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#500schiavi ovvero del prezzo di essere archeologo

Qualcuno prima o poi dovrà spiegarci con dovizia di particolari ed esauriente eloquio perché mai a 19 anni un giovane dotato di sufficiente senso della realtà dovrebbe decidere di intraprendere un percorso di studi in beni culturali. La richiesta non è retorica, come può sembrare.

 

 

Riassumiamolo il percorso di studi di un aspirante archeologo: si iscrive all’università, consegue la laurea triennale, poi quella specialistica, poi si iscrive ad una scuola di specializzazione, consegue il diploma, è archeologo. Poi magari vince anche un dottorato. Totale di anni di studio: 7 o 10.

 

 

Totale di tasse pagate: tante, meglio non soffermarsi a fare il calcolo col pallottoliere.

 

 

Finisce di studiare, è l’orgoglio di mamma e papà ed è contento di aver finalmente suggellato con tutti questi titoli di studio la sua aspirazione di essere archeologo.

 

 

A questo punto si scontra con il mercato del lavoro. Le alternative sono poche:

 

 

1-continua la carriera accademica, barcamenandosi tra assegni di ricerca rinnovati o no. Difficile essere davvero indipendenti economicamente, per fortuna a casa c’è qualcuno che gli da una mano.

 

 

2-prova a lavorare per qualche società o cooperativa. Guadagna poco, lo pagano con scadenze indicibili e sa che probabilmente sarà difficile resistere a lungo. Sommessamente comincia ad elaborare un piano B: cambiare lavoro.

 

 

3-mette su una società e si inventa imprenditore: rincorre committenti e pagamenti, combatte ogni giorno con la burocrazia e se riesce da lavoro a qualcuno. Il tutto mentre gli vengono i capelli bianchi per l’ansia di non farcela.

 

 

4-lavora come libero professionista, cerca di prendere cantieri senza abbassare le tariffe, ma è difficile. C’è sempre qualcuno che gioca al ribasso e la sua rabbia diventa frustrazione.

 

 

Sconforto e voglia di mollare.

 

Poi come per incanto il miracolo o meglio il miraggio: un governo che dice di voler investire su di lui e sui suoi colleghi. Grandi proclami sull’importanza della cultura nel nostro Paese. Finalmente, forse, c’è bisogno di quelli come lui.

 

 

Non promette di essere la panacea di tutti i mali ma scrive e trasforma in legge il decreto ValoreCultura. E il provvedimento prevede, come ricorda in TV anche il presidente del Consiglio, di assumere, per un anno, come tirocinanti, 500 giovani da impiegare nella catalogazione.

 

 

Certo, penserà l’archeologo, sono solo 12 mesi, ma magari da cosa nasce cosa e finalmente ce la faccio a vivere della mia professione.
Passano i mesi e dei presunti futuri catalogatori si perde ogni traccia.

 

 

Poi d’un tratto, alla vigilia dell’Immacolata, ironia della sorte, il parto: ecco il bando.
E basta leggerlo di fretta per capire.
Per capire che forse non c’è speranza.

 

 

Si chiedono ottimi e molteplici requisiti, e magari il nostro archeologo ce li ha.

 

 

Si richiede un punteggio di laurea minimo di 110/110: si sa, più si è bravi in questo Paese,  e più è facile sfruttarti. E il nostro archeologo nel frattempo pensa: difficilmente mi saranno concesse altre opportunità.

 

 

Bisogna avere meno di 35 anni, e il nostro amato conoscitore del passato per fortuna non è ancora giunto al mezzo del cammin di lunga vita.

 

 

Ma c’è un piccolo problema: il compenso per un anno in cui dovrà svolgere 30-35 ore di formazione/lavoro settimanale sono 5000 euro.
416 euro al mese.

 

 

Un compenso inferiore al servizio civile, un compenso inferiore a quanto il nostro archeologo guadagnerebbe con le ripetizioni private o facendo il cameriere.

 

 

E tutto questo glielo propongono a 35 anni, dopo un decennio di studio, dopo che l’università non è stata in grado di fornirgli uno straccio di formazione lavorativa. E per fare cosa poi? Farsi sfruttare un anno al ministero e ritrovarsi nuovamente alla casella di partenza.

