Diario dall’Iraq. Ritorno ad Abu Tbeirah
Nasiriyah alle 5 del mattino è una città brulicante di vita: è buio tutto intorno, le luci dell’alba stentano a squarciare il tappeto di nero e stelle e l’afa ancora non toglie il respiro come sarà tra qualche ora. Eppure la sveglia è suonata già da un po’ per gli abitanti della capitale del governatorato del Dhi Qar e il muezzin ha ormai fatto sentire il suo richiamo nella notte prossima a svanire.
Anche noi siamo in piedi da un’ora e con gli occhi incollati di sonno abbiamo fatto già colazione, preparato le borse per lo scavo e caricato tutto sul furgoncino Iveco che tra poco ci lascerà sul tell di Abu Tbeirah.
Ma prima di arrivare a destinazione resta il tempo per riempirsi gli occhi di frammenti di vita medio orientale: la frenesia di macchine, taxi, motociclette che sfrecciano per le strade della periferia, uomini in dishdasha e kefiah che fanno l’autostop lungo le strade che attraversiamo, donne avvolte dall’abaya che si incamminano a piedi verso il mercato, negozi aperti e illuminati da luci al neon con la mercanzia accatastata fuori, officine meccaniche in piena operatività, venditori ambulanti che sciacquano il pesce a bordo strada ed espongono la frutta sulle bancarelle, i primi avventori che curiosano e girovagano tra la merce, e gli immancabili camion che formano file interminabili già al mattino presto nei pressi dei check point.
Prima di arrivare sul tell, oltrepassiamo infatti diversi posti di controllo (i check point appunto) non senza aver mostrato i passaporti e atteso a bordo strada il lasciapassare. Non dobbiamo dimenticare che l’Iraq è un Paese che pian piano sta risalendo da una china durata decenni di guerre e che la sicurezza rimane ancora un tema prioritario.
Dopo una breve sosta per caricare l’acqua da bere indispensabile per la sopravvivenza durante la giornata di scavo nel deserto, siamo pronti per saltare giù dal furgone e atterrare sulle croste di sale.
Quando si cammina sul tell di Abu Tbeirah si vive questo curioso fenomeno che potremmo *scientificamente* definire “crunch crunch”: si cammina cioè su una sottilissima crosta di sale che, pestata dagli scarponi, scricchiola, rivelando al di sotto lo strato di sabbia e argilla sul quale si è depositata.
Avete presente quando Indiana Jones e Willie camminano nella stanza degli insetti facendo appunto crunch crunch con i piedi?
Beh il suono è quello là.
E la presenza del sale non solo si vede in superficie ma anche sotto: fa una certa impressione per esempio trovarsi in mano frammenti di ceramica completamente ricoperti da cristalli di sale oppure intercettare sale solidificato nell’interfaccia tra gli strati archeologici.
Si tratta cioè del fenomeno post deposizionale detto di salinizzazione, ben spiegato da Licia Romano:
The salt crystals infiltrate the soil and then “burrow” towards the surface through the empty spaces generated by differences in consistency. For example, the maximum concentration of salt crystals is usually found on the vase/shard surfaces (both external and internal in entire vessels) and inside bones. In particular, bones and pottery shards (especially those coming from the surface) are flaked apart due to the accumulation and expansion of salt crystals. In combination with the continuous passing of wheeled and heavy vehicles on the Tell in the years preceding the beginning of the excavation, salt accumulation caused a peculiar phenomenon: the compression realized by vehicles also affected the underlying layers, causing post depositional accumulation and creating white parallel sub-traces that can continue for at least on meter under the original surface. The accumulation of salt between different strata is however a good indicator for understanding the stratigraphy: the extreme difficulty in discerning clay strata one from the other is sometimes mitigated by the accumulation of salt at the interface of the units of stratigraphy (US)
(Licia Romano, Abu Tbeirah and Area 1 in the Second Half of the 3rd Mill. b.C., in Abu Tbeirah Excavations I. Area 1. Last Phase and Building A – Phase 1.)
