Croce e delizia dell’archeologia da strada o da cantiere è quella di rimanere esposti alle intemperie e allo smog in qualunque periodo dell’anno.
E quindi, care amiche – voce Wanna Marchi on – o amici (no, lo schwa non lo uso, non mi sento ancora pronta), proviamo a fare una lista dei complementi di bellezza dei quali proprio non possiamo fare a meno.
Cosa non può mancare nello zaino di un’archeologa da strada per evitare di ritrovarsi con la pelle incartapecorita già a 30 anni?
Andiamo con ordine:
Crema idratante viso: quella serve per forza, anche se invece di essere archeologhe siete bancarie (e siete finite chissà per quale motivo su questo sito. Ah sì ecco, volevate fare le archeologhe da piccole, beccate!). Dicevamo: se non volete arrivare a 40 anni, guardarvi allo specchio e vedere che sul viso avete le stesse fenditure del cretto di Burri o le stesse crepe dello strato di argilla che si secca sotto il sole cocente di mezzogiorno, la crema idratante per il viso è il MUST HAVE, come dicono le beauty blogger brave nelle vesti di Mastrota. Quindi, ecco, regolatevi. In commercio ne esistono di tantissimi tipi, da quelle chimiche a quelle superbio che dentro non hanno niente se non l’acqua, da quelle per i povery come me a quelle ultra costose che dovete vendervi un rene anche solo per sbirciarle in vetrina (Sisley, dico a te, sì proprio a te!).
Crema idratante mani: ditemi che non sono l’unica a gennaio a ritrovarmi con le mani piagate da screpolature che poi si aprono come cozze facendo fuoriuscire sangue che manco nel miglior splatter tarantiniano. Il dramma è che con quelle mani noi ci lavoriamo e impugnare la trowel grondando sangue può rivelarsi un problemino. Dunque: crema idratante come se non ci fosse un domani, profumata, senza profumo, decidete voi, ma non lesinate sulla quantità.
Consigliato da Antonia: Dermovitamina Ragadi Geloni Crema 75 ml, 8,5 euro e vi guarisce da qualunque piaga. Nessuna affiliazione, solo esperienza e amore per il prossimo.
Balsamo labbra (o burro cacao come dicevamo negli anni ’90): questo per me è abbastanza un dramma, nel senso che ancora non sono riuscita a trovare un balsamo labbra che protegga davvero le labbra. Ho sempre la sensazione che dopo aver messo chili di burro cacao le mie labbra diventino più secche. Quindi se avete qualche dritta, segnalatemi qualche prodotto nei commenti. Rimane anche in questo caso l’indispensabilità della protezione di questa parte del viso che spesso rimane l’unica scoperta quando fa freddo (cappello, sciarpa, occhiali, scalda collo, etc etc).
Protezione solare: non mi fate sentire che in estate in cantiere non vi cospargete di protezione solare, sennò vi vengo a prendere e vi ci butto io in una vasca piena di SPF 50. A parte che anche in inverno bisognerebbe usare una protezione solare o quantomeno una crema idratante (vedi supra) con filtro solare, in estate è assolutamente indispensabile proteggere la pelle esposta per 8 ore ai raggi solari. Le migliori provate finora sono quelle a marchio Caudalie, in particolare questa per il viso io la trovo magica. Poi, è a base di vino: cosa volere di più?
Hair care: la polvere, la terra e lo smog spesso trasformano la chioma più fluente in un ammasso di paglia, spenta e secca. E quindi vai di shampoo ogni giorno – soprattutto in estate. Lavare troppo spesso i capelli non fa bene, lo saprete di sicuro, ma anche andare a letto con zolle di terra tra i capelli non è il massimo. E dunque arrivo in vostro soccorso con qualche consiglio utile: prediligete prodotti bio per i capelli (per esperienza posso dire che meno chimica c’è in shampoo e balsamo e più i capelli diventano forti, luminosi e morbidi) e per il lavaggio sperimentate il cowash (qui qualche info e alcuni prodotti utili e naturali), poi una maschera ogni tanto non fa male.
Gel/Mousse detergenti: lo ammetto, sono una maniaca della skin care in genere e della detersione in particolare. Appena torno dal cantiere, la prima cosa che faccio è lavare accuratamente il viso, dove nel frattempo si sono sedimentati gli stessi strati che ho scavato, facendo nascere nuove forme di vita aliena (vedi che alla fine gli alieni c’entrano sempre?!). Scegliete il detergente che si adatta meglio alla vostra pelle (secca, normale, mista, grassa) e usatelo senza paura. Se proprio devo dirla tutta io preferisco i detergenti da farmacia perché sono più delicati e meno aggressivi sulla pelle, però fate vobis. Basta che lo fate.
Extra Bonus: quando fa caldo, state schiumando sotto il sole, odiate tutti e l’Armageddon vi sembra vicino, una spruzzata di acqua termale vi aiuterà a respirare e a odiare un po’ meno questo lavoro.
Se avete altri consigli da elargire, lo spazio per i commenti non manca!
Antonia Falcone
Antonia
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/1280px-Carthage_museum_mosaic_1.jpg8201280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2022-10-13 18:15:562022-10-14 11:09:57La beauty routine dell'archeologa: pochi consigli ma buoni
C’è un palazzo che si staglia imponente e signorile lungo il costone del Monte Faito, guardando dall’alto la distesa di case e strade di una cittadina vesuviana, un tempo nota come Stabiae, adagiata a sud del Golfo di Napoli.
Dalla terrazza di questo edificio, che spicca per il colore rosso della sua facciata, si gode una delle viste più suggestive del Golfo: lo sguardo si allarga a perdita d’occhio tra il blu del mare, il verde delle fertili terre vesuviane e il bianco dei paesi che uno dopo l’altro si susseguono ininterrottamente, fino ad abbracciare in lontananza il profilo delle isole.
E mentre con gli occhi ci si riempie l’animo del panorama di uno dei luoghi più belli d’Italia, alle spalle si percepisce distintamente l’aria umida che viene dai boschi del monte, inglobati all’interno del parco palatino, tra sentieri, sedili in marmo e fontane, nell’aspetto tipico del giardino all’italiana.
Siamo nella Reggia di Quisisana a Castellammare di Stabia, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, forse in età medievale, ma la cui acme si colloca sotto la dinastia borbonica, quando con gli interventi condotti da re Ferdinando IV di Borbone nella seconda metà del XVIII secolo il complesso assunse l’aspetto di palazzo per la caccia e la villeggiatura.
Diventa facile immaginare nobildonne e nobiluomini aggirarsi tra palme, pini e castagni, durante l’epoca del Grand Tour: la Reggia di Quisisana infatti divenne una tappa obbligata per i rampolli delle famiglie europee che passavano per Castellammare di Stabia, ospiti dei Borbone.
A questo periodo di splendore e agio successe purtroppo l’abbandono, a partire dagli anni sessanta del Novecento, con ulteriori danneggiamenti dovuti al terremoto del 1980. Ma un tesoro architettonico di tal fatta non poteva rimanere nell’incuria a lungo e così un radicale restauro, conclusosi nel 2009, ha riportato la Reggia borbonica agli antichi fasti.
La nuova vita della Reggia di Quisisana è iniziata definitivamente il 24 settembre 2020 con l’inaugurazione del Museo Archeologico di Stabiae, dedicato all’esposizione dei prestigiosi reperti provenienti dal territorio stabiano.
L’operazione di riconversione del palazzo a spazio archeologico è stata curata e promossa dal Parco Archeologico di Pompei con l’organizzazione di Electa, per restituire al patrimonio italiano un edificio simbolo della storia di Castellammare.
La caduta e la rinascita sembrano essere una costante nelle vicende storiche di Castellamare di Stabia: nel corso della sua storia millenaria sono stati diversi i momenti in cui si è trasformata da località agiata, prediletta dai nobili per il ristoro del corpo e dello spirito, a simbolo di decadimento e declino, riscattato poi da una nuova rifioritura.
Facevo queste riflessioni mentre, a bordo della circumvesuviana in transito verso Castellammare, assistevo al campionario di umanità che popola il mitico trenino campano: dai ragazzi vocianti ai villeggianti inglesi diretti a Sorrento che sembrano usciti direttamente dal Grand Tour passando per i volti pieni di aspettative dei turisti che sbarcano a Pompei. Un catalogo completo di chi popola temporaneamente o quotidianamente la piana vesuviana.
E immaginavo come doveva svolgersi la vita qui millenni fa, quando Castellammare era Stabiae e invece dei condomini bianchi di mattoni e cemento, il panorama era punteggiato da ville signorili che nulla avevano da invidiare alle domus pompeiane o alle villae rurali del suburbio romano.