 

 

E il nostro archeologo si chiede, disperato, ma se nemmeno il mio Ministero crede che valga più di un lavavetri al semaforo perché dovrebbe crederci il resto della società civile?

 

 

Perchè dovrei crederci io?

 

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

 

Link al bando

Riposseduta, o delle molteplici anime dei nuovi vertici MIBAC (e non solo) ~ di Paola Romi

Un fantasma si aggira per l’Europa… No, quella era un’altra storia, anche se di questi tempi sarebbe comunque molto pertinente.

 

Torniamo in Italia. Selezioniamo l’area metropolitana di Roma. Infine facciamo uno zoom sulla sede del MIBAC. Stop, ci siamo.

 

Sono passati alcuni mesi dall’inizio della legislatura e, strano a dirsi, i nuovi vertici del Ministero negli ultimi anni tra i più programmaticamente latitanti hanno insperatamente parlato abbastanza e fatto discutere ancor di più.

 

Due personaggi di primo piano in questo spettacolo tutto italiano:

 

Lui, il Ministro Massimo Bray, protagonista legittimo. Lei, Ilaria Borletti Buitoni, Sottosegretario nonché coprotagonista suo malgrado. Entrambi accompagnati, come di consueto, dalle chiose del Coro composto perlopiù dai Professionisti della cultura, ma anche da volenterosi cittadini dediti ad altre attività (N.d.a.  Al secondo personaggio, per ovvi motivi di semplificazione onomastica, d’ora in avanti si farà riferimento con l’appellativo BB).

 

Ma veniamo alla trama: dopo un primo breve momento di incredulità generale (Bray? Chi è costui?) e forse di spaesamento personale, il neoMinistro ingrana la quarta. Inizia con una visita a sorpresa a Pompei e, come il turista medio, rimane vittima dei mezzi pubblici italiani guadagnando così la simpatia di molti. Poi rilancia e presenta un dettagliato documento programmatico sulle future attività del MIBAC. Qualche ombra c’è, come il controverso riferimento a privatizzazioni e volontari, ma il Coro apprezza molto che si sia esposto. L’aspetto caratterizzante delle sue proposte sembra subito essere la promozione della cultura mediante i Social media e, coerentemente con questa proposta, Bray continua a cinguettare dal suo vecchio account Twitter. Non pago dei pareri che chiede in questo modo, apre una pagina su Facebook in cui, oltre a documentare le sue attività, raccoglie anche critiche ed opinioni. Bray insomma sembra aver sposato le cause dell’innovazione, della condivisione e della trasparenza.

 

Negli stessi mesi BB, già in passato fortemente impegnata nel FAI, punta nelle sue dichiarazioni su due temi diversi: concessione della gestione dei BBCC ai privati nonché impiego necessario e massiccio dei volontari. È granitica in questo. Nonostante sin dalla difesa della richiesta di volontari per La Notte dei Musei abbia sollevato, prima sul web e poi sui media tradizionali, una levata di scudi inconsuetamente trasversale, lei, anche in queste settimane, persevera nel “suggerire” l’utilizzo di personale non retribuito. Sulla gestione ai privati la questione è più complessa, il dissenso si fonda soprattutto sui modi e sui tempi, non sulla questione tout-court.

 

Ad onor del vero Bray, del resto, le amate tematiche di BB, nel documento programmatico le aveva inserite.

 

Quale è dunque l’anima vera di questa nuova gestione MIBAC? Quella MediaFriendly, low profile e collaborativa del volenteroso Ministro 2.0 o quella più elitaria e decisionista, che strizza l’occhio ad una gestione privatistica del Patrimonio Culturale, senza tenere conto delle possibili ricadute delle proprie idee su categorie di professionisti già tanto vessati?

 

Negli stessi mesi peraltro, con l’avanzare dell’iter del disegno di legge che introduce finalmente archeologi (e non solo), nel Codice dei Beni Culturali, con l’audizione dei rappresentanti delle Associazioni professionali alla Camera, anche il potere legislativo sembrava adeguarsi alla ventata di rinnovamento che si intuiva dietro le iniziative del Ministro Social.

