alle tematiche dell’accessibilità.

 

 
Tutto questo è stato possibile non solo grazie all’entusiasmo e alle attitudini dei partecipanti, ma anche alla generosità di chi, in primis il Prof.  Eric Poehler del Pompeii Bibliography & Mapping Project, ha messo volentieri a disposizione di tutti i dati cartografici e bibliografici.

 

 

 

Molto ci sarebbe da dire sugli strumenti e le metodologie usate e io, sinceramente, non è che sia la persona più adatta a farlo.

 

 

 

Posso però raccontarvi l’atmosfera: frizzante, allegra, seria ma spensierata.
Gravida di codici, quote e caffè.
Appesantita, magari a sera, dopo una giornata di lavoro, da meritati fritti e pizza.

 

 

Posso anche raccontarvi chi c’era e ha contribuito con impegno e dedizione alla riuscita dell’evento: archeologi, ingegneri, geomatici, comuni cittadini, economisti, giornalisti, tutti intenti a discutere con la verve e leggerezza di un gruppo di amici, quasi che stessero decidendo la meta delle vacanze, non certo lavorando.

 

 

Posso infine scrivere due righe di riflessione.

 

 
Ma sarà poi vero che le diverse categorie professionali non possono lavorare in sintonia?

Sarà vero che realizzare sistemi innovativi e open è complicato, difficile e dispendioso?

Sarà vero che in archeologia non si può fare innovazione perché i soggetti coinvolti sono sempre troppo legati al “vecchio”?
Sarà vero che per Pompei, per l’Italia e per certe generazioni non c’è speranza di riscatto?

 

 

La risposta a tutte queste ed altre domande è “No, non è vero.

 

 

Bisogna smettere di guardare solo il pezzo di muro che cade e guardare i progetti che, più o meno silenziosamente, crescono.

 

 

E magari anche dare una mano, se si è nella condizione di farlo.

 

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