Proprio camminando tra gli spazi del nuovo museo di Stabiae, sala dopo sala, ho ripercorso, con un po’ di fantasia e anche un po’ di nozioni archeologiche, il catalogo delle ville d’otium, dove i nobili del tempo trascorrevano le loro pigre giornate tra le indicazioni di lavoro da dare a fattori e pastori che lavoravano nella pars rustica dei palazzi e le conversazioni con ospiti e clientes, circondati da affreschi e mosaici, magari sorseggiando del buon Falerno.
Credits: Mina Grasso
Crdedits: Mina Grasso
Affreschi provenienti dalle ville stabiane
Quanto erano grandi le ville stabiane?
Beh, basti pensare che la cd Villa di San Marco si estendeva per circa 11.000 mq in posizione panoramica, rivolta verso il mare sul ciglio del pianoro di Varano. Non conosciamo purtroppo i nomi dei proprietari della dimora signorile e la denominazione attuale deriva da una cappella esistente in zona nel ‘700, ma certamente dovevano essere di classe agiata per potersi permettere una simile ricchezza architettonica e di arredi. La villa si sviluppa su diversi livelli attorno a due ampi peristili circondati da una grande piscina, da sale di rappresentanza finemente affrescate e da ambienti residenziali. Nella dimora non mancava un quartiere termale per la cura del corpo e un imponente atrio tetrastilo.
Come in tutte le ville anche qui era presente il quartiere produttivo con ambienti di lavoro, ambienti di servizio, vani per la conservazione e la lavorazione delle derrate alimentari. Non bisogna infatti dimenticare che fulcro dell’economia delle ville erano l’agricoltura e l’allevamento.
Soffitto con planisfero. Stabia, villa San Marco, I secolo d.C.
Una delle ville più conosciute del territorio stabiano è senza dubbio la cd Villa Arianna, così denominata dall’affresco raffigurante Arianna abbandonata da Teseo a Nasso, rinvenuto sulla parete di uno dei triclini. I suoi affreschi sono universalmente noti, come la celeberrima “Flora” oggi conservata al Mann.
Le sale della Reggia di Quisisana dedicate a Villa Arianna raccolgono sia le variopinte decorazioni parietali staccate durante le esplorazioni borboniche, sia i materiali raccolti nella pars rustica della residenza. La villa, una delle più antiche sorte sul pianoro di Varano, attualmente è stata riportata in luce per circa 3.000 metri quadrati, corrispondenti a circa un quinto della sua estensione originaria.
Villa Arianna si caratterizza per la sua ricca articolazione architettonica: rampe e gallerie collegano le diverse ali della dimora signorile, organizzata in quattro nuclei databili tra l’età tardo repubblicana e l’età flavia: atrii, terme, triclinii, una palestra, ambienti di servizio e cubicula.
La dimora restituisce l’immagine precisa di un complesso destinato non solo al piacere intellettuale ma anche al lavoro. Uno dei pezzi forti dell’esposizione è infatti il carro a quattro ruote utilizzato per il trasporto delle merci prodotte nel quartiere rustico: molto diffusa era la coltura di vite e olivo, così come sui vicini monti Lattari era praticata la pastorizia. Il rinvenimento delle numerose anfore esposte nel museo conferma la vocazione fortemente produttiva delle ville e la vivace economia agropastorale del territorio.
Credits: Antonia Falcone
Credits: Antonia Falcone
Villa Arianna, Stabia
Si stima che nell’antica Stabiae ci fossero decine di ville, delle quali solo una parte è stata messa in luce anche grazie al lavoro meticoloso di Libero D’Orsi (1888 – 1977) che dedicò gran parte della sua attività professionale agli scavi archeologici, allestendo nel centro cittadino anche l’Antiquarium che mostrava i reperti dei luoghi.
L’esposizione presenta infatti i reperti di altre residenze come Villa del Pastore, il cd Secondo Complesso, Villa del Petraro e Villa di Carmiano (con la ricostruzione di uno degli ambienti) per dare l’idea di quanto dovesse essere ricco il territorio stabiano.
Credits: Mina Grasso
Credits: Mina Grasso
Passeggiare per il nuovo Museo Archeologico di Stabiae all’interno della Reggia di Quisisana è un viaggio nella storia di questo territorio, circondati dai rossi e dai gialli delle pareti che si compenetrano con i colori degli affreschi, stupefacentiper la loro brillantezza arrivata intatta fino ai nostri giorni.
E se è vero, come mi ha raccontato il tassista che mi ha riportata a valle, che il nome della Reggia deriva dall’espressione “Quisisana” pronunciata dal re borbonico mentre oziava nel giardino della sua residenza riposando sotto un albero per guarire dai suoi malanni, mi piace pensare che con un nuovo museo archeologico a Castellammare qui-si-sana non solo il corpo ma anche lo spirito.
Visitare la reggia borbonica di Quisisana a Castellammare di Stabia merita. Veramente stupenda…. io sono del posto e mi sono molto emozionata. Ho trovato una realtà museale meravigliosa, sia dal punto di vista culturale che paesaggistico.
La presentazione delle sale è concisa e chiara, i reperti sono ben sistemati nelle teche, gli affreschi sono spettacolari.
Dalle sale si vede il golfo di Castellammare con il Vesuvio, ma l’occhio si spinge fino a cercare gli elementi noti dei paesi lungo la costa o le pendici non solo del Vesuvio ma anche dei monti circostanti. Si vedono bene: lo scoglio di Rovigliano, il campanile di Pompei, i silos di torre annunziata , il convento benedettino di colle Sant’Alfonso a Torre del Greco, il Museo di Pietrarsa, il convento dei Camaldoli.
Il giardino, anch’esso ” finestra” sul Golfo e sul Vesuvio, lasciato a bosco, dove sembra mancare l’opera dei giardinieri borbonici, rimanda a passeggiate rilassanti, ad immagini bucoliche, a dame e bimbi intenti nei loro passatempi.
Ho vissuto emozioni forti, ritornare ai miei avi mi ha accarezzato l’anima….
Nunziatina Ranieri
E ora un po’ di informazioni pratiche:
COME ARRIVARE
Partiamo dalla nota dolente.
Se siete in auto è semplice:
Autostrada A3 Napoli-Salerno (uscita Castellammare di Stabia), imboccare SS145 per 8,5 km (seconda uscita di Castellammare di Stabia), proseguire dritto su viale Europa, viale delle Puglie e via Panoramica. Girare a sinistra su viale Ippocastani (salita Quisisana).
Se siete con i mezzi è un po’ meno semplice, ma non impossibile:
Circumvesuviana Napoli-Sorrento (fermata Castellammare di Stabia), dirigersi verso Piazza Giovanni XXIII + Linea 5 (fermata Salita Quisisana) e poi qualche minuto a piedi verso l’ingresso della Reggia.
Oppure a piedi, sono circa 25 minuti, ma in salita.
Oppure in taxi dalla stazione.
BIGLIETTI
intero: € 6.00 (+ € 1.50 su prevendita online)
ridotto: € 2.00 (+ € 1.50 su prevendita online)
Gratuità come da normativa.
ATTENZIONE: Il biglietto di ingresso è acquistabile al momento solo sul sito www.ticketone.it, unico rivenditore online autorizzato. La biglietteria fisica nel museo ancora non è pronta.
CATALOGO
Il catalogo del museo è a cura di Massimo Osanna, Francesco Muscolino, Luana Toniolo ed è acquistabile a partire dai prossimi giorni sul sito di Electa Editore a questo link .
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/foto-Quisisana-2-2-scaled.jpg18092560Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-10-04 21:03:032020-10-20 16:53:03Reggia di Quisisana, prezioso scrigno dei tesori dell’antica Stabiae
Che i più maliziosi leggeranno F**K e che, invece, è più semplicemente l’acronimo di Frequently Asked Questions, cioè le tante domande che periodicamente mi vengono rivolte a proposito di archeologia e archeologi.
In particolare, se molti aspiranti giovani archeologi mi contattano in DM su Instagram per chiedermi le cose più svariate attinenti la nostra professione, capita che tra i commenti di Facebook o tra i messaggi privati, le richieste di chiarimenti mi siano rivolte da semplici appassionati e curiosi.
È per questo motivo che ho pensato di inaugurare una nuova rubrica, dedicata proprio alle vostre FAQ.
COME SI DIVENTA ARCHEOLOGI?
Iniziamo da un grande classico: qual è il cursus honorum al termine del quale possiamo definirci archeologi a tutti gli effetti?
Consul, praetor, aedilis, quaestor, tribunus plebis, tribunus militum…
Ehm non questo.
Laurea triennale, laurea magistrale, specializzazione, dottorato, post dottorato.
Da un punto di vista strettamente formativo, la carriera di un archeologo comporta diversi anni di studio che possono culminare in uno (o più) assegni di ricerca, genericamente afferenti al titolo di post-doc. L’eventualità di passare svariati anni in giro per il mondo a procacciarsi borse di studio in prestigiosi enti di ricerca, attiene alla carriera di “ricercatore” che molti archeologi intraprendono.
