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Ritorno al futuro (o dell’archeologia come intralcio)

“La Milano medievale sotterranea rischia di complicare l’operazione e rallentare i lavori. Il passato che blocca il futuro”

 

Il passato che blocca il futuro. Questo siamo.

 

Un rischio, ecco a cosa è ridotto il nostro patrimonio storico-culturale. Non un’opportunità, piuttosto un concetto semanticamente opposto.

 

Siamo qui, Italia, 1924.

 

Ah no, 2014.

 

Eppure a leggere le esternazioni del giornalista del Corriere della Sera  sembra di tornare indietro di decenni, quando l’archeologia era sterro e mera “scoperta” di tesori. Tutto qui. Non stratigrafia, nè tutela e valorizzazione, non studio e ricerca, ma ostacolo, forse, di tanto in tanto, celebrazione magnificente della scoperta. E se ancora si incontra qualche nostalgico di quel modo di scavare (una volta un funzionario della Soprintendenza di Roma ha confessato ammiccante: “eh sì che negli anni ’30 sapevano scavare”), noi, tutti gli altri, pensavamo di esserci lasciati alle spalle questo modo di concepire l’archeologia, di aver raggiunto una nuova consapevolezza del nostro patrimonio culturale e del ruolo sociale che gli archeologi rivendicano e devono avere.

 

Evidentemente ci sbagliavamo.

 

Dobbiamo ancora fare amaramente i conti con la retorica degli sventramenti, del progresso a tutti i costi, con quello stesso modus operandi che ha distrutto interi quartieri e testimonianze del passato che nessuno ci restituirà più, che nessuno potrà visitare, conoscere, amare. Non torneranno più.

 

Basta quindi il rinvenimento di una muratura e si affaccia di nuovo pericolosamente l’idea che l’archeologia è un intralcio.

 

Che poi archeologia. Siamo sicuri che di archeologia stiamo parlando?

 

Perché se è così, noi ci eravamo fatti un’altra idea. Perché noi pensavamo che quello che noi archeologi “tiriamo fuori” dal sottosuolo non è nostro, ma appartiene alla collettività, proprio come i tubi del teleriscaldamento di piazza Duomo.

 

La Milano Medievale non è degli archeologi che sono egoisti e odiano il progresso, ma è patrimonio di tutti, da conoscere e condividere.

 

Siamo sicuri di volerne fare a meno?

 

Siamo sicuri di poterne fare a meno?

 

Scrivere che “il passato blocca il futuro” significa due cose. Da una parte si sta attaccando pesantemente una categoria già bistrattata come quella degli archeologi italiani (e non è vittimismo, leggere per credere ), dall’altra questo è un attacco bello e buono al significato stesso di “cultura”.

 

Perché, caro giornalista del Corriere della Sera, archeologia non vuol dire ricordare o insegnare alla gente quale imperatore ha fatto costruire la Basilica di San Paolo o l’Arco degli Argentari, ma significa instillare nei cittadini la consapevolezza che ogni nuova scoperta sia un arricchimento, anche a prescindere da un’auspicabile valorizzazione turistica. Distruggere qualcosa del nostro passato, senza nemmeno documentarlo, è come cancellare interi rami del nostro albero genealogico.

 

Perché a conti fatti l’archeologia è un viaggio nel passato che altera il futuro. L’archeologia serve a comprendere, oltre che a conoscere il nostro passato, e tutte le operazioni che si devono compiere durante lo scavo (documentazione accurata di ciò che si rinviene e della natura delle stratificazioni che si asportano) servono a registrare ed in seguito a capire le informazioni che quelle poche, labili tracce del passato conservate sotto terra, ci forniscono.

 

Una volta un professore mi disse “Il passato è finito, è morto, è sepolto, e quello che rimane sono solo frammenti sparsi di quel mondo scomparso”.

 

Scavare di fretta o peggio distruggere e non scavare nel senso archeologico del termine (con metodo, cogliendo i segni del passaggio degli uomini, documentando passo passo quello che si fa), significa cancellare definitivamente un puzzle di cui non possediamo nemmeno tutti i pezzi.

