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Ritorno (all’archeologia)

Da qualche settimana vivo in Inghilterra e tra adempimenti burocratici e il nuovo lavoro, inizio solo adesso a ritrovare una certa normalità. E il tempo di tornare a scrivere, finalmente! Eccomi quindi con un post che non saprei definire se non “personale”. Il personale racconto dell’inizio di una nuova avventura.

Il racconto, anche, di un ritorno, il ritorno all’archeologia.

Eh sì, perché la novità, nonché il motivo per cui mi sono trasferita in UK, è che qui faccio l’archeologa da campo. D’assalto, sembra certe volte, perché i ritmi sono intensi nell’archeologia commerciale inglese, quella che in Italia definiamo archeologia preventiva.

Scriverò più in là di come funzionano qui le cose, le differenze rispetto all’Italia (che sono tante e saltano agli occhi ben prima di mettere piede in cantiere), ma quello su cui riflettevo in questo fine settimana appena passato, che si è come messo a fuoco dopo la domanda di una collega e che voglio condividere con voi, è la sensazione di essere tornata esattamente dove volevo essere: alla terra, agli strati, ai tagli, ai riempimenti, alla fatica fisica del lavoro sul campo e alla fatica intellettuale di leggere quello che la terra racconta.

(Tra parentesi, la riconoscete subito quella fatica: si manifesta nella posizione tipica dell’archeologo, in piedi o accovacciato davanti alla sua US, testa un po’ piegata sul lato, sopracciglia aggrottate e faccia a punto interrogativo).

Ora, esistono tanti tipi di archeologi e tante diverse archeologie, ma ho sempre amato scavare, fin dalla prima volta, un bel po’ di anni fa. Ho preso parte a diverse campagne di scavo da allora, ma nel complesso non ho avuto molta esperienza, non in confronto a tanti colleghi. L’ho sempre avvertita come una mancanza, ma si sa, la vita segue il suo corso e non sempre riusciamo a fare quello che ci piacerebbe.

Così, finita la scuola di specializzazione e mandati alcuni CV che non hanno per la maggior parte avuto risposta, ci ho messo una pietra sopra.

L’ho fatto senza molto crucciarmi per la verità.

Nel mio futuro ci sarebbe stata l’archeologia sul campo oppure no, non era un problema.

Nel frattempo avrei continuato a studiare, a fare ricerca, a scrivere.

Questo blog e tutto ciò che da queste pagine è nato, gli articoli, le conferenze, le collaborazioni, le conoscenze nate sui social e diventate amicizie nel mondo reale, sono una buona testimonianza di com’è andata.

Ed è andata bene, devo dire, anzi più che bene, ma è stato anche il lento consolidarsi di una realizzazione che avevo avuto anni fa, quando stavo per laurearmi per la seconda volta e mi chiedevo se fosse davvero il caso di proseguire gli studi (specializzazione, dottorato?).

Ho scelto gli studi, alla fine, ma quella consapevolezza è rimasta e forse, con lei, un po’ di pessimismo: non sarei mai riuscita a mantenermi con l’archeologia.

“Vattene all’estero” mi è stato detto tante volte. Come se fosse facile, pensavo.

Quando ho fatto domanda per questo lavoro, l’ho fatto perché era una buona occasione, ma ero anche giunta ad una decisione.

L’archeologia, d’ora in poi, sarà per me solo quella social.

Basta mandare domande, aspettare risposte, fare colloqui.

Appendo la trowel al proverbiale chiodo.

Poi, un lunedì pomeriggio di fine febbraio, ho ricevuto l’offerta di lavoro.

Da allora sono state settimane da pazzi, passate tra aeroporti, notti al pc e code in uffici, impegnate a potare a termine gli impegni precedenti (non sempre ci sono riuscita) e a prepararmi per la partenza.

Poi l’arrivo qui. Altri giorni da pazzi.

L’inizio del lavoro, un nuovo ritmo a cui abituarsi, tante cose da imparare, molte altre in cui riprendere la mano dopo anni di assenza dai cantieri.

L’impatto con l’archeologia commerciale inglese è stato duro com’è dura la terra da queste parti quando non piove per tre giorni.