Ma se non tutti gli archeologi sono ricercatori, tutti i ricercatori in discipline archeologiche sono sicuramente archeologi.
Sono infatti diversi gli ambiti professionali in cui può operare un archeologo e quindi diverse le carriere (ma di questo ci occuperemo in un’altra delle nostre FAQ).
In ogni caso, a rigor di legge, si può definire archeologo chi ha:
Laurea triennale in discipline archeologiche, Classe 13 ordinamento DM 509/99 o classe L1 D.M. 270/04 con indirizzo archeologico con un numero di crediti minimi nelle discipline storico-archeologiche corrispondenti a 60 CFU, più almeno 12 mesi, anche non continuativi, di documentata esperienza professionale, nell’ambito delle attività caratterizzanti il profilo.
Questa la definizione di Archeologo di Terza Fascia, secondo la normativa sancita dal Decreto Ministeriale 244/2019 in attuazione dell’articolo 9bis del D. lgs. 42/2004 (Codice del Beni Culturali) così come modificato dalla L. 110/2014.
Detta in modo semplice: gli interventi sui beni archeologici sono affidati alla responsabilità e all’attuazione di archeologi, come definiti sopra.
Senza triennale e 12 mesi di esperienza professionale non si potrebbe lavorare come archeologi.
La legge ha individuato N. 3 fasce di archeologi, con mansioni e responsabilità diverse e progressive, che potete consultare qui.
Ne consegue che più si studia maggiori sono le responsabilità così come le possibilità lavorative: per esempio soltanto gli archeologi con specializzazione o dottorato sono abilitati alla redazione del documento di valutazione archeologica nel progetto preliminare di opera pubblica (VIARCH).
A questo proposito vi segnalo che il portale http://www.archeologiapreventiva.beniculturali.it/ – dove era possibile iscriversi come operatori abilitati – è in dismissione come recita l’annuncio in homepage
“Il portale non verrà più aggiornato e sarà progressivamente dismesso. Tutti gli archeologi interessati, anche se già iscritti, devono effettuare una nuova registrazione e l’invio della domanda di iscrizione sul portale “professionisti dei beni culturali”. I committenti e le stazioni appaltanti interessati a verificare nominativi e qualifiche degli archeologi ai sensi della del D.Lgs. 163/2006-D.Lgs. 50/2016 art. 25/ sono pregati di fare riferimento al portale “professionisti dei beni culturali”; non verranno infatti effettuate nuove iscrizioni per la consultazione. Si ricorda che la iscrizione agli elenchi non è obbligatoria né può venire richiesta come tale; al contrario, per esercitare le attività previste dal DM. 244/2019 e da tutte le normative da esso recepite, è sufficiente il possesso dei requisiti, che possono venire autonomamente presentati al committente dal professionista”.
E quindi?
Come si diventa archeologi? Si prende una laurea e si fa esperienza (per iniziare).
Non basta dunque aver scavato nel giardino di casa della nonna per piantare un cactus né aver letto tre-libri-tre su “archeologia, misteri, alieni e cose assurde che però fanno vendere copie e fare soldi” (no, la categoria – purtroppo – non la trovate proprio scritta così sugli scaffali delle librerie) per potersi definire archeologi e tanto meno per poter intervenire sui beni archeologici.
Quello dell’archeologo è un lavoro serio, fatto di competenze molteplici e diversificate acquisite in anni di studio ed esperienza sui cantieri didattici e/o nei laboratori universitari.
E se anche a voi è capitato di dover rispondere all’obiezione del – fastidiosissimo – passante di turno “eh, ma tanto voi state in cantiere SOLO a guardare la ruspa”, sciorinategli tutta la lista degli imperatori romani (soprattutto quelli del Basso Impero) o tutte le facies della ceramica dell’età del bronzo con i dettagli morfologici delle forme ceramiche decorate a impressione o i diversi centri di produzione dell’invetriata medievale, chiedendogli cosa ne pensa del nuovo metodo di datazione della ceramica messo a punto dall’Università di Bristol che utilizza le più recenti tecnologie di spettroscopia, di risonanza magnetica nucleare ad alta risoluzione e di spettrometria di massa per isolare gli acidi grassi.
La sua faccia sarà questa
E il vostro compiacimento impagabile.
Antonia Falcone
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/pokes-fun-at-1164459_1280.jpg8531280Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2020-09-09 15:04:162020-09-09 15:46:22FAQ ARCHAEOLOGY: come si diventa archeologi?
Non avevo mai visitato finora un museo archeologico che riuscisse a parlare a tutti senza essere solamente una mera esposizione di materiali, ma un racconto. E invece il Museo delle Navi Antiche di Pisa, non solo narra delle storie, ma le rende anche comprensibili.
Qui di seguito vi spiego perché visitare il Museo delle Navi Antiche di Pisa in 5 rapidi punti.
Non è noioso
Shhhh, tra di noi possiamo confessarcelo.
Molti musei archeologici sono oggettivamente noiosi: una serie interminabile di vetrine con oggetti tutti uguali, didascalie piccolissime e spesso incomprensibili. Per non parlare dei pannelli cosiddetti didattici che con le loro righe fitte fitte di parole in carattere 8 attraggono un visitatore quasi quanto un film giapponese muto in b/n con i sottotitoli in lingua chalcatongo mixtec.
Per questo motivo trovarmi di fronte a un museo moderno come quello delle Navi Antiche mi ha spiazzata, sia come archeologa che come utente, richiamando alla mia memoria cinematografica (per restare in tema) il Gene Wilder di Frankenstein Junior.
L’allestimento multimediale, innovativo, suggestivo (del quale vi parlo tra poco), nonché l’incantevole cornice delle maestose sale e campate degli Arsenali Medicei, sul lungarno pisano, nelle quali sono esposti i materiali archeologici, fanno sì che passeggiare tra le sale del museo sia un’esperienza piacevole e non claustrofobica. Gli ampi spazi permettono di soffermarsi sugli oggetti più interessanti e la distribuzione dei reperti per una volta non accatastati, ma ben ripartiti tra le vetrine, consente di prendere fiato tra una teca e l’altra.
L’apparato didattico
Il punto di forza del Museo è senz’altro l’apparato didattico, che è INCREDIBILE
Il Museo delle Navi Antiche di Pisa ha chiara una missione: non rivolgersi solo agli addetti ai lavori ma anche ad un pubblico più generalista e porta a termine questo compito in maniera esemplare attraverso una pannellistica da manuale.
Volete qualche esempio?
Le mappe di distribuzione. Marmi, classi ceramiche, anfore: ad ognuna di queste categorie di oggetti trovate nel corso dello scavo è dedicata una mappa che indica la loro provenienza. Un approccio comunicativo di questo tipo fa felici sia gli studiosi (o studenti) appagando il loro senso di appartenenza alla categoria e facendo loro “sbrilluccicare” gli occhi di fronte alle frecce che collegano ogni tipo di anfora alla provincia di origine e soprattutto aiuta i non addetti ai lavori a capire quali e quanti fossero i traffici commerciali che interessavano il Mediterraneo nel passato.
Ph. Credit: Antonia Falcone
Ph. Credit: Antonia Falcone
La ricostruzione di una cucina navale che visualizza immediatamente come doveva essere fatto questo ambiente di bordo. Anche in questo caso si aiutano i non esperti (tra cui la sottoscritta per esempio che non si è mai occupata di archeologia navale) a immergersi nella vita quotidiana di età romana.
Ph. Credit: Antonia Falcone
La lunga vetrina con TUTTE le classi di materiali che si rinvengono durante uno scavo: non solo ceramica, ma anche vetri, marmi, intonaco, metalli,ossa fino ad arrivare in una suggestiva sequenza crono-tipologica ai calcinacci moderni, al cemento e alle bottiglie di birra. Che dire? Occhi a cuore!
La parete di anfore
E a proposito di didattica non si può rimanere indifferenti di fronte alla super mega parete di anfore nella Sala VI dedicata ai commerci, perché come recita il sito web del Museo “si viaggia per mare anche e soprattutto per commercio: l’oggetto principe sono le anfore da trasporto, i contenitori di quasi tutti i prodotti che si vendevano nel mondo antico; diffusione, importazione ed esportazione di merci particolari: beni di lusso, marmi, ceramica fine da tavola.”
E su questa parete ci sono tutte le anfore conosciute a Pisa su un’unica parete: forme, contenuti e provenienze.
La parete che ogni archeologo vorrebbe avere a casa sua, perché consente subito l’attribuzione cronologica e tipologica delle anfore di età romana, una sorta di Tavola di Dressel sul muro.