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Quelli che vedete sono cristalli di sale formatisi su un frammento ceramico rinvenuto ad Abu Tbeirah (Iraq)Incredibile…
Publiée par Professione Archeologo sur Samedi 19 octobre 2019
Potete quindi ben immaginare la difficoltà di uno scavo stratigrafico in presenza di fenomeni post deposizionali così marcati e ancora di più la complessità nello scavo e rimozione delle sepolture, quando le ossa risultato “incastrate” tra cristalli di sale.
Il primo insegnamento appreso qui è dunque “La strada dello scavo stratigrafico è lastricata di sale”.
E mentre nel cielo di fronte a noi si fronteggiano, sfidandosi cromaticamente, la bianca luna calante e il sole che infuocato inizia ad alzarsi sulla linea dell’orizzonte, si palesa il secondo grande insegnamento per un archeologo che scava ad Abu Tbeirah “Qui una volta era tutta argilla. E anche adesso”.
Il che banalmente vuol dire che gli antichi abitanti di quella che doveva essere una città di una certa importanza nel Sud della Mesopotamia, dotata anche di un porto sull’Eufrate, facevano tutto con l’argilla:
- Cocci: d’argilla
- Mattoni: d’argilla
- Fondazioni: d’argilla
- Pavimenti: d’argilla
https://www.facebook.com/AbuTbeirah/photos/a.747858345273361/2581626178563226/?type=3&theater
E indovinate gli strati di obliterazione che matrice hanno? Ovviamente argillosa!
Oppure quando la fortuna è dalla nostra parte, la matrice è argillo-limosa.
Lasciate ogni speranza o voi che entrate, direbbe il Sommo Poeta.
E invece il segreto è armarsi di tanta pazienza, sgrattare ben bene gli strati (pulizia archeologica, remember?) e farsi coadiuvare attivamente dagli operai iracheni, che si rivelano una risorsa preziosissima in queste circostanze, abituati come sono a scavare stratigrafie di mattoni crudi.
Tra schede US, stazione totale, scavo a mano, schede oggetti, le giornate trascorrono abbastanza rapidamente in cantiere, nonostante il caldo e la fatica.
I primi giorni di scavo di questa campagna 2019 si sono concentrati a inizio ottobre quando le temperature toccano ancora i 45°: l’afa rende faticoso muoversi e quindi idratarsi costantemente è l’unico modo per evitare colpi di calore. L’altro segreto è fasciarsi integralmente il volto, lasciando scoperti solo gli occhi: che sia con una sciarpa, una fascia, un foulard o la più araba kefiah, coprire del tutto il viso aiuta a proteggersi tanto dal sole quanto dal vento che ogni tanto si alza nel deserto e schiaffeggia la pelle con i suoi minuscoli granelli di sabbia.
Questi 15 giorni ad Abu Tbeirah, la mia prima campagna di scavo in Medio Oriente, sono infine trascorsi.
Velocemente, pieni di emozioni, ricchi di parole, riempiti da immagini.
Eppure se penso al mio arrivo in Iraq l’anno scorso rivivo la sensazione di spaesamento dovuta allo shock culturale che mi ha investita in pieno: un confronto brutale con paesaggi diversi, abitudini diverse, stile di vita diverso.
Addio comfort zone!
Ed è proprio nel buttarsi alle spalle quelle certezze stratificate da abitudini di vita consolidate negli anni, volgendo invece lo sguardo oltre un limite immaginario, che si scopre la bellezza e la varietà del mondo.
Ad Abu Tbeirah l’anno scorso avevo lasciato un pezzo di cuore come blogger, quest’anno ne ho lasciato un altro come archeologa.
Nel frattempo aspetto l’anno venturo.
Antonia Falcone
Le puntate del Diario dall’Iraq 2018 le trovate QUI, QUI, QUI e QUI