Non al punto da farmi pensare “cosa ci sono venuta a fare qui?” (sono calabrese, se c’è una cosa che non mi manca è la testardaggine), ma duro abbastanza da farmi rimboccare le maniche e dire “ok, ricominciamo”.

Mi ha aiutato il fatto di aver incontrato persone che non sono solo brave nel loro lavoro, ma sono attente a chi hanno davanti. Qualcuno mi ha “adottato”, non c’è davvero termine più adatto, e questo ha reso le cose più facili.

Poi venerdì scorso, mentre portavamo gli ultimi attrezzi dal sito verso il container dove vengono riposti alla fine di ogni settimana, una collega, anche lei straniera, qui da alcuni mesi, mi pone una domanda, quella di cui parlavo all’inizio del post.

“Are you happy, here?”

Sei felice, qui?

Ci ho pensato un momento.

Ho risposto di sì.

Il ritorno alla terra non è stato facile e sono solo le prime settimane, ma sì, è stato un ritorno felice.

E non è la sorpresa di trovare un frammento di ceramica romana o un teschio animale pressoché integro. Non è la curiosità del barista del pub sotto casa che mi vede vestita in abiti da lavoro e mi chiede “cosa avete trovato oggi?”. Non è nemmeno il viaggio in minivan con musica anni ’90 sparata a tutto volume o le chiacchiere con i colleghi durante le pause o dopo il lavoro.

È la sensazione di essere tornata alle origini, alle basi del lavoro di archeologo, al rapporto con la terra, alla ricostruzione del passato lì dove essa ha inizio.

Non sono una romantica del lavoro. Sono consapevole di essere parte di un ingranaggio in un progetto enorme che ha ritmi serrati.

Però concordo con chi dice che il nostro mestiere è un privilegio.

Per come le cose vanno nel nostro paese c’è il rischio serio che lo diventi non solo in senso figurato, ma anche in senso sociale, che potrà permettersi di farlo solo chi proviene da un background capace di sostenerlo anche se non guadagna niente con ricerca e progetti.

Il Regno Unito non è immune a questo rischio, ma per il momento continua ad attrarre archeologi da tutta Europa e se lo fa non è solo per il fascino intrinseco della terra di sua Maestà.

È perché al privilegio (e alla fatica) del contatto con la terra corrisponde un riconoscimento che è anche economico e che permette di fare quello che in Italia non sempre è possibile.

Appunto, vivere di archeologia. Almeno per un po’.

Vi terrò aggiornati su come andrà.

 

@domenica_pate

15 domande a… Diletta Menghinello, archeologa on the road

Diletta Menghinello è archeologa e blogger.

 

Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università della Tuscia di Viterbo, si è specializzata presso l’Università la Sapienza di Roma.

 

Archeologa on the road, ha maturato un’esperienza pluriennale nell’assistenza archeologica e nell’archeologia preventiva.

 

Dal 2009 gestisce il Gruppo Facebook USCIRE DAL TUNNEL DELL’ARCHEOLOGIA SI PUO’!!! e nel 2014 ha fondato il blog Archeopatia. Soliloqui, deliri, peregrinazioni e allucinazioni della parafilia dell’antico dai primi sintomi alla completa remissione.

 

Le abbiamo rivolto 15 domande a cui rispondere al volo.

 

Buona lettura!

 

*

 

1 – Nome?

 

Diletta Menghinello [disambiguazione: Diletta è il nome].

 

2 – Età (vera o mentale)?

 

Anagrafica 36. Mentale: a volte 7, a volte 65. Mediamente i conti tornano.

 

3 – Segni particolari?

 

Cinica tendente al nichilismo.

 

4 – Perché hai scelto di fare l’archeologa?

 

Qui devo evocare la nerd che è in me e parlare di “stratigrafie”, se non archeologiche, mentali. Substrato etrusco, madre amante della materia, immotivata avversione per il ben avviato studio paterno da geometra e cieca adesione al dogma radical chic acquisito al liceo classico che la cultura umanistica prima o poi paga. Il tutto drasticamente aggravato dal tentativo non riuscito di laurearmi in Giurisprudenza.

E il fatto che adesso io passi la maggior parte del tempo nei cantieri a rincorrere geometri e ingegneri vari rispettivamente a 1/2 e 1/4 del loro stipendio lo considero un capolavoro di ironia. La vita spesso ha un grande senso dell’umorismo.