Ph. Credit: Antonia Falcone
La suggestione di questa sala del museo è destinata a rimanere nella memoria di chiunque visiti il Museo delle Navi Antiche di Pisa!
L’allestimento
A cosa serve il Museo delle Navi Antiche di Pisa?
Ad esporre le navi antiche e i reperti scoperte nel 1998 durante i lavori per la costruzione della sede del nuovo Sistema di Comando e Controllo (SSC) presso la stazione di Pisa San Rossore. A ben 6 metri di profondità cominciarono ad emergere diversi relitti navali in straordinario stato di conservazione: ci si trovava di fronte al punto di incrocio di un canale della centuriazione pisana con il corso del fiume Serchio, dove sono affondate almeno trenta imbarcazioni a causa delle alluvioni.
Come raccontare una storia così eccezionale e come esporre reperti rarissimi come intere imbarcazioni?
Con quasi 5000 metri quadri di superficie espositiva e 47 sezioni divise in 8 aree tematiche nelle quali sono esposte ben sette imbarcazioni di epoca romana, databili tra il III secolo a.C. e il VII secolo d.C. e circa 800 reperti per un museo che racconta un millennio di commerci e marinai, rotte e naufragi, navigazioni, vita di bordo e della storia della città di Pisa.
La progettazione dell‘exhibition design si deve a Maurizio di Puolo e Anna Ranghi, il tutto sotto la direzione scientifica di Andrea Camilli, responsabile di progetto per la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Pisa e Livorno.
Il progetto espositivo vi stupirà: grandi spazi progettati per essere vissuti in pieno dal visitatore che può aggirarsi tra le diverse sale senza un percorso costrittivo, ma seguendo le proprie suggestioni e istinti.
Istinto che per esempio mi ha portata nella sala VII all’interno di un piccolo planetario dove assistere ad un filmato che racconta come si orientavano in antico con le stelle in mare aperto. Questa sala riserva però un’altra sorpresa incredibile: un tabellone elettronico delle partenze e degli arrivi, uguale a quelli che visioniamo in stazione o in aeroporto, dove però sono riportati, rigorosamente in numeri romani, i giorni di navigazione necessari a raggiungere da Pisa i principali porti del Mediterraneo.
Ph. Credit: Antonia Falcone
Non mancano le sezioni più tradizionali con vetrine che contengono gli oggetti della vita di bordo: dall’abbigliamento ai bagagli, fino alle abitudini alimentari, ai culti e alle superstizioni.
Questa vetrina
… che racconta la Professione dell’Archeologo.
Ph. Credit: Antonia Falcone
Chiudo questa lunga recensione del Museo delle Navi Antiche di Pisa con una dritta: se vi trovate a Pisa e provincia oggi sabato 30 novembre sappiate che il quotidiano «La Nazione» regalerà ai propri lettori Il libro «Le navi antiche di Pisa. Guida all’esposizione», edito da Pacini, in abbinamento gratuito con il giornale!
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_20190915_175200.jpg34564608Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2019-11-30 10:50:362020-05-14 11:18:335 validi motivi per visitare il Museo delle Navi Antiche di Pisa
Viaggiare in Puglia significa riconoscere ovunque i segni stratificati del suo passato millenario: dalle fortificazioni megalitiche di Altamura, Manduria, Conversano, Muro Leccese o Carovigno costruite dalle popolazioni indigene preromane, passando per le meravigliose creazioni dei ceramografi magno greci di Taranto per arrivare infine alle diffuse tracce del medioevo, visibili in quasi ogni borgo o città del tacco d’Italia.
La Puglia infatti non è solo terra di mare cristallino, buon cibo e sole accecante, ma è anche terra di chiese e castelli che definiscono ancora oggi lo skyline di città e borghi sviluppatisi nel corso dei secoli in un tessuto urbanistico segnato da preesistenze medievali come torri, fossati, campanili e palazzi nobiliari, sempre sotto la protezione di santi e martiri.
Ed è a questo ricco immaginario medievale che si ispirano alcune delle creazioni dei designer pugliesi riuniti sulla piattaforma Puglia Design Store. Ve ne avevo già parlato a proposito dell’ispirazione archeologica di molti oggetti creati da questa nuova leva di designer made in Puglia (QUI trovate il link al blogpost), il cui estro creativo si nutre delle suggestioni della loro terra natia.
Quando parliamo di Puglia e Medioevo la mente non può che andare al “Puer Apuliae” Federico II di Svevia.
Grande cultore delle arti e amante della bellezza, Federico ha disseminato la sua amata Puglia di capolavori architettonici giunti pressoché integri fino a noi: basti pensare al Castel del Monte, struttura ottagonale che domina dall’alto di una bassa collina l’altopiano delle Murge occidentali nel comune di Andria, oppure ai castelli di Trani e Barletta, e ancora ai palazzi imperiali fatti costruire nel territorio di Foggia.
Accanto al volto pagano del medioevo pugliese richiamato “dall’imperatore che favorì l’incontro delle civiltà greca, latina e araba” (Treccani) e fatto di castelli, corti, complotti e mecenatismo, la Puglia è da sempre stata terra di santi e martiri, di un cristianesimo vissuto visceralmente che ha lasciato l’impronta nell’urbanistica delle sue città.
Parliamo di cattedrali, chiese, basiliche che attirano turisti da tutto il mondo.
Come resistere infatti al fascino delle tante cattedrali di Puglia con i loro portali intarsiati, i rosoni a rilievo e l’imponenza delle strutture romaniche?
E archetipi del romanico pugliese sono la Basilica di San Nicola a Bari e la Cattedrale di Trani, alle quali sono dedicate due creazioni su Puglia Design Store.
La Cartolina Pop up originale opera di PxC Edizioni raffigura la sagoma della Cattedrale di Trani per viaggiare nello spazio e nel tempo e ritrovare i dettagli di quest’opera d’arte, la cui costruzione ebbe inizio nell’XI secolo, che si erge e domina il mare Adriatico con il suo nitore e il cui profilo non manca mai nelle fotografie degli Instagramers che visitano la provincia.
Cartolina a comparsa Trani notturna di PxC Edizioni
Tra archi, monofore e timpani, la purezza del romanico pugliese viene invece celebrata in un oggetto di design opera di Typical Design: un portatovaglioli a base quadrata, ispirato nelle forme alla Basilica di San Nicola, concepita nella sua tridimensionalità. Non solo originalità, creatività e tradizione in questi prototipi realizzati con stampanti 3D, ma anche attenzione alla natura: ogni oggetto è realizzato con filamenti polimerici certificati di origine naturale, atossici e compatibili al contatto con gli alimenti.
Portatovaglioli di design Romanico di Typical Design
Costruita in stile romanico tra il 1087 e il 1197, durante la dominazione normanna, la Basilica di Bari è legata alle reliquie di San Nicola, portate nella città pugliese dalla città di Myra in Licia (regione storica dell’attuale Turchia).
San Nicola, la cui figura ha dato origine alla tradizione di Babbo Natale, è certamente uno dei più venerati nel corso del Medioevo e non poteva quindi mancare nella serie delle icone religiose opera dei designer di TuttiSanti che rileggono “in chiave pop figure centrali della tradizione religiosa attraverso uno studio approfondito dell’iconografia sacra unito ad un approccio progettuale e stilistico decisamente contemporaneo. Il progetto intende riflettere sulle dinamiche di affezione popolare utilizzando una chiave di lettura non necessariamente devota e più affine alla definizione di nume tutelare”.
Poster San Nicola di Tuttisanti
Nonostante il rapporto non esattamente idilliaco tra Federico II di Svevia e il papato, anche l’imperatore di origine germanica ha lasciato tracce del suo passaggio nell’architettura cristiana pugliese: la Cattedrale di Santa Maria Assunta ad Alamura ne è un esempio. Fatta edificare da Federico nella prima metà del XIII secolo d.C. come cappella palatina è stata poi rimaneggiata a trasformata nel corso dei secoli fino a raggiungere l’aspetto odierno.
Portale Cattedrale di Altamura di Paolo Lorusso Ceramiche
In chiusura di questa carrellata dei prodotti che potete trovare sul portale di Puglia Design Store vi propongo un paio di opere d’arte che mi hanno particolarmente colpito, anche se poco attinenti con il medioevo e l’archeologia in senso stretto:
I piatti DETAILS della designer Valentina De Carolis che raccontano la poesia dei dettagli architettonici e pittorici dei palazzi d’epoca che punteggiano città e paesi di Puglia a raccontare storie delle potenti famiglie che hanno lasciato la loro impronta nel tessuto urbanistico dei centri storici. Su ogni piatto è presente un decalco ispirato proprio a un dettaglio di un palazzo storico.