 

Il Coro si era quindi convinto che il l’idea di un Patrimonio Culturale aperto e produttivo, senza penalizzare i suoi professionisti, nonché una gestione MIBAC 2.0 fossero possibili, addirittura vicini. Ma, immediato, a far di nuovo sorgere il dubbio su quali e quante siano le anime che permeano attualmente chi, a vario titolo, è chiamato a decidere del futuro dei BBCC (e anche del nostro), è giunto l’articolo di Luca Corsato.

 

Dopo il gran lavoro fatto, quando la necessità della condivisione e della pubblicità dei dati sembrava una cosa assodata, un colpo di spugna ha cancellato la questione OpenData dalle proposte di emendamento al Codice dei Beni Culturali.

 

A questo punto noi, come probabilmente il resto del Coro, ci chiediamo, rivolgendoci alla politica oltre che ai vertici MIBAC, non quale sia la vera anima del nuovo Ministero, ma, di tutto quello che è stato detto e fatto negli ultimi mesi, cosa sia facciata e cosa sia sostanza. E non di sostanza dei sogni parliamo, ma di interventi concreti.

 

Risposte?

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

Immagine: disegno e colori (Davide Arnesano); soggetto (Antonia Falcone)

Revixit Archeo: il futuro dell’archeologia passa dalla rete

Chi è di noi è abituato all’uso dei social network sa bene che vi si svolgono quotidianamente preziosi dibattiti tra gli archeologi, con toni spesso polemici, a volte propositivi e generalmente marcati da profonda disillusione.
Ci si interroga sull’attualità della professione e si esplorano gli scenari possibili affinché la nostra disciplina possa uscire dall’alveo dell’hobbistica per giovani rampolli di buona famiglia e diventi invece un lavoro a tutti gli effetti, con tutele garantite, tariffario stabilito e dignità sociale.
A volte sembra che a mancare, oltre alle risorse, siano la volontà e le iniziative concrete per fare della nostra professione un settore veramente d’avanguardia, in grado di coniugare ricerca scientifica, formazione e divulgazione al grande pubblico.
In rete è più facile confrontarsi su tematiche spesso trascurate dall’archeologia ufficiale – quella che si insegna e si impara nelle aule universitarie, quella che si pratica nei laboratori e quella che si tutela nelle Soprintendenze. E questo per varie ragioni: vuoi perché ci si confronta in tempo reale anche con il mondo fuori dall’Italia, vuoi perché ci si sente meno “controllati” e quindi più disinvolti nella critica e nella proposta. Sta di fatto che gli archeologi in rete ci sono. E si parlano.
La stessa cosa non si può dire, almeno non con una presenza significativa statisticamente, per le istituzioni che si occupano di archeologia: dipartimenti universitari, soprintendenze, musei.
È per questo motivo che, leggendo le “Linee programmatiche dell’azione del ministro per i beni e le attività culturali”, la nostra attenzione si è subito fermata sul punto 17 (La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale attraverso le nuove tecnologie):

 

 

Le nuove tecnologie possono e devono fornire un contributo importante per la
valorizzazione del patrimonio culturale, favorendone la conoscenza e migliorandone
la pubblica fruizione. In questo senso, assume certamente rilievo prioritario la
promozione e il costante aggiornamento di applicazioni tecnologiche finalizzate a
comunicare e a rendere fruibile il patrimonio culturale.
Attraverso un sistema mirato di azioni da parte del Ministero, in stretta
collaborazione con l’Agenzia per l’Italia digitale, è possibile e necessario individuare
e sperimentare soluzioni innovative nel campo della comunicazione digitale, in
particolare attraverso i social networks, in modo da mettere a disposizione di un
pubblico sempre più vasto e con modalità semplici e accessibili l’enorme quantità di
informazioni e di contenuti relativi al patrimonio culturale oggi in possesso del
Ministero.

 

 

Non ci è sembrato vero leggere in una stessa frase le parole: tutela, valorizzazione, nuove tecnologie.

 

E questo perché, come dicevamo, nel settore dei beni culturali si percepisce un po’ di reticenza verso l’apertura al nuovo, a strumenti che magari non conosciamo bene e che per questo incutono timore. E poi perché, diciamolo tra noi, quanto ci piace a noi archeologi capirci e parlarci solo tra gruppi ristretti!