 

5 – Perché fai ancora l’archeologa?

 

Perché a parte questo e la cameriera non so fare altro. E il secondo è un lavoro terribilmente faticoso.

 

6 – Che lavoro farai da grande?

 

Sfrutterò in modo ignobile gli averi dei miei avi aprendo B&B e orticelli bio con il recondito pensiero di riservarmi un pezzetto di terra su cui scavare abusivamente nei momenti di noia.

 

7 – Descrivi in tre righe cosa non va nel tuo lavoro.

 

Corruzione e clientelismi vari connaturati all’italico sistema di risoluzione dei conflitti tra pubblico e privato che rendono la qualità del lavoro un optional (se non direttamente un elemento di disturbo) e la finalizzazione ultima dell’archeologia – che è pur sempre una scienza sociale – una pura utopia. La mancanza di una normativa adeguata fa il resto.

 

8 – Un genio può esaudire un tuo desiderio riguardante l’archeologia in Italia. Cosa chiedi?

 

Un Ministro dei Beni Culturali tedesco.

 

9 – Se ti reincarnassi in una delle figure professionali che si incontrano in cantiere chi vorresti essere?

 

Un certo tipo di funzionaria. Quella che arriva scocciata con un ritardo di circa due ore e mezza nel tuo cantiere lustrato per l’occasione, che ti illumina sulla sua meritoria ascesa alla poltrona ereditata dal prozio defunto mentre due valletti le infilano scarpe antinfortunistiche intonse e che se ne va dopo 5 minuti servita e riverita, senza aver colto a pieno la differenza tra una sezione e una pianta. Godrei certamente dei miei primi momenti di gloria sul posto di lavoro. Strano Paese l’Italia…

 

Ora giochiamo:

 

10 – Che libro butteresti dalla torre: Storie dalla terra o L’arte romana nel centro del potere? Perché?

 

Senza nulla togliere al primo, il libro di Bandinelli è una tappa obbligata per lo studente di archeologia e non solo: ben scritto, affascinante, una meravigliosa avventura dell’anima che ti porta a concludere che in fin dei conti hai fatto la scelta giusta nella vita. Forse solo per questo dovrei buttarlo dalla torre. Ma alla fine no, lancio l’altro!

 

11 – Una birra dopo il lavoro con Massimo Osanna o Giuliano Volpe? Perché?

 

Osanna. Alla terza gli estorcerei la promessa di un lavoretto a Pompei.

 

12 – A cena fuori con Bray o Franceschini? Perché?

 

Franceschini. Qualcosa di quell’uomo mi dice che si offrirà volontario per pagare il conto.

 

13 – Puoi scegliere un “archeologo famoso” disposto a passare una giornata con te a guardare l’escavatore. Chi vorresti?

 

Edward C. Harris. Una volta resosi conto del sadismo del suo matrix applicato all’archeologia d’emergenza e fatta pubblica ammenda, acconsentirebbe di sicuro a tornare senza traumi a “strato alfa” e “strato beta”, facendo la felicità di migliaia di archeologi nel mondo.

 

14 – Di chi faresti volentieri a meno in cantiere? Umarells o un caposquadra piacione?

 

Umarells. Mentre infatti il piacione si autodistrugge in tre giorni passando brevemente dal viscidume all’aperta ostilità (a meno che non ci stiate, allora è tutto un altro discorso), il vegliardo ex-ruspista classe ’23 passato indenne ad almeno un conflitto mondiale e agli anni di piombo è praticamente indistruttibile.

 

15 – La tua definizione di archeologia.

 

L’archeologia è soprattutto un disturbo mentale di tipo maniacale. Analizzandola più benevolmente, è quella scienza che, attraverso un impianto teorico da astrofisica ed una rigorosa metodologia chirurgica, si propone di dare risposte perennemente incerte a quesiti ormai passati di moda. Come si vede, anche così si ritorna alla prima definizione.

 

 

 (@pr_archeologo)

Convegno “Stati generali dell’archeologia. Un aggiornamento sul tema”. Intervista ad Alessandro De Rosa, presidente CNAP

Il 30 aprile si terrà a Sant’Agata dei Goti il Convegno “Stati generali dell’archeologia. Un aggiornamento sul tema”.