Piatti Details di Valentina De Carolis
La luminaria da tavolo artigianale PUMO di Lumisaria in edizione limitata che ricorda nelle forma il caratteristico pumo pugliese, in betulla e fondo bianco, a ricordare e richiamare la buona sorte richiesta alla dea romana Pomona, custode di fecondità e ricchezza.
Luminaria Design Pumo di Lumisaria
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
*in collaborazione con Puglia Design Store
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/Pugliadesign-2-def-1.jpg29535846Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2019-11-18 21:31:262019-12-04 19:37:35Medioevo Pop nelle creazioni di Puglia Design Store
Sono Antonia e vi sto scrivendo da Roma, al termine della mia avventura irachena.
Perché per me di avventura si è trattato: era in assoluto la mia prima volta in un Paese mediorientale, non solo come archeologa, ma anche come viaggiatrice. I paesaggi desertici, le città arabe, gli iracheni, le albe, i tramonti, le tende dei beduini: un wow continuo, interrotto soltanto dai click della mia macchina fotografica con la quale ho cercato di immortalare i momenti e i volti da portare con me al rientro.
In questa penultima puntata del Diario vi racconto il nostro primo giorno di scavo. Facciamo finta per un attimo che io mi trovi ancora a Ur nella casa missione e che sia al pc in sala da pranzo a narrarvi la giornata appena trascorsa.
(Un espediente letterario utile a non farmi sentire troppo la saudade che ti assale quando lasci questa splendida terra. Anzi approfitto di questo spazio virtuale per salutare a mezzo blog i colleghi e amici che ho lasciato a Ur)
Nonostante il clima non proprio ottimale che abbiamo incontrato i primi giorni (qui, qui e qui le prime tre puntate del Diario), finalmente lunedì è giunto per noi il tempo di andare sullo scavo sul tell di Abu Tbeirah, motivo per il quale sono giunta fin quaggiù in Iraq.
Sveglia alle 5, alba sulla ziggurat.
Partenza prevista alle 6.
Con gli occhi ancora stropicciati di sonno, biascicando dei “’giorno” a mezza bocca per salutarci, trangugiamo tè e caffè e siamo pronti a caricare gli strumenti sul camioncino Iveco che ci accompagnerà tutti i giorni sul tell.
Pale
Picconi
Cazzuole
Secchi
Stazione totale e livello ottico
Macchine fotografiche
Tutta l’attrezzatura è pronta, manchiamo solo noi sull’Iveco. E mancano anche gli operai che raccogliamo lungo la strada per Nasiriyah. Tutti ben coperti perché siamo in pieno novembre ormai.
L’aria è frizzantina e il sole si alza rosso dall’orizzonte. Intorno rimangono ancora le tracce della pioggia dei giorni scorsi e dentro di noi speriamo tutti che la situazione sul sito sia migliorata rispetto a due giorni fa, che almeno si possa camminare senza farci risucchiare dalle sabbie mobili del deserto.
Arrivati a destinazione, l’Iveco e la scorta (sì, nei nostri spostamenti siamo accompagnati dalla scorta della polizia addetta alla protezione del patrimonio archeologico) ci scaricano sul sito. Dopo i primi timidi passi per sondare il terreno giungiamo alla conclusione che per fortuna oggi non si affonda nel fango. Si possono scaricare gli attrezzi!
E così una lunga e ordinata fila di archeologi e operai si avvia verso l’area del porto: siamo tutti carichi di borse e procediamo con cautela mantenendo l’equilibrio.
Il team, oltre agli operai, è così composto:
Licia Romano, co-direttrice dello scavo
Marta Zingale e Veronica Porzi, archeologhe veterane della missione
Leonardo Antonucci, studente new entry di quest’anno
Luca Forti, geologo
Io, archeologa e blogger
L’area del tell è enorme, sconfinata e desertica, motivo per il quale ogni anno si procede con l’apertura di alcune aree/saggi, lo scavo in estensione sarebbe infatti impossibile da affrontare su superfici di queste dimensioni.
Prima operazione della mattinata è la trilaterazione dell’area da aprire: fettuccia metrica, picchetti, nastro biancorosso e il gioco è fatto. Basterà poi riportare i limiti del settore all’interno della pianta del tell per geolocalizzare con precisione l’intervento.
Siamo pronti a partire: le squadre di operai si dividono lungo l’area e si inizia a picconare e raccogliere la terra, picconare e raccogliere. L’aria è ancora fresca e si può lavorare di buona lena. Lo strato 0 viene asportato con relativa facilità: a questo punto subentrano gli archeologi che verificano la stratigrafia messa in luce per dare indicazioni agli operai su come continuare lo scavo.
Gli operai sono curiosi, fanno domande, si (e ci) interrogano su quello che stanno facendo e su che cosa ci aspettiamo di trovare nella zona a ridosso del porto, negli anni hanno imparato a riconoscere gli strati e il loro ausilio è di fondamentale importanza in cantiere.
Mentre riprendono le operazioni di scavo, un gruppetto di archeologi parte in esplorazione dell’area: un rapido accurato survey per segnalare la presenza di ceramica affiorante in alcuni punti del tell, si raccolgono quindi i frammenti diagnostici (orli, anse, fondi) che verranno poi processati e schedati una volta tornati in casa missione.
Nel frattempo il geologo analizza le sezioni esposte così da poter desumere informazioni sulla composizione e struttura delle sedimentazioni del terreno, soprattutto nell’area del porto che doveva essere di certo attraversata da canalizzazioni.
E io, cosa faccio mentre intorno a me tutti hanno un compito da portare a termine entro la giornata?
Innanzitutto raccolgo materiale video e fotografico da postare sui vari social e qui sul blog perché ad Abu Tbeirah stiamo sperimentando un modo diverso di fare comunicazione archeologica: il primo archeo-reportage direttamente da una missione all’estero!
E poi cerco di capire come riconoscere i mattoni crudi.
Ora voi dovete immaginare che per una come me abituata ai laterizi, al cementizio romano e alle tegole, il concetto stesso di mattone crudo non solo è volatile, ma assolutamente inconcepibile. Al contrario, qui nel vicino oriente le costruzioni risalenti a millenni fa erano realizzate in mattoni crudi, fatti cioè di argilla non cotta.
La difficoltà principale nel riconoscere questa tecnica costruttiva è dovuta al fatto che i fenomeni post deposizionali nel corso del tempo hanno accumulato argilla su argilla (ricordiamoci che siamo in un deserto) e quindi distinguere un mattone dall’argilla tutt’intorno è complicatissimo. Grande stima per gli archeologi orientalisti!
Ora dopo ora si avvicina il momento della merenda che si trasforma in una sorta di picnic nel deserto: ognuno con il cibo che ha portato da casa, ci sediamo in cerchio e ci riposiamo dalle fatiche fisiche e mentali di questa prima giornata di scavo. Un morso all’Iraqi samoon, un altro all’uovo sodo e la pausa vola via.
Manca poco al termine di questa giornata lavorativa e il caldo iracheno inizia a farsi sentire. Per fortuna siamo a novembre e le giornate torride ce le siamo lasciate alle spalle, altrimenti sarebbe stato impossibile lavorare oltre la tarda mattinata.
Stanchi ma soddisfatti per aver finalmente aperto l’area di scavo possiamo avviarci verso l’Iveco che ci aspetta all’ingresso del tell.
Questo è il mio ultimo giorno qui ad Abu Tbeirah, domani due aerei mi porteranno da Bassora a Istanbul e poi a Roma.
Voglio riempirmi gli occhi e il cuore delle immagini di questa terra e così salgo dietro il furgone con gli operai, sfidando gli scossoni ma imprimendo per sempre nella mia memoria il ricordo e la magia dell’Iraq.
(…continua)
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_4037-e1542226013678.jpg8471592Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2018-11-14 21:10:072018-11-18 19:21:53Diario dall'Iraq. Il primo giorno di scavo nel deserto
E anche questa notte ha piovuto, con annessa tempesta di sabbia che ha fatto sbattere finestre, creato mulinelli nel deserto e fatto volare tutto.
Dunque cancellate quello che vi ho scritto ieri: oggi niente cantiere. Ma qui in Iraq è così, non sai cosa farai da un giorno all’altro.
Proprio per questo motivo ho deciso di scrivere il diario che state leggendo, per farvi vivere con me non solo lo stupore di ogni momento, ma anche l’incertezza quotidiana di chi viene da un’altra latitudine e si trova a fare i conti con problemi inaspettati.
Per esempio oggi, dopo il temporale di questa notte, l’elettricità è saltata spesso e abbiamo dovuto razionare l’energia del generatore per evitare di trovarci al buio dopo che sarà calato il sole. La connessione internet in queste condizioni diventa un miraggio, come un’oasi nel deserto, per rimanere in tema.
La programmazione delle attività di scavo sono quindi subordinate a tanti fattori, tra cui le condizioni meteo.
