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Vita da archeologi: la mia esperienza ~ di Caterina Ottomano

Vi presentiamo oggi con grande piacere il post inviatoci da Caterina Ottomano, tra le prime ad essere entrata in contatto con Professione Archeologo e ad averci dato il suo sostegno.

 

In questo articolo troverete condensata la sua particolarissima esperienza di vita, che fornisce interessanti spunti di riflessione a tutti noi.

 

Caterina ci interroga su una questione cruciale del nostro percorso formativo e professionale: essere e fare gli archeologi può essere  un mestiere duraturo o rappresenta un intervallo che presto lascia il posto alla necessità di avere un lavoro vero? Può l’archeologia diventare una vera professione?

 

Grazie Caterina!

 

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Quando mi sono iscritta a Scienze della Terra a Milano non avevo la benché minima intenzione di occuparmi di archeologia, certo mi interessava molto la storia, ma la cosa finiva lì.

 

La mia tesi di laurea è consistita nel rilevamento geologico dei terrazzi fluviali e fluvioglaciali del territorio a nord di Novara e nell’analisi sedimentologica dei depositi che li costituivano, si trattava quindi di geologia del Quaternario, un campo nuovo a Milano.

 

All’epoca, all’inizio degli anni ’80, molti laureati in geologia venivano impiegati all’AGIP, nella ricerca degli idrocarburi e anch’io pensavo di dover/poter fare la stessa fine. Però, a sparigliare le carte è arrivato in dipartimento da Reggio Emilia un giovane ricercatore: Mauro Cremaschi, quaternarista e geoarcheologo, appunto. Lui mi ha seguito sulla parte della mia tesi dedicata ai depositi eolici e poi ha proposto a me e ad altri colleghi di andare a scavare una settimana nel sito paleolitico di Isernia la Pineta, che era stato scoperto da pochi anni. L’ho fatto, ci sono andata, mi sono intossicata con il paraloid, ho vomitato per due giorni e ho giurato a me stessa che non avrei mai più scavato.

 

Detto fatto, dopo la laurea, nel 1986, su consiglio ed incitamento di Cremaschi ero presidente di una cooperativa di geologi litigiosi che ricordava l’armata Brancaleone e a luglio trepidante e sudata ho partecipato al primo scavo: un sito dell’età del ferro vicino ad Alessandria in mezzo al mais e alle zanzare.

 

Con l’autunno sono stata reclutata da una ditta di Milano – la cui socia ‘anziana’ aveva la bellezza di 32 anni – negli scavi urbani di via Moneta e lì ho conosciuto una serie di archeologi inglesi ridotti alla fame dai tagli della Tatcher e giunti in Italia perché allettati dal lavoro abbondante e dalle buone paghe.

 

Tenete conto che gli anni ’80 e ’90 sono stati un momento d’oro per l’archeologia per la gran quantità di opere grandi e meno grandi che si sono effettuate sia in contesto urbano che extraurbano; moltissimi archeologi si sono formati allora ed alcuni sono gli stessi, invecchiati e inaciditi, che dirigono alcune società o cooperative con cui avete a che fare. All’epoca, però, tutti erano felici, entusiasti e giovani, soprattutto.

 

Nel tempo, pur continuando a scavare, mi sono specializzata in archeomicromorfologia – che consiste nello studio al microscopio di suoli e terreni antropici – ed in analisi del rischio archeologico. In quanto professionista ho lavorato in ambiti di ogni genere dal paleolitico al postmedioevo, ma la maggior parte delle analisi micromorfologiche le ho eseguite su campioni provenienti da siti pre-protostorici. Ho partecipato ad alcune campagne di scavo nel Pakistan del sud con l’Università di Venezia e in Libia con l’Università di Roma La sapienza.

 

Il mestiere dell’archeologo, lo sapete, non è tutto rose e fiori: con gli ispettori di soprintendenza i rapporti sono sempre tesi e difficili, il professionista è spesso visto come una cazzuola attaccata ad un braccio, avida e priva di spessore scientifico; non è vero, naturalmente, alcuni miei colleghi sono ora funzionari o soprintendenti, altri lavorano in università; sono una minoranza comunque, considerando che siamo partiti in moltissimi. Non parliamo delle imprese edili con cui si ha a che fare, che ci vedono come il fumo negli occhi, che sono sempre pronte a gettare la croce dei ritardi sugli ‘scavi’ e che appena ti volti ti devastano ettari di abitato.

 

Che dire poi dei kilometri percorsi su macchine scassate e rumorose, di milioni di ore dormite in pensioni di infino ordine, in aule di scuole elementari, in palestre puzzolenti? E i pagamenti, che man mano che la crisi economica procedeva impiegavano più tempo ad arrivare, e giù telefonate di sollecito. Questo è un lavoro per giovani; più il tempo passava più io mi rendevo conto di essere stanca, di volere stare un po’ casa, e poi, la cosa più grave, non ce la facevo più a lavorare in cantieri di speculazione edilizia, in cui il cemento subentrava alla campagna o alle poche aree libere in città.

 

Nel 2003 ho tenuto un corso a contratto all’Università di Genova che ha avuto come argomento la geopedologia e la micromorfologia e agli studenti che lo frequentavano ho consigliato vivamente di intraprendere una carriera diversa o, comunque, di tenersi aperta un’altra porta. Alcuni mi hanno ascoltato.

 

Poi, nel 2004, dopo un mese di fila passato a non dormire, ho deciso: basta scavi, non ne posso veramente più. Ho aperto un piccolo negozio di modernariato e vintage nei vicoli di Genova, mantenendo solo l’attività di consulenza geoarcheologica. Ora mi sono spostata con l’attività in una bella strada turistica e devo dire che per fortuna ho approntato il piano B, perchè anno dopo anno, le richieste di analisi e di assistenza sono sempre meno e i pagamenti arrivano sempre più tardi o non arrivano.