 

 

Uno degli argomenti all’ordine del giorno è quello del riconoscimento dei professionisti dei beni culturali. Oltre al neopresidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici Giuliano Volpe, interverranno rappresentanti delle Soprintendenze per i Beni Archeologici di Basilicata e Campania nonché delle associazioni di categoria ANA, FAP e CNAP.

 

 

In attesa di conoscere quali saranno i contenuti del documento che verrà redatto al termine dell’ incontro abbiamo parlato con Alessandro De Rosa, presidente della Confederazione Nazionale Archeologi Professionisti (CNAP), di quelle che saranno probabilmente, insieme alla riforma del MiBACT, le tematiche salienti della discussione.

 

 

Il mondo dei professionisti che operano nel settore dei beni culturali è piuttosto variegato e comprende diverse figure professionali (dai liberi professionisti ai dipendenti Mibact a titolari e dipendenti di imprese archeologiche), ognuna con specificità proprie e problemi differenti. Secondo te, pur in questa complessità del settore, qual è la problematica più urgente all’ordine del giorno?

 

 

Direi la definizione della figura professionale: requisiti, competenze, e ambiti di intervento, considerando che il riconoscimento si sta realizzando attraverso la Pdl362. Questo riguarda soprattutto i professionisti che operano al di fuori del ministero. Una definizione della figura professionale, garantita da una forte associazione professionale, tutelerebbe gli archeologi, sia dal punto di vista professionale che nei rapporti lavorativi. Questo avrebbe effetti positivi sull’intero contesto professionale e scientifico. Gli archeologi che operano sul campo sono l’avanguardia della tutela, operano secondo criteri scientifici, spesso in situazioni estreme. Migliorare le condizioni lavorative, avere delle tutele professionali equivarrebbe a tutelare il nostro patrimonio. Dunque avrebbe un positivo effetto sulla tutela dei beni archeologici del Paese. In questo senso la figura dell’archeologo acquisisce una dimensione pubblica notevole ed è paradossale che nel 2014 non esista un documento che ne delinei la figura professionale. Da qui dovrebbe nascere una forte coscienza di categoria e una maggiore e più importante collaborazione con i colleghi del MiBACT.

 

 

Negli ultimi tempi si è evidenziata una maggiore attenzione da parte delle diverse parti in campo (politica, associazioni professionali, mondo accademico, singoli professionisti) verso i problemi delle professioni culturali. Ad oggi però, al di là dell’approvazione alla Camera della pdl 362, non si sono visti ancora interventi decisivi per migliorare le condizioni lavorative dei professionisti del settore. Quali sono, secondo te, le battaglie da portare avanti oggi per noi professionisti? (es volontariato, codice appalti, norma Uni, etc.)

 

 

Una struttura che rappresenti la nostra professione risulta indispensabile, ovvero un’associazione di categoria. In questo, un grosso aiuto ci è stato fornito dalla legge 4/2013 sulle professioni non regolamentate da ordine od albo. Questa ne prevede la definizione attraverso una norma UNI, e associazioni di categoria che se ne facciano garanti. In tal senso la CNAP, insieme a CIA e FAP, sta perseguendo il percorso realizzando una norma UNI (che corrisponde alla definizione della professione e dei suoi ambiti di intervento) strutturata secondo i livelli dell’European Qualification Framework (EQF) in base a requisiti di titoli, competenze e abilità. Con una struttura del genere, definita secondo termini di legge, potremmo affrontare il gravoso problema dei contratti, la tutela professionale, interloquire col MiBACT per una maggiore capacità di intervento, col MIUR per integrare e aggiornare la formazione dei professionisti.

 

Sono contrario al volontariato, in particolare se utilizzato per sostituire i professionisti: l’archeologia è una scienza che richiede un’alta professionalità da parte di chi vi opera e questa va riconosciuta. Operiamo su beni culturali, beni pubblici, e la mia idea è che gli interventi sui beni archeologici debbano essere regolamentati diversamente, rispetto all’attuale codice dei contratti. Penso che quando si stanziano fondi per un’opera pubblica, una percentuale fissa, l’1-2%, debba essere destinata alle attività relative ai beni culturali, scavi, restauri, etc, senza la mannaia dei ribassi. In tal modo avremmo anche numerosi fondi da destinare alla tutela.
Oggi ci si trova spesso di fronte ad una bassissima qualità scientifica e a condizioni contrattuali al limite della dignità per chi opera: e le due cose sono strettamente interdipendenti.