Ma qui non ci si perde mai d’animo, stiamo scherzando?
Siamo in Iraq per fare ricerca e che ricerca sia!
Mai sfidare un archeologo sul terreno della cocciutaggine, vincerà sempre.
La giornata quindi è presto organizzata con attività collaterali allo scavo che coinvolgono tutto il team di lavoro.
E io cosa ho fatto? Ho gironzolato tra le varie postazioni di lavoro, facendo domande e fotografando tutti nel pieno delle loro attività.
La didattica
Si inizia con la didattica: Licia e il Prof. D’Agostino, dopo aver chiamato a raccolta nella casa missione tutti gli operai iracheni che lavoreranno sul tell di Abu Tbeirah, sfoderano proiettore, power point e telo bianco e iniziano a fare lezione. Ebbene sì, a pochi metri dalla ziggurat di Ur, un gruppetto di 13 operai ha seguito in un silenzio assoluto, una sorta di conferenza universitaria sullo stato della ricerca ad Abu Tbeirah finora.
Cosa è stato messo in luce l’anno scorso?
Dove saranno aperte le aree di scavo quest’anno?
Cosa ci si aspetta di trovare?
Come procederanno i lavori?
Come si imposta un matrix?
Ospiti d’onore della conferenza anche i funzionari archeologi del Ministero iracheno, perchè qui si fa lavoro di squadra sempre, ognuno con il proprio ruolo e le proprie competenze.
E così oggi ho conosciuto Ngamesh, Haider, Allawi 1 e Allawi 2, Ahmed, Karrar, Nabil, Wusal, Wasa, Rafeet and Jaafar.
Tantissime le domande al termine della lezione, a dimostrare il grande interesse che l’archeologia riveste da queste parti, pur tra le mille difficoltà di un paese che sta cercando di risollevarsi pian piano e con orgoglio da anni difficili.
Il restauro
Una missione archeologica non è composta solo da archeologi, ma da figure diverse che a avario titolo concorrono alle attività di studio e ricerca. Non possono quindi mancare i restauratori.
Qui ad Abu Tbeirah abbiamo Emanuela Peverati che si occupa del restauro della ceramica man mano che emerge dallo scavo.
Pulizia, attacco dei cocci, integrazione dei frammenti: è lei il punto di riferimento della missione. Le sue mani corrono veloci ma con perizia sui frammenti da unire.
In baracca, circondata da solventi, bisturi, stecchini, scotch Emanuela lavora pazientemente, mettendo insieme pezzi che arrivano direttamente dal III millennio. Attorno, il silenzio del deserto e la luce del caldo sole iracheno.
La ceramica
In ogni missione che si rispetti non può mancare “il cocciarolo” (ceramologo), colui cioè che ha un superpotere invidiato da molti: la pazienza. Qui questa dote è incarnata dall’archeologa Marta Zingale, che gestisce il laboratorio ceramico.
E cosa fa “il cocciarolo”? Tira fuori i materiali, li guarda a lungo, poi li disegna, li studia e infine li data. Senza l’associazione dei materiali ceramici con gli strati non sarebbe possibile in molti casi arrivare alla cronologia assoluta, quella cosa cioè che fa dire a un archeologo: questa azione è stata compiuta in un determinato anno, secolo o millennio.
Anche lo studioso di ceramica è abituato a lavorare in solitudine, circondato da matite, fogli lucidi, profilografo e sommerso da bibliografia.
I carotaggi
Gli archeologi scavano terra. E la terra la studiano anche i geologi. Quindi la collaborazione tra archeologi e geologi è frequente.
Qui ad Abu Tbeirah il geologo della missione è il giovane Luca Forti, allievo del Prof. Salvatore Milli. Il suo compito è fare e interrogare i carotaggi,prelevare campioni da analizzare e desumere dati utili alla ricerca, lavorando a stretto contatto con la direzione del cantiere.
Un piccolo segreto: Luca è anche un bravissimo fotografo (@lucafuertes su Instagram) e noi archeologhe lo stiamo sfruttando per farci fare foto indimenticabili con la ziggurat sullo sfondo.
Tra un’attività e l’altra anche la giornata di oggi sta finendo. La ziggurat al tramonto è stata illuminata da un sole enorme e rosso e confidiamo tutti che questa notte la pioggia ci dia tregua perchè non stiamo più nella pelle: vogliamo inforcare la trowel e andare a scavare!
(…continua)
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_3792-e1541952997551.jpg10611592Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2018-11-11 18:15:232018-11-11 18:32:57Diario dall'Iraq. Quando non si va in cantiere
Sono Antonia e vi sto scrivendo dall’Iraq, precisamente da Ur. Siamo nel sud del Paese, a pochi chilometri da Nasiriyah, in pieno deserto e con il pc in questo momento mi trovo nella sala da pranzo della casa della missione italo-irachena che dal 2012 scava il tell di Abu Tbeirah (ve ne avevo parlato qui).
Esterrefatti, vero? Di seguito vi spiego i perchè e i per come di questa nuova avventura di Professione Archeologo. E vi porto anche a Ur.
Andiamo con ordine.
Cosa ci faccio qui?
Sono ospite del gruppo di ricerca de La Sapienza, guidata dal prof. F. D’Agostino (cattedra di Assiriologia) e da Licia Romano, co-direttrice delle attività sul campo, con il compito di raccontarvi in tempo (quasi) reale una delle missioni fiore all’occhiello della ricerca italo-irachena in questo meraviglioso oriente, che tanto ha dato e continua a dare all’archeologia e alla storia della civiltà.
Il mio non sarà un racconto soltanto archeologico, ma anche emotivo, è la prima volta che arrivo qui nel Vicino Oriente e potete immaginare l’entusiasmo e la sorpresa di conoscere un mondo solo così apparentemente distante dal nostro.
Condividerò quindi con voi lettori di Professione Archeologo sensazioni, esperienze, persone che sto vivendo e conoscendo, cercando di darvi dei consigli qualora doveste decidere di affrontare un viaggio di studio o lavoro qui nel sud dell’Iraq.
Arrivare a UR
É stata un’avventura, come ci si aspetterebbe romanticamente da un viaggio nel Vicino Oriente. Niente cappelli coloniali o brame di tesori da esploratori dell’ottocento, ma una buona dose di peripezie non è mancata.
Roma > Istanbul >Basra (Bassora): il nostro itinerario.
Siamo in otto, tra archeologi, studenti e restauratori.
Obiettivo: raggiungere Ur, la base di partenza quotidiana della missione per Abu Tbeirah, il tell del 3° millennio oggetto di scavo del gruppo di ricerca.
Se la prima parte del viaggio da Roma a Istanbul è andata liscia, tra le normali attese in aeroporto e le chiacchiere per conoscersi, un grande aiuto al consolidarsi del gruppo (!) è arrivato dalle avventure vissute nel tragitto Istanbul – Basra.
Partenza alle 4 di notte, arrivo previsto alle 7 di mattina all’aeroporto dove, al termine della trafila burocratica per i visti, saremmo stati prelevati e portati a Ur in tempo per sistemare la casa della missione e cenare, prima di affrontare la prima giornata in cantiere.
Il condizionale è d’obbligo perchè tra noi a Instanbul e noi a Basra si è sovrapposta una fitta coltre di nebbia che ha ritardato di quasi 12 ore l’arrivo a Ur. Cosa è successo è presto detto: invece di atterrare a Basra siamo tornati indietro in Tuchia per l’impossibilità materiale di atterrare a causa delle avverse condizioni meteorologiche. E così ci siamo ritrovati in un aeroporto secondario della Turchia, nella città di Diyarbakir in attesa di sapere quando le condizioni atmosferiche ci avrebbero permesso di ripartire.
Agevolo qua sotto una foto della cittadina di Diyarbakir vista dall’aeroporto e un’immagine di me che prendo la cosa di buon grado.
Dopo circa 5 ore il cielo su Basra decide di volerci accogliere e quindi ripartiamo, per toccare finalmente il suolo iracheno. Altre 2 ore e mezzo di marcia in automobile e la casa della missione ci appare con il suo profilo bianco che si staglia nel deserto.
Da Basra a Ur sembra di essere in un reportage di quelli visti mille volte in tv: strade enormi percorse da camion in fila,i fuochi dei pozzi di petrolio ai due lati, bandiere agli angoli delle strade, diversi check point utili a garantire la sicurezza in un territorio martoriato negli ultimi 40 anni da guerre e devastazioni, deserto, stabilimenti petroliferi e l’aria fresca della sera.
