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Convegno “Stati generali dell’archeologia. Un aggiornamento sul tema”. Intervista ad Alessandro De Rosa, presidente CNAP

Il 30 aprile si terrà a Sant’Agata dei Goti il Convegno “Stati generali dell’archeologia. Un aggiornamento sul tema”.

 

 

Uno degli argomenti all’ordine del giorno è quello del riconoscimento dei professionisti dei beni culturali. Oltre al neopresidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici Giuliano Volpe, interverranno rappresentanti delle Soprintendenze per i Beni Archeologici di Basilicata e Campania nonché delle associazioni di categoria ANA, FAP e CNAP.

 

 

In attesa di conoscere quali saranno i contenuti del documento che verrà redatto al termine dell’ incontro abbiamo parlato con Alessandro De Rosa, presidente della Confederazione Nazionale Archeologi Professionisti (CNAP), di quelle che saranno probabilmente, insieme alla riforma del MiBACT, le tematiche salienti della discussione.

 

 

Il mondo dei professionisti che operano nel settore dei beni culturali è piuttosto variegato e comprende diverse figure professionali (dai liberi professionisti ai dipendenti Mibact a titolari e dipendenti di imprese archeologiche), ognuna con specificità proprie e problemi differenti. Secondo te, pur in questa complessità del settore, qual è la problematica più urgente all’ordine del giorno?

 

 

Direi la definizione della figura professionale: requisiti, competenze, e ambiti di intervento, considerando che il riconoscimento si sta realizzando attraverso la Pdl362. Questo riguarda soprattutto i professionisti che operano al di fuori del ministero. Una definizione della figura professionale, garantita da una forte associazione professionale, tutelerebbe gli archeologi, sia dal punto di vista professionale che nei rapporti lavorativi. Questo avrebbe effetti positivi sull’intero contesto professionale e scientifico. Gli archeologi che operano sul campo sono l’avanguardia della tutela, operano secondo criteri scientifici, spesso in situazioni estreme. Migliorare le condizioni lavorative, avere delle tutele professionali equivarrebbe a tutelare il nostro patrimonio. Dunque avrebbe un positivo effetto sulla tutela dei beni archeologici del Paese. In questo senso la figura dell’archeologo acquisisce una dimensione pubblica notevole ed è paradossale che nel 2014 non esista un documento che ne delinei la figura professionale. Da qui dovrebbe nascere una forte coscienza di categoria e una maggiore e più importante collaborazione con i colleghi del MiBACT.

 

 

Negli ultimi tempi si è evidenziata una maggiore attenzione da parte delle diverse parti in campo (politica, associazioni professionali, mondo accademico, singoli professionisti) verso i problemi delle professioni culturali. Ad oggi però, al di là dell’approvazione alla Camera della pdl 362, non si sono visti ancora interventi decisivi per migliorare le condizioni lavorative dei professionisti del settore. Quali sono, secondo te, le battaglie da portare avanti oggi per noi professionisti? (es volontariato, codice appalti, norma Uni, etc.)

 

 

Una struttura che rappresenti la nostra professione risulta indispensabile, ovvero un’associazione di categoria. In questo, un grosso aiuto ci è stato fornito dalla legge 4/2013 sulle professioni non regolamentate da ordine od albo. Questa ne prevede la definizione attraverso una norma UNI, e associazioni di categoria che se ne facciano garanti. In tal senso la CNAP, insieme a CIA e FAP, sta perseguendo il percorso realizzando una norma UNI (che corrisponde alla definizione della professione e dei suoi ambiti di intervento) strutturata secondo i livelli dell’European Qualification Framework (EQF) in base a requisiti di titoli, competenze e abilità. Con una struttura del genere, definita secondo termini di legge, potremmo affrontare il gravoso problema dei contratti, la tutela professionale, interloquire col MiBACT per una maggiore capacità di intervento, col MIUR per integrare e aggiornare la formazione dei professionisti.

 

Sono contrario al volontariato, in particolare se utilizzato per sostituire i professionisti: l’archeologia è una scienza che richiede un’alta professionalità da parte di chi vi opera e questa va riconosciuta. Operiamo su beni culturali, beni pubblici, e la mia idea è che gli interventi sui beni archeologici debbano essere regolamentati diversamente, rispetto all’attuale codice dei contratti. Penso che quando si stanziano fondi per un’opera pubblica, una percentuale fissa, l’1-2%, debba essere destinata alle attività relative ai beni culturali, scavi, restauri, etc, senza la mannaia dei ribassi. In tal modo avremmo anche numerosi fondi da destinare alla tutela.
Oggi ci si trova spesso di fronte ad una bassissima qualità scientifica e a condizioni contrattuali al limite della dignità per chi opera: e le due cose sono strettamente interdipendenti.

 

 

È innegabile che ci siano tre anime da conciliare nell’archeologia italiana: università, ministero e professionisti. La quadratura del cerchio ti sembra più o meno vicina che in passato?

 

 

Rispetto al passato il ventaglio di archeologi delle tre anime aperte ad una conciliazione è molto più ampio. In questo ha aiutato il cambio generazionale che sta avvenendo nel MiBACT e nel MIUR. Tra i professionisti c’è stata sempre una chiara apertura in questo senso, anche se inficiata da una altissima “mortalità” professionale. Penso che i tempi siano maturi, anche perché c’è il rischio di perdere un’occasione quasi unica, agevolata da una classe di professionisti di altissima qualità, costituita dalle generazioni dei nati fra la seconda metà degli anni ’60 e gli anni ’70, operanti in tutti e tre i contesti. Dobbiamo impegnarci a ridurre i tempi, proprio per salvaguardare la nostra professionalità e la nostra esperienza.

 

 

Nota dolente: la formazione universitaria. I laureati o specializzati in discipline archeologiche hanno, a tuo parere, gli strumenti per entrare nel mondo del lavoro? Dove bisognerebbe intervenire? Cosa manca e cosa invece ci rende eccellenza?

 

 

Al momento, la formazione universitaria risulta piuttosto carente riguardo alla parte pratica. In particolare è poco formativa nel settore dell’archeologia pubblica, ovvero la parte preventiva, preliminare e di scavo d’emergenza. Purtroppo il contesto lavorativo richiede tempi e modi diversi. In questo l’università dovrebbe, a mio avviso, aprirsi ad una stretta collaborazione col mondo dei professionisti. Un esempio classico è la fase preliminare: far fare l’assistenza ad un giovane collega neolaureato senza esperienza significa mandarlo allo sbaraglio. Ritengo comunque che la formazione offerta dalle università italiane costituisca tuttora un’eccellenza, da integrare e rendere ancora più di qualità attraverso maggiore attività pratica, rispondente alle esigenze del mondo del lavoro: per esempio un contratto di apprendistato potrebbe integrare le fasi finali del percorso formativo.

 

 

Ultima domanda: chi può definirsi secondo te “archeologo”?

 

L’archeologo è un professionista, con un’adeguata formazione universitaria, integrata dall’esperienza acquisita, che opera sui beni culturali in maniera scientifica. Che abbia una forte cognizione del suo ruolo pubblico, perché i beni culturali sono beni comuni, perché indaga il passato e lo rende fruibile, stimolando e cementando il senso di appartenenza ad una comunità di tutti gli individui che vi appartengono.

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

Antonia Falcone (@antoniafalcone)