 

 

È innegabile che ci siano tre anime da conciliare nell’archeologia italiana: università, ministero e professionisti. La quadratura del cerchio ti sembra più o meno vicina che in passato?

 

 

Rispetto al passato il ventaglio di archeologi delle tre anime aperte ad una conciliazione è molto più ampio. In questo ha aiutato il cambio generazionale che sta avvenendo nel MiBACT e nel MIUR. Tra i professionisti c’è stata sempre una chiara apertura in questo senso, anche se inficiata da una altissima “mortalità” professionale. Penso che i tempi siano maturi, anche perché c’è il rischio di perdere un’occasione quasi unica, agevolata da una classe di professionisti di altissima qualità, costituita dalle generazioni dei nati fra la seconda metà degli anni ’60 e gli anni ’70, operanti in tutti e tre i contesti. Dobbiamo impegnarci a ridurre i tempi, proprio per salvaguardare la nostra professionalità e la nostra esperienza.

 

 

Nota dolente: la formazione universitaria. I laureati o specializzati in discipline archeologiche hanno, a tuo parere, gli strumenti per entrare nel mondo del lavoro? Dove bisognerebbe intervenire? Cosa manca e cosa invece ci rende eccellenza?

 

 

Al momento, la formazione universitaria risulta piuttosto carente riguardo alla parte pratica. In particolare è poco formativa nel settore dell’archeologia pubblica, ovvero la parte preventiva, preliminare e di scavo d’emergenza. Purtroppo il contesto lavorativo richiede tempi e modi diversi. In questo l’università dovrebbe, a mio avviso, aprirsi ad una stretta collaborazione col mondo dei professionisti. Un esempio classico è la fase preliminare: far fare l’assistenza ad un giovane collega neolaureato senza esperienza significa mandarlo allo sbaraglio. Ritengo comunque che la formazione offerta dalle università italiane costituisca tuttora un’eccellenza, da integrare e rendere ancora più di qualità attraverso maggiore attività pratica, rispondente alle esigenze del mondo del lavoro: per esempio un contratto di apprendistato potrebbe integrare le fasi finali del percorso formativo.

 

 

Ultima domanda: chi può definirsi secondo te “archeologo”?

 

L’archeologo è un professionista, con un’adeguata formazione universitaria, integrata dall’esperienza acquisita, che opera sui beni culturali in maniera scientifica. Che abbia una forte cognizione del suo ruolo pubblico, perché i beni culturali sono beni comuni, perché indaga il passato e lo rende fruibile, stimolando e cementando il senso di appartenenza ad una comunità di tutti gli individui che vi appartengono.

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

 

In Francia l’archeologia apre le porte al pubblico. E da noi?

Ieri sul nostro profilo twitter abbiamo segnalato una notizia che, secondo noi, squarcia il velo di Maya sul modo di percepire e vivere l’archeologia in Italia.

 

Si tratta di un’iniziativa d’oltralpe, dei cugini francesi, in cui l’archeologia è la protagonista. Un’archeologia vissuta nell’ottica della divulgazione da parte degli addetti ai lavori e della partecipazione da parte del pubblico.

 

Di cosa stiamo parlando? Parliamo di come, per i prossimi tre giorni a partire da oggi, l’archeologia francese apre le sue porte a chi archeologo non è.  Porte intangibili, ma che a volte appaiono impossibili da buttar giù, chiusa com’è la nostra archeologia dietro le transenne dei cantieri o tra le mura delle aule, dei laboratori.

 

Le Journées nationales d’Archéologie, giunte alla quarta edizione, sono il modo attraverso cui l’archeologia che tanto scopre si lascia scoprire, aprendo in via eccezionale aree archeologiche, organizzando mostre e dibattiti pubblici, incontri con gli archeologi, animazioni, rappresentazioni storiche e sì, portando la gente anche sui cantieri. Tutto nello spazio di un lungo weekend.