L’impatto con Nasiriyah, sfiorata nel nostro tragitto, per me è stato pazzesco: ci sono immagini che non è possibile raccontare perchè le parole non sono sufficienti. Qualunque aggettivo io usi potrebbe solo sminuire, amplificare o annichilire un insieme di sensazioni che segnano nel profondo. Potrei raccontarvi dell’aria densa nelle strade o delle pozzanghere ovunque o dei gioiosi sorrisi degli iracheni o ancora delle casupole diroccate, ma non basterebbe. Spero di riuscire a tornare a Nasiriyah nei prossimi giorni armata di macchina fotografica per farvi vivere un po’ il panorama urbano del sud dell’Iraq.
Visitare UR
Dopo un bel sonno ristoratore, tanto tè e una doccia, si pone l’imperativo categorico del giorno: la visita del sito archeologico di UR.
Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, si tratta di un’importantissima città sumerica, uno dei primi insediamenti della Mesopotamia, nata nel quarto millennio a.C., estremamente popolosa e ricca, la cui topografia è definita oggi dal recinto sacro con i suoi templi e le tombe reali. Doveva essere una città magnificente, come testimoniato dai ricchi corredi tombali rinvenuti.
Siamo nel deserto, tutto intorno un paesaggio brullo di sabbia e argilla, casupole basse sparse e improvvisamente lei: la grande Ziggurat dedicata alla Luna (dea Nanna), quella che avete visto fotografata su tutti i libri di storia dalle scuole elementari in poi.
Ecco, io mai avrei pensato nella vita di poter vivere un’emozione così grande: trovarmi di fronte alla maestosa scalinata in mattoni che doveva condurre in cima al tempio dominante il pianoro circostante; percorrere quella scalinata, pensare che oggi rimangono solo 15 m degli originali 25 perchè erosi dal tempo, e nonostante questo, salire sulla ziggurat rende bene l’idea dell’imponenza e del timore reverenziale che doveva incutere al momento della sua edificazione nel III millennio a.C.
La struttura, parzialmente restaurata, conserva ancora parte dell’edificio originale, costituito da mattoni legati da bitume e malta per alleggerire la costruzione.
Ziggurat di Ur
Ziggurat di Ur
Ziggurat, la scalinata
La storia della scoperta archeologica di UR risale al XVIII secolo anche se le prime campagne di scavo sistematiche si devono all’archeologo L. Wooley che, dal 1922, scavò per 12 anni con una missione congiunta del British Museum e dell’Università della Pennsylvania.
Nel corso degli scavi furono portate alla luce più di 1800 sepolture tra le quali le cosiddette “Tombe Reali” contraddistinte da corredi principeschi e dalla deposizione, insieme a re e regine, di attendenti, domestici, guardie e personale di corte immolati e sacrificati. Siamo alla metà del III millennio a.C.
Nella mia visita a UR sono stata accompagnata da Dhaif, pronipote del guardiano del sito ai tempi di Wooley: un pezzo di storia dell’archeologia!
Dhaif, guardiano di Ur
Dhaif ha guidato il mio sguardo tra i mattoni delle tombe, facendomi scoprire le iscrizioni sumeriche che compaiono tra i mattoni nudi: frasi che richiamano i nomi dei re e il loro potere.
[Il cui nome] è stato scelto dal dio Enlil, l’uomo forte, il re di Ur, il re delle quattro parti della terra
(traduzione del Prof. D’Agostino)
Il re è Amar-Suena, la datazione al 2050 circa a.C.
Ma il sito di Ur è strettamente legato anche alle sacre scritture e così nel corso di questa passeggiata archeologica mi sono imbattuta nella cosiddetta “Casa di Abramo”, un’abitazione paleo-babilonese ritenuta coeva al Patriarca. La città infatti viene nominata nella Genesi proprio come luogo di nascita di Abramo. L’edificio, in gran parte ricostruito, è una successione di stanze con aperture ad arco, dall’andamento labirintico e caratterizzato in molti punti dalla presenza di impianti di smaltimento delle acque, problematica fortemente sentita in questo luogo a causa della natura argillosa del terreno, chiaramente poco drenante.
La cd Casa di Abramo, la ziggurat
Qui sotto potete vedere una sorta di “pozzo” rivestito di ceramica che confluiva in un canale sotterraneo.
Avrei mai immaginato di camminare tra i resti di Ur in un novembre piovoso, circondata dal deserto e chiacchierando con un iracheno discendente dal guardiano di Wooley? No, mai nella vita.
E di questo devo ringraziare i lettori del blog, cioè voi, perchè è proprio grazie alla vostra costante presenza che questo è diventato un seguitissimo spazio web dove raccontare l’archeologia, quella quotidiana della ruspa e del cantiere, ma anche quella lontana, inimmaginabile.
Perchè l’archeologia è quella cosa che porta studiosi e aspiranti tali a spostarsi nel mondo, a interagire e conoscere altre culture, per tentare di ricostruire la storia di tutti noi, la storia dell’umanità. Senza confini e senza barriere.
Il deserto
(…continua)
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/IMG_3313-e1541705313320.jpg10611592Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2018-11-08 20:35:532018-11-14 18:46:55Diario dall'Iraq. Ur, alle origini della civiltà
È tempo di vacanze per (quasi) tutti: finalmente è arrivato il momento di dismettere gli scarponi, il caschetto, la palina e il famigerato giubbotto catarifrangente che, sotto il sole cocente, aumenta la temperatura corporea a millemila gradi e di prendersi qualche giorno di pausa… all’insegna dell’archeologia, chiaramente!
Pronti a partire! Ma per dove? E soprattutto con cosa?
Grazie a Paola che nel suo blog Pasta Pizza Scones ci ha menzionati nel post I miei cinque oggetti indispensabili in valigia oggi scopriamo cosa non può assolutamente mancare nel bagaglio di un archeologo!
Noi archeologi si sa siamo esseri strani, un po’ mitologici e un po’ umanoidi, mai sazi di luoghi da visitare, abituati a vivere in un mondo tutto nostro fatto per lo più di aree archeologiche, siti, musei, cocci e disposti ad emozionarci con poco, basta una decorazione architettonica, per dire.
Andiamo a scoprire le 5 cose che un vero archeologo afflitto dalla patologia “Visitare tutto quello che è visitabile nel raggio di km dal luogo dove mi trovo” deve mettere in valigia prima di partire per un viaggio, breve o lungo che sia!
Crema solare protettiva
Nella meticolosa preparazione del beauty case di un archeologo, ordinato secondo criteri rigidamente crono-tipologici (da una parte le creme da giorno, dall’altra quelle da notte, poi seriazione del make up in base al codice Munsel di terre, ciprie, fondotinta, ombretti e rossetti), uno dei must have in cima alla lista delle cose da portare, compilata scrupolosamente in cantiere durante i momenti morti, è la crema solare, protezione alta.
Scordatevi però le creme waterproof, anti sabbia o cose così, perché all’archeologo la crema mica serve per andare in spiaggia, giammai!
La crema serve per cospargersi abbondantemente le parti del corpo rimaste di color bianco latte (escludendo quindi viso, braccia, girocollo. Abbronzatura da muratore vi dice niente?), prima di intraprendere una delle numerose e masochistiche escursioni alla scoperta di luoghi sconosciuti ai più e spesso caratterizzati dai cosiddetti “quattro sassi in croce”. Si tratta perlopiù di siti assolati, senza neanche un albero nel raggio di chilometri, assolutamente privi di bar, fontanelle o qualsiasi traccia di civiltà che possa dare sollievo al nostro prode archeologo.
Photo by Marvin Meyer on Unsplash
La definizione di area archeologica per gli archeologi implica la non facile raggiungibilità della stessa, il camminare sotto 40 gradi accompagnati solo dal frinire delle cicale e soprattutto la possibilità di socializzare con altri impavidi archeologi (in genere se ne incontrano un paio di esemplari) con conversazioni del tipo “ma dai, anche tu hai scavato a… (aggiungere luogo a caso)?” oppure “eh peccato che qui non viene nessuno, ma purtroppo non tutti capiscono il valore di queste fondazioni pseudo isodome in blocchi di roccia sedimentaria clastica, delle quali rimangono conservati addirittura 50 cm” e altre amenità del genere, sulle quali di fondda la riconoscibilità del nostro gruppo sociale.
Camminare dicevamo, spesso per chilometri pur di raggiungere il luogo dei nostri sogni. Passiamo quindi al secondo oggetto indispensabile da mettere in valigia.
Scarpe da trekking
Non paghi di indossare gli scarponi sul cantiere, che gelano i piedi in inverno e li infiammano in estate, noi archeologi in vacanza ci armiamo di scarpe da trekking ben consci delle scarpinate che ci aspettano.
Una semplice passeggiata in montagna o in una città d’arte si trasforma presto nella ricerca spasmodica del sito archeologico da esplorare: che siano una basilica paleocristiana, i ruderi di un castello o i resti di una villa l’imperativo categorico è arrivarci, a qualunque costo, spesso facendosi largo con il machete tra rovi e piante tropicali, sentendoci dei novelli Indiana Jones alla scoperta del tempio maledetto.
