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Per comunicare l’archeologia NON serve un archeologo. Disse il CNR.

Per comunicare l’archeologia, secondo il CNR, che, ricordiamolo, è il Consiglio Nazionale delle Ricerche e dunque dovrebbe di fatto essere un’autorità in fatto di ricerca scientifica, NON serve un archeologo.

 

No, avete capito bene. Serve un laureato in Scienze dello Spettacolo e Comunicazione Multimediale o in Scienze dello Spettacolo e della produzione multimediale o in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo.

 

Uno cioè che ha studiato cinema, teatro, comunicazione multimediale ma che dubitiamo abbia mai maneggiato una trowel. Sì, la trowel, quell’attrezzo che definisce un archeologo, che lo aiuta a distinguere e asportare gli strati di terra.

 

Come dire che la comunicazione scientifica della fisica quantistica posso farla io che sono laureata in Metodologia della ricerca archeologica. Fatemelo fare, vi prego, vi stupirò con effetti speciali che il tunnel dei neutrini di gelminiana memoria sembrerà una trovata meritevole della prima pagina di Nature.

 

Qui non stiamo parlando di ufficio stampa o di social media management. No, qui parliamo di comunicazione scientifica (Attività di comunicazione e divulgazione della ricerca scientifica nel campo dell’archeologia urbana e attuazione di strategie di audience development e public engagement, condotte attraverso la gestione delle informazioni e delle relazioni con gli stakeholders e finalizzate a consolidare i rapporti con la città), una cosa seria per un progetto ancora più specialistico, se vogliamo: “ Context – Cultura materiale, contesti archeologici e paesaggi culturali dell’area mediterranea”. E l’unico requisito richiesto che abbia a che fare con l’archeologia è aver lavorato due anni nel settore della comunicazione e della divulgazione della ricerca scientifica nel campo dell’archeologia urbana.

 

Cosa che solleva ancora più ambiguità su questo bando: quante saranno le persone che rispondono esattamente a questi criteri? 

Sarebbe bastato richiedere un laureato in discipline umanistiche con un curriculum di comprovata esperienza per non sollevare dubbi fortissimi sulla trasparenza di questo bando pubblico e per aprire le porte anche agli archeologi, che invece così sono totalmente tagliati fuori. Un’assurdità.

 

Possiamo veramente accettare che a comunicare l’archeologia urbana e le sue complesse dinamiche che soltanto chi ci lavora tutti i santi giorni conosce, possa essere un NON archeologo?

 

Ci siamo lasciati scippare musei e scavi per darli in mano ai volontari, ora ci lasciamo defraudare anche della comunicazione del nostro mestiere.

 

E prima che qualcuno possa dire che non esistono figure di archeologi divulgatori la risposta è : esistono! Esistono fin da prima che la comunicazione archeologica diventasse una roba cool. I nostri prodi sono fuori dall’ambito accademico che ha quasi sempre guardato con sospetto chi osava divulgare l’archeologia al pubblico.

 

Evidentemente l’intellighenzia del mondo archeologico preferisce accontentarsi di cooptare, negare le competenze e affidare una disciplina così delicata come la ricerca archeologica a chi su un cantiere non ha messo mai piede, lamentandosi poi contestualmente della chiusura dei corsi di studio in beni culturali. Il pianto del coccodrillo.

 

Ora se fossimo in un paese serio quel bando andrebbe ritirato, andrebbero avviati corsi di comunicazione e divulgazione scientifica dell’archeologia nelle università chiamando gente competente a fare da docenti. Solo così, in un futuro non tanto lontano, forse potremmo avere più laureati in discipline archeologiche con una formazione ibrida, non costretti a lavorare al call center o al McDonald.

In caso contrario i prossimi comunicatori di archeologia urbana saranno gli umarell con una solida formazione dietro le transenne di un cantiere urbano.

 

 

Qui il link al bando

 

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)