 

La mission è chiara:

Elles mettent en lumière les aspects les plus divers de l’archéologie et permettent au public de découvrir la discipline à travers des initiatives originales dans des lieux ouverts exceptionnellement le temps d’un week-end.

 

Il pubblico ha così l’occasione di visitare un cantiere di archeologia preventiva, di capire perchè i lavori pubblici per la costruzione di quel parcheggio sono fermi, cosa rivela la stratigrafia formatasi nei secoli, cosa fa davvero un archeologo.

 

Un’iniziativa di questo tipo ha il pregio di contribuire a creare un nuovo immaginario della figura dell’archeologo, che non è più Indiana Jones, ma un professionista che passa le sue giornate a lavorare nello stesso spazio urbano in cui vive la cittadinanza, diventa un cittadino che svolge una professione utile alla collettività. E la collettività diventa partecipe del suo lavoro.

 

E pubblicità e promozione? Ne paniquez pas! Se ne occupa il ministero, in collaborazione con l’Inrap (Istituto Nazionale francese di Archeologia Preventiva), che ha caricato sul sito ufficiale dell’iniziativa persino i manifestini da stampare e diffondere in giro per la città.

 

Ma come fa il cittadino a sapere quali posti sono aperti e quali no?

 

Semplice. Mettiamo vi trovate in Aquitania (beati voi!). Vi va di visitare un vero cantiere archeologico? Una comoda funzione di ricerca vi permette di cercare tutti gli scavi aperti in quella regione. Potete leggere l’apparato informativo, vedere i nomi di chi ci lavora, visitare la pagina Fb o il sito internet se c’è. E poi via, si consulta la mappa e si parte, a vivere un fine settimana di cultura in cui sono gli archeologi veri, e non quelli dei film, a raccontare come funziona l’archeologia. E se si ha tempo, e voglia, ecco a vostra disposizione tutte le notizie sulle iniziative archeologiche della regione selezionata.

 

Bello no?

 

Bello sì, e la cosa che più ci ha colpiti è che alla fine si può compilare un ‘questionario di gradimento’ perchè se c’è qualcosa da correggere, il prossimo anno, la festa viene meglio.

 

A noi di Professione Archeologo PIACE.

 

E lanciamo una provocazione: perchè non farlo in Italia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EA: Emergenza d’Archeologia (Episodio sesto) ~ di Paola Romi

1.06 – Speriamo che sia femmina!

 

Saggi non so, ma donne nella nostra professione ce ne sono a bizzeffe. Se c’è una questione che le nostre indaffarate associazioni di categoria non dovranno mai porsi è quella delle c.d. Quote Rosa. Ma cominciamo dall’inizio.

 

Essere donna in un qualsiasi cantiere e/o scavo che non sia universitario è un’esperienza alquanto complessa e particolare. Per me, a margine di un po’ di anni passati fra assistenze in corso d’opera e indagini preliminari, alla fine pure, in parte, divertente.

 

Perché, bisogna dirlo, come ogni elemento estraneo posto all’interno di un gruppo omogeneo, noi attiriamo attenzione e attenzioni. E così in un ambiente indubbiamente machista per numeri e tradizione, l’arrivo di un’esponente del gentil sesso è quasi sempre accolto con malcelati sorrisi e più o meno opportune considerazioni. Non conta quanto sei avvenente, conta che non sei un uomo. Punto. La strada sembrerebbe spianata, qualcuno si rende disponibile  ad aiutarti, altri si informano sul tuo stato civile, i più audaci partono con offerte varie…dal caffè a tutto quello che osate immaginare. Un ingiusto idillio, penserà  invidioso il nostro collega maschio, a cui gli stessi attori ringhiano appena oltrepassa la recinzione. No, non esattamente. Perché appena ti arrischi a fare il tuo lavoro, che sia fermare le lavorazioni o spiegare a qualcuno come si deve scavare, spesso crolla il castello. Non a tutti piace ricevere ordini da una donna. Se poi la signora o signorina è particolarmente autoritaria gli epiteti, anche solo pensati, si sprecano. Ma si sopravvive, eccome se si sopravvive, prendendo tutto con ironia, incrementando il proprio repertorio di sorrisi e velate minacce, avendo tanta pazienza e fantasia. Tutte materie assenti nei curricula universitari, ma necessari quanto Harris.