 

Apertura infatti significa discussione, confronto e rottura della gabbia dorata in cui ci siamo chiusi da decenni. Significa varcare uno steccato di intangibilità e aprirsi al pubblico, quel pubblico che spesso accusiamo di non capire, di fermarsi a Voyager e simili… amenità.

 

Chiediamoci cosa abbiamo fatto e cosa facciamo noi per questo pubblico.

 

Riusciamo a comunicare chi siamo, qual è il nostro lavoro? Oppure non siamo ancora riusciti a costruire un nuovo immaginario, diverso da quello che ci vede come perenni Indiana Jones e Lara Croft alle prese con nazisti, fruste e pistole?

 

Abbiamo mai provato a spiegare davvero cosa è l’archeologia oggi? A cosa serve?

 

Credo di no, e sapete una cosa? Penso che i tempi siano maturi per farlo, per cominciare a porre delle domande innanzitutto a noi stessi, come categoria, e poi al pubblico.

 

Un’altra cosa di cui rimango convinta è che le nuove tecnologie, i network sociali ed il dibattito che si costruisce ogni giorno in rete siano in grado di dare una spinta propulsiva, di farci sentire parte integrante della società, attori che non solo salvaguardano, ma valorizzano e comunicano.

 

È per questo che ci piace che Massimo Bray, il nuovo ministro del Mibac, sul web ci sia, cerchi un confronto, si presti alle critiche e coinvolga la community.

 

Ci auguriamo che questo “stare sul web” si accompagni a decisioni immediate nei confronti di problemi urgenti, provvedimenti in grado di restituire valore aggiunto al nostro patrimonio culturale, spesso dimenticato o ridotto ad una cartolina di “rovine” dal sapore ottocentesco.

 

@antoniafalcone

L’Aquila 5 maggio 2013: voglia di ricostruire

Gli ArcheoReporter Pina Alloggio e Giovanni Lacorte sono stati a L’Aquila il 5 maggio, in occasione della manifestazione promossa dagli storici dell’arte italiani, per parlare di ricostruzione e rinascita di una città sfigurata dal terremoto e da un’incuria durata anni.

 

Hanno così scritto un report della giornata, accompagnandoci, con le loro parole, in un viaggio tra le bellezze e le rovine della città abruzzese.

 

Hanno incontrato i promotori dell’iniziativa e coloro che vi hanno preso parte, sottolineando la necessità di tener viva l’attenzione su un patrimonio artistico che fa parte delle nostre radici culturali.

 

Hanno parlato con il Prof. Salvatore Settis e con il neo Ministro dei Beni Culturali, Massimo Bray, hanno osservato e fotografato.

 

Buona lettura!!!

 

*

 
I ‘nodi’ dell’Aquila

 

Una selva oscura di nodi. Sì, quelli d’acciaio dei tubi Innocenti.

 

Si presenta così al corteo degli storici dell’arte convenuti da tutt’Italia il paesaggio urbano dell’Aquila.

 

Ogni via percorsa, ogni piazza attraversata, ogni chiesa o altro monumento osservato ci ripropone sempre il medesimo leitmotiv ‘urbanistico-architettonico’.

 

Un’intera città nota fino a pochi anni fa per la rara bellezza del suo centro storico, frutto del mirabile connubio tra architettura, paesaggio e qualità della vita, si ritrova ancora oggi, a 1500 giorni dal sisma, ferma, bloccata, sospesa, invasa non più da cittadini, da studenti, da turisti, ma unicamente da ponteggi in affitto.

 

E sì, perché la cosa beffarda è che per ogni santo giorno di quei 1500 che sono passati da quel 6 aprile del 2009, “noi, come Stato italiano, abbiamo pagato (e Dio solo sa fino a quando continueremo a farlo) l’affitto di migliaia e migliaia di statici ponteggi d’acciaio ad una delle più note famiglie di industriali italiani del settore”, ci comunica Salvatore Settis, tra i promotori dell’evento.