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I più coraggiosi poi affrontano dei veri e propri cammini sulle tracce della Via Francigena o lungo la Via degli Dei (nomen omen!), incuranti delle temperature desertiche o della possibilità di sembrare dei pazzi con stampato in viso un sorriso compiaciuto alla vista di un tracciato antico.
L’importante è andare avanti e arricchire la propria personale lista di “posti irraggiungibili che però io ho visto!”.
Ma come fa un archeologo a sapere esattamente che in quella landa desolata c’è un sito archeologico? Con le sue personali guide turistiche, chiaramente.
Guide archeologiche
Poveri ingenui voi che girate con Routard, Lonely Planet o Rough. Come potete trovare luoghi introvabili che a malapena sono conosciuti dalle comunità locali, figuriamoci dai redattori delle guide turistiche?
L’indefesso archeologo prima di partire sfodera i suoi super poteri da topografo e da topo da biblioteca: cartine storiche, gis, ricerche bibliografiche, siti web. Lasciate perdere travel blogger o influencer Instagram: l’archeologo va direttamente alle fonti, se antiche meglio ancora, e si costruisce il suo itinerario PER – FET – TO.
Dalle ricerche di superficie pubblicate sul Bullettino De’ Luoghi Rarissimi Che Manco i Romani Conoscevano è emerso che lì, in mezzo alle frasche, c’era un mausoleo? Bene, bisogna andare a verificare per amore della scienza.
E così armati di fotocopie, scansioni, libercoli ottocenteschi, i nostri prodi custodi della conoscenza dei luoghi costruiscono la propria personale periegesi, da spacciare segretamente tra amici e colleghi, ricordando poi, al ritorno dalle vacanze e davanti ad una birra, le peripezie compiute per raggiungere posti così inospitali che Marte al confronto sembra un luxury resort.
Photo by Ben White on unsplash
Ma ogni archeologo che si rispetti ha un’altra fissa: la documentazione. Passiamo al quarto oggetto indispensabile per un viaggio da archeologi.
Reflex
Sorvoliamo temporaneamente sul corredo di matite e block notes dove appuntare ulteriori notazioni che in bibliografia non erano segnalate (ahi ahi) e che possono tonare utili per una revisione critica degli studi da pubblicare l’oradelmai in una rivista di Classe A e concentriamoci sull’apparato iconografico.
Partire per un viaggio archeologico comporta la spasmodica necessità di documentare tutto, ma proprio tutto quello che vediamo. Attenzione, non parliamo di foto panoramiche o di selfie a ricordo del nostro viaggio. No, no, qui approdiamo nel mare magnum del disturbo ossessivo-compulsivo di foto archeologiche, il che in poche parole vuol dire scattare centinaia di fotografie i cui soggetti preferiti saranno nell’ordine: pietre varie, particolari di decorazioni, singole scanalature di colonne, venature di foglie d’acanto, distese di stratigrafie verticali di mattoni e tufelli, riccioli di barbe e scriminature di capelli.
Photo by Chris Lawton on Unsplash
Mai concedere poi spazio all’estro artistico con immagini suggestive: no, qui è la scienza che richiede terabyte di memoria, il tramonto sui templi lasciamolo ai turisti, tzè.
Motivo per il quale su Instagram posteremo solo le foto più brutte, quelle fatte con il cellulare controluce. Le più belle, fatte con la Reflex, così perfette da far invidia a stuoli di fotografi che a suon di bot si accapigliano sui social per avere migliaia di followers, saranno gelosamente custodite e ordinate in cartelle sul pc, chè possono sempre servire per quel confronto che cerchiamo da mesi.
E se c’è cattivo tempo? Niente paura, l’ardimentoso archeologo ha pensato anche a questo quando ha preparato la valigia.
K-Way
Non sarà certo un temporale estivo a scoraggiare il nostro archeologo dalla visita culturale durante le vacanze. E così l’ultimo necessario oggetto da mettere in valigia prima di partire è il k-way, l’impermeabile con il quale affrontare imperterriti scrosci di pioggia e folate di vento.
Naturalmente parliamo di un capo d’abbigliamento che qualsiasi archeologo ha già con sé, custodito nell’armadio o nel portabagagli dell’auto, ausilio durante le giornate di pioggia in cantiere e che basta solo tirar fuori e riciclare anche durante le ferie.
Perché l’archeologo in vacanza non è né turista, né viaggiatore. Rimane archeologo e basta.
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
E siccome questo è un gioco da blogger, di seguito le mie nomination per I cinque oggetti da portare in viaggio.
Ogni blogger potrà declinare il tema secondo le caratteristiche del proprio spazio online:
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/erwan-hesry-166245-unsplash.jpg40006000Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2018-08-05 15:33:212018-10-23 16:52:52Tempo di vacanze: cosa mettono in valigia gli archeologi?
Per comunicare l’archeologia, secondo il CNR, che, ricordiamolo, è il Consiglio Nazionale delle Ricerche e dunque dovrebbe di fatto essere un’autorità in fatto di ricerca scientifica, NON serve un archeologo.
No, avete capito bene. Serve un laureato in Scienze dello Spettacolo e Comunicazione Multimediale o in Scienze dello Spettacolo e della produzione multimediale o in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo.
Uno cioè che ha studiato cinema, teatro, comunicazione multimediale ma che dubitiamo abbia mai maneggiato una trowel. Sì, la trowel, quell’attrezzo che definisce un archeologo, che lo aiuta a distinguere e asportare gli strati di terra.
Come dire che la comunicazione scientifica della fisica quantistica posso farla io che sono laureata in Metodologia della ricerca archeologica. Fatemelo fare, vi prego, vi stupirò con effetti speciali che il tunnel dei neutrini di gelminiana memoria sembrerà una trovata meritevole della prima pagina di Nature.
Qui non stiamo parlando di ufficio stampa o di social media management. No, qui parliamo di comunicazione scientifica (Attività di comunicazione e divulgazione della ricerca scientifica nel campo dell’archeologia urbana e attuazione di strategie di audience development e public engagement, condotte attraverso la gestione delle informazioni e delle relazioni con gli stakeholders e finalizzate a consolidare i rapporti con la città), una cosa seria per un progetto ancora più specialistico, se vogliamo: “ Context – Cultura materiale, contesti archeologici e paesaggi culturali dell’area mediterranea”. E l’unico requisito richiesto che abbia a che fare con l’archeologia è aver lavorato due anni nel settore della comunicazione e della divulgazione della ricerca scientifica nel campo dell’archeologia urbana.
Cosa che solleva ancora più ambiguità su questo bando: quante saranno le persone che rispondono esattamente a questi criteri?
Sarebbe bastato richiedere un laureato in discipline umanistiche con un curriculum di comprovata esperienza per non sollevare dubbi fortissimi sulla trasparenza di questo bando pubblico e per aprire le porte anche agli archeologi, che invece così sono totalmente tagliati fuori. Un’assurdità.
Possiamo veramente accettare che a comunicare l’archeologia urbana e le sue complesse dinamiche che soltanto chi ci lavora tutti i santi giorni conosce, possa essere un NON archeologo?
Ci siamo lasciati scippare musei e scavi per darli in mano ai volontari, ora ci lasciamo defraudare anche della comunicazione del nostro mestiere.
E prima che qualcuno possa dire che non esistono figure di archeologi divulgatori la risposta è : esistono! Esistono fin da prima che la comunicazione archeologica diventasse una roba cool. I nostri prodi sono fuori dall’ambito accademico che ha quasi sempre guardato con sospetto chi osava divulgare l’archeologia al pubblico.
Evidentemente l’intellighenzia del mondo archeologico preferisce accontentarsi di cooptare, negare le competenze e affidare una disciplina così delicata come la ricerca archeologica a chi su un cantiere non ha messo mai piede, lamentandosi poi contestualmente della chiusura dei corsi di studio in beni culturali. Il pianto del coccodrillo.
Ora se fossimo in un paese serio quel bando andrebbe ritirato, andrebbero avviati corsi di comunicazione e divulgazione scientifica dell’archeologia nelle università chiamando gente competente a fare da docenti. Solo così, in un futuro non tanto lontano, forse potremmo avere più laureati in discipline archeologiche con una formazione ibrida, non costretti a lavorare al call center o al McDonald.
In caso contrario i prossimi comunicatori di archeologia urbana saranno gli umarell con una solida formazione dietro le transenne di un cantiere urbano.
https://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/neonbrand-395901-unsplash.jpg32644896Antoniahttp://www.professionearcheologo.it/wp-content/uploads/logopervideo-300x74-1-300x74.jpgAntonia2018-03-21 08:50:282018-03-21 22:00:55Per comunicare l'archeologia NON serve un archeologo. Disse il CNR.
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