 

Quando poi la giornata sarà finita e penserai  di aver momentaneamente vinto, mentre lungo la strada ti avvicinerai al mezzo che ti porterà a casa, tanto per non perdere il ritmo, qualcuno di passaggio, nonostante gli scarponi,  ti chiederà : “Scusa, quanto vuoi?”.

 

Non facciamoci illusioni, anche se a volte qualcuno, parlando dell’archeologo che deve arrivare dice: “Speriamo che sia bionda! Speriamo che sia femmina! Speriamo che…”  per chi svolge il nostro ruolo non ci sono sconti, mai.

 

Tuttavia, prima di iniziare un nuovo lavoro anche noi possiamo invocare qualcosa, la Terra, sperando che sia Feconda di nuove Scoperte.

 

Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium

EA: Emergenza d’Archeologia (Episodio quinto) ~ di Paola Romi

1.05 – Tempi Moderni

 

Ci sono periodi in cui la sorte ci assiste, la fortuna ci aiuta e la nostra bravura ci supporta.

 

Ci sono cantieri in cui la fortuna ci arride ed il rinvenimento di complesse preesistenze ci conforta. Ci sono momenti in cui davanti alla ricchezza del sottosuolo e del passato ci convinciamo che non abbiamo sbagliato mestiere.

 

Ci sono giorni, mesi, e a volte anni in cui pensiamo che le nostre tribolazioni professionali abbiano un senso. E il senso è lì, davanti ai nostri occhi, sotto le nostre mani.

 

Poi, spesso, arrivano grigi attimi in cui tutto viene avvolto in sudari di tessuto non tessuto. Seguono lunghi giorni in cui guardando la ricopertura dello scavo ci viene voglia di vestire di nero. Ci sono volte in cui ciò non succede, ma troppo spesso sì. E alla fine di gioiose giornate, gravide di scoperte e problemi, ci  sentiamo come un ingranaggio.

 

Ci sentiamo strumento  di speculazioni e complici dello scempio del territorio.

 

Alla fine ci viene il dubbio di essere parte di una catena di smontaggio.

 

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Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium

 

Da oggi Paola entra ufficialmente a far parte dello staff di Professione Archeologo. Benvenuta a bordo, Paola!

Emergenza d’Archeologia (episodio quarto) ~ di Paola Romi

1.04 – Titanic

 

Era grande e scintillante, maestoso ed imponente. A molti faceva paura, pavidi stavano a guardarlo, rinunciando al pericoloso viaggio, gravido di speranze e promesse. L’oceano del Tempo scatenava atavici terrori, meglio avere poche facili certezze che tanti enormi interrogativi. Pure il nome era difficile, con quel sapore greco, che sapeva di snobismo; ma faceva parte di una grande flotta, bisognava dirlo.

 

E così cominciarono ad imbarcarsi.

 

In prima classe i professori universitari e i loro pargoli, in prima classe bis, che la seconda non c’era,  i dirigenti, i funzionari, i quadri e qualche parvenu proprietario di società. In terza classe poi, loro, i disperati, i lavoratori della strada, i fidi scrutatori  con le unghie sporche di terra, i polmoni rosi dallo smog e la testa piena di sogni.

 

Fu con questo carico che la nave salpò.

 

E a terra il sindaco, il questore, il prefetto, il politico, il conte, i giornali, la radio, le comari: tutti a dire quanto era bello ed importante il transatlantico, tutti a sottolineare come opere del genere potessero salvare l’economia dello scoglio che si trovavano ad abitare.

 

A bordo poi, era tutta una festa, qualcuno in prima classe festeggiava con lo champagne, altri, sempre in prima classe, scolavano il fondo delle bottiglie e si nutrivano di sole briciole. In seconda bis invece no, pasteggiavano con costosissimi vini biodinamici e si nutrivano, a volte, di delizie a km 0, altre di caviale di cui non volevano sapere l’origine. E la terza classe stava a guardare, a tratti schernendoli di mala grazia, a tratti progettando di fondare uno Stato in cui gli alcolici e le prime classi fossero proibite.