 

Le somme destinate a questo oneroso affitto potrebbero essere invece utilizzate in mille modi diversi. Ad esempio per iniziare finalmente la risistemazione ed i restauri di una città che oggi appare spettrale, umiliata ed abbandonata a se stessa non tanto a causa della furia naturale del terremoto, quanto per la mancanza di volontà di una classe politica, quella italiana, bloccata su temi che di concreto hanno ben poco, e che è stata finora incapace di dare una speranza di futuro a L’Aquila ed ai suoi abitanti.

 

E qui veniamo al tema centrale della giornata organizzata dagli storici dell’arte italiani, che aveva come titolo proprio L’Aquila 5 Maggio. Storici dell’Arte e Ricostruzione Civile.

 

L’idea, nata dallo storico dell’arte Tomaso Montanari, ha coinvolto via via gran parte della comunità scientifica degli storici dell’arte (professori, ricercatori, dottorandi, studenti o semplici amatori d’arte), sensibilizzando anche numerose associazioni di settore.

 

Così, domenica scorsa, dalle 11 del mattino e per un paio d’ore, un lungo corteo munito d’ombrelli (vista la pioggia) si è incuneato nelle strette vie del centro storico cittadino per dare avvio ad una silenziosa e toccante Via Crucis laica, nella quale ogni ‘stazione’ era rappresentata drammaticamente da un monumento ferito (spesso a morte) e/o da ampi spazi urbani ormai quasi irriconoscibili.

 

La giornata è proseguita con un’assemblea che si è riunita all’interno di una delle poche chiese della città finalmente restaurate e quindi agibili, la chiesa di San Giuseppe artigiano, ex San Biagio d’Amiternum.

 

Prendendo per primo la parola per un’introduzione Montanari ha voluto sottolineare la necessità per gli storici dell’arte di “ribadire con forza che è giunto il momento di ricostruire, e di farlo attraverso la conoscenza: ricostruire, restaurare e restituire alla vita quotidiana dei cittadini il centro dell’Aquila. Ricostruire il tessuto civile della nazione. Ricostruire il ruolo della storia dell’arte come strumento di formazione alla cittadinanza e non come alienante dell’industria dell’intrattenimento culturale”.

 

Esatto, perchè l’Aquila tra i tanti problemi rischia pure di diventare ‘Aquilaland’, nel caso in cui, come afferma il prof. Settis, “passasse l’ infausta idea (che pure circola) della ricostruzione di una città formato luna park, avvicinandosi pericolosamente alla peggior idea di una Pompei del XXI secolo”.

 

La nostra piccola delegazione pugliese, rappresentata da noi e da altri tre colleghi, è anche stata piacevolmente sorpresa da una reale quanto non comune opportunità di confronto e scambio di opinioni con gli stessi organizzatori, in particolar modo con il già citato prof. Settis, che ha voluto ribadire l’importanza della collaborazione tra docenti ed allievi, tra istituzioni e cittadini, unica possibile via di uscita per una reale ed autentica politica di conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

 

Ancora più inaspettato, e per questo molto gradito, l’incontro con il neo ministro dei Beni Culturali, Massimo Bray, all’interno della stupenda cornice del restaurato Palazzetto dei Nobili.

 

Dopo le presentazioni di rito, il Ministro ha commentato in modo molto positivo la presenza di tanti giovani studiosi provenienti da varie parti della penisola e si è dimostrato concorde riguardo alla necessità di accendere i riflettori una volta per tutte sulla ‘questione dell’Aquila’ così da provare a sciogliere quantomeno una parte dei  nodi che tengono bloccata pesantemente la città.

 

Sarebbe un vero peccato insomma, se, dopo anni di silenzi e connivenze non si cogliesse al volo l’occasione per ripartire, tutti insieme, forti di una ritrovata e comune coscienza civica, che dovrà valere per L’Aquila, ma anche per le altre città italiane alle prese con lo smantellamento delle proprie radici storiche e culturali.

 

Ci piace allora chiudere con l’Italo Calvino de Le città invisibili, con un passo che sarebbe il caso di tenere sempre presente:

 

Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.”

 

 

Giovanni Lacorte e Maria Giuseppa Alloggio fanno parte dell’associazione Bozzetti di Viaggio, presente anche su Facebook, amica e partner di Professione Archeologo.