 

E quel puzzle non solo è patrimonio comune, ma è parte di chi siamo, è il nostro album dei ricordi.

 

Se dimentichiamo o perdiamo il passato, diventiamo come Marty McFly, che per uno sventurato incidente quasi cancella dall’esistenza la sua famiglia.

 

La nostra famiglia, in questo caso, è la nostra collettività. Cancellando pezzi del nostro passato si rischia di non capire più chi siamo. È questo che vogliamo essere? Un paese che non ricorda più chi è?

 

Il passato non blocca il futuro.

 

La conoscenza consapevole e condivisa costituisce invece la fondazione stabile della nostra identità presente e futura.

 

*

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

Domenica Pate (@domenica_pate)

 

 

Tomba di Tarquinia - archeologia archeologi

Sand Creek ovvero Dell’esistenza e Necessità della Figura dell’Archeologo ~ di Paola Romi

Strana professione la nostra, strani i fenomeni che la attraversano, celebrano e tartassano. Siamo fieri e granitici nella nostre certezze. Siamo giusti, siamo scevri da interessi strettamente economici, siamo certi di lavorare per il bene comune.
I fieri ed alteri sacerdoti della Storia.

 

Questo è il prequel ovviamente, o forse la convinzione di qualche fortunato.

 

La verità è un’altra, la raccontano in tanti sul web, ne abbiamo parlato spesso anche noi di PA. È una realtà fatta di grandissimi problemi pratici, economici e legislativi, eppure noi continuiamo a sentirci baciati dalla dea Fortuna perché, alla fine, facciamo un mestiere che ci piace. In fondo siamo comunque dei privilegiati.

 

Usciamo dalla metafora e torniamo al presente.

 

Tarquinia, settembre 2013: la missione dell’università di Torino scopre una tomba etrusca. Intatta. Due giorni fa notizia rimbalza su tutti i media, in Italia e all’estero ed una generazione di archeologi, con una punta di inevitabile invidia, constata che forse vale ancora la pena di fare questo lavoro.

 

Ieri 24 settembre. Esce un articolo del Corriere della Sera in cui, nel non esiguo spazio dedicato alla notizia, protagonista non è l’eccezionale scoperta, né il team che l’ha realizzata, ma lo sponsor, anzi uno degli sponsor, dello scavo: 53 anni, laureato in economia, docente universitario e AD di una florida impresa. Si parla di lui, della sua passione per l’archeologia, del suo passare le ferie, come tutta la famiglia, a scavare. Si descrivono le sue emozioni, si lascia a lui l’onore di entrare per primo nella tomba e sempre a lui l’onere di accennare ad “un’interpretazione” del contesto.

 

“Interpretazione”? No, scusate, ma gli archeologi? L’equipe della missione?

 

Non pervenuti.

 

Solo alla fine, quasi a chiosare con erudita leggerezza, si lascia la parola al professore che ha diretto lo scavo. Per una notazione da antichista, ovvio.

 

Constatato che forse persino Schliemann e Carter impallidirebbero davanti a tale visione dell’archeologia, quello che mi chiedo è come mai questo accade, perché, se una testata nazionale dà quel taglio all’articolo, se un non professionista entra per primo in una tomba inviolata, se la nostra figura professionale sembra non avere nessun valore ontologico, un motivo ci deve essere.

 

E chissà, magari questo è il prezzo da pagare nel non avere un ben definito approccio alle sponsorizzazioni: sì, no, forse, ci piacciono, non ci piacciono. Il risultato di questa relazione incerta, anche quando scientificamente non nefasta come in questo caso, può anche essere questo: lo sponsor che sostituisce il professionista.

 

Non illudiamoci, però. Il liberale professor Benini è il meglio che ci possa capitare. Per il resto rimaniamo, ahimè, trasparenti, considerati sostituibili senza troppi danni da chi lavora a titolo gratuito.