 

E così navigando nell’oceano del Tempo tutti imparavano, tutti si interrogavano, tutti credevano che la prospettiva delle loro cabine e cuccette fosse l’unica a restituire la giusta prospettiva delle cose.

 

Ma una notte la festa finì.

 

Dai finestrini videro tutti la stessa immagine: era bianco, grande, abbacinante. Pensarono che il fastoso transatlantico avrebbe retto all’impatto. Ma così non fu. E allora corsero alle scialuppe.  Ma le scialuppe non c’erano perché l’armatore trovava che fossero troppo belle e sontuose per essere tali. Non potendosele permettere le aveva vendute al laghetto del parco di divertimenti, quello profondo un metro.

 

La leggenda narra che forse qualcuno, di terza classe, si salvò. Abituato alla disperazione, agli espedienti,  si sarebbe attaccato a un pezzo di ghiaccio e adesso vivrebbe cacciando foche con un arpione degno del neolitico preceramico.

 

Così si chiude la storia del transatlantico ARCHEOLOGIA naufragato contro l’iceberg della SPENDING REVIEW.

 

Ultim’ora: si attendono ansiosamente notizie circa la navigazione della nave gemella PATRIMONIO ARTISTICO, sembra che anche lei navighi in pessime acque.

 

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Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium

 

 

EA: Emergenza d’Archeologia (Episodio terzo) ~ di Paola Romi

1.03 – Vanilla Sky

 

“Ma non vivrò in una realtà parallela?”.

 

Questo è l’interrogativo che mi gira e rigira nella scatola cranica e spesso, davvero, mi attanaglia il dubbio di abitare una vita artefatta, fondata sull’errore. Non mi riferisco al fatto di aver sbagliato professione, quello, se si pensa alle difficoltà, è un dato di fatto.

 

Situazione tipo. Stai seguendo le operazioni di allargamento di una strada. Dopo la rimozione di un muretto di contenimento del terreno che sovrasta la sede stradale, in sezione, si palesano le tegole della copertura a cappuccina di un’antica inumazione. Di più, se per caso il sole o il gelo ti avessero talmente obnubilato dal farti dubitare dell’unica interpretazione possibile di quello che hai davanti agli occhi, eccole là, due tibie, che spuntano, composte e bianchicce, sopra alle sconquassate ossa dei piedi. La natura di quello che vedi ti sembra talmente evidente che non ti perdi in chiacchiere, tiri fuori i pennelli e, cercando di non complicare la vita all’amico antropologo, ripulisci il contesto.

 

Ed ecco, in questo momento di concentrazione, sommessa gioia e relativa tranquillità, arriva qualcuno, un qualcuno che credevi dotato di raziocinio, giunto a ripeterti, per cinque o sei volte, che quella che stai scavando è la recentissima sepoltura di un cane. Con inaspettata ironia lo zittisci, con inaudita crudeltà lo inviti a mostrare le ossa della sua caviglia per fare un confronto. Annientato, lo sfortunato geometra, batte in ritirata fra l’ilarità generale.

 

Dopo scene come questa, legate anche a evidenze meno inequivocabilmente interpretabili, dopo commenti e valutazioni, non sempre simpatiche e generose, dei rinvenimenti, ma soprattutto a margine di discussioni con persone dotate di un alto profilo professionale e culturale, che fanno altri mestieri, mi domando sempre: “Perché?”.

 

Perché non capiscono l’importanza di quello che facciamo, delle cose che analizziamo e di quelle che tuteliamo? Forse viviamo in una dimensione onirica che gli altri non comprendono.

 

Ed in preda a questa invisibile alienazione qualcosa mi dice: “Apri gli occhi!”. Non siamo noi a non esistere, è la comunicazione del nostro lavoro ad essere inconsistente. Manca la narrazione del passato fuori dagli stereotipi di Voyager, manca la divulgazione vera. Se non troviamo il modo di trasmettere il senso, la bontà ed i risultati anche del più piccolo scavo di emergenza siamo destinati ad una perenne scissione dal resto della popolazione.

 

Ci condanniamo da soli a popolare, con i soli nostri simili, un’eterna Life extension, gratuita, problematica e sterile.

 

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Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium