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Archeologi scopritori di tesori? Anche no

Negli ultimi giorni non si è parlato d’altro: la straordinaria scoperta delle 300 monete d’oro di Como.

 

Immaginiamo che per gli archeologi che erano lì sul campo sia stata un’emozione indescrivibile rintracciare tra le pieghe della terra un vero tesoretto, intravedere tra il marrone degli strati lo sbrilluccicare dell’oro. E non possiamo che fare i complimenti ai colleghi e anche un po’ invidiarli.

Sono già stati scritti fiumi di inchiostro sulla scoperta dell’anno e le nostre bacheche social sono state invase dall’immagine del vasetto ricolmo di “zecchini d’oro”.

 

Un rinvenimento che ha entusiasmato non solo gli archeologi, ma soprattutto i non addetti ai lavori che in questa scoperta hanno visto avverare le proprie convinzioni: gli archeologi scavano e trovano tesori.

 

Eppure non è proprio così che funziona. Al di là di un singolo e importante rinvenimento il mestiere dell’archeologo, acquisito dopo anni di studio ed esperienza sul campo, ha come finalità quella di riconoscere e interpretare le tracce del passaggio dell’uomo sulla terra, individuando le modificazioni e il suo interagire con l’ambiente circostante.

 

“L’archeologia non studia ‘prodotti archeologici’, semplicemente perché questi non esistono. Recupera, studia e interpreta resti materiali mobili e immobili delle civiltà trascorse, che solo nel momento in cui vengono sottoposti ai metodi della conoscenza archeologica diventano, appunto, archeologici. Tra questi sono i più umili cocci, i resti di semi o di ossa, i rocchi di una colonna crollata come le più eccelse manifestazioni dell’arte, antica o no che sia. L’archeologia è quindi una grande scatola in cui sono virtualmente conservate le memorie materiali del passaggio dell’uomo sul pianeta: i resti del lavoro umano nella sua infinita fatica di convivere con i suoi simili e con l’ambiente che tutti ci accoglie[1]”.

 

Ma nonostante manuali, articoli, documentari è ancora duro a morire lo stereotipo dell’avventuroso esploratore che porta in luce antiche vestigia del passato, un po’ per caso un po’ per fortuna.

 

Complici del permanere di questa visione ottocentesca della disciplina spesso sono i mass media, intesi sia come giornali e televisioni che come i moderni mezzi di comunicazione, magazine online, blog e riviste che rilanciano le scoperte archeologiche con titoli di sicuro effetto click semplificando una realtà spesso complessa.

 

Per dirla in altre parole la straordinarietà della scoperta di Como non sta unicamente nel valore in sé degli oggetti, quanto piuttosto in ciò che quell’anfora può raccontarci, sigillata in un momento preciso della storia degli uomini e delle donne che hanno vissuto nell’antica Como.

 

Ed è proprio in virtù del valore “estrinseco” del rinvenimento archeologico, cioè legato al suo contesto e inteso come parte di millenarie interazioni tra gli uomini e tra questi e l’ambiente, che anche un minuscolo frammento di anfora o di ceramica d’impasto, magari brutti per i canoni ancora estetizzanti nella percezione dell’antico, possono rivestire un’importanza pari a quella di 300 monete d’oro. Perché ci narrano a livello minuto la vita quotidiana nell’antichità o perché ci aiutano a datare azioni (strati) e a collocarle nel tempo.

 

A molti archeologi sembrerà scontato un discorso metodologico così banale, eppure ognuno di noi si è ritrovato in cantiere a dover rispondere alla famigerata domanda “cosa avete trovato?”, dove questa sottintende “cosa (di prezioso e unico) avete trovato?”

 

Ebbene, ogni singolo rinvenimento è prezioso e unico perché viene fuori dalla terra dopo secoli o millenni e arriva tra le nostre mani per essere compreso e interpretato, non esibito come un trofeo.

 

È vero che gran parte del fascino della nostra professione risiede proprio nel concetto di scoperta e che quando diciamo “io faccio l’archeologo”, ai nostri interlocutori si illuminano gli occhi mentre contemporaneamente vedono scorrere davanti a loro immagini di templi maledetti, di statue dalle morbide forme o di gioielli intarsiati.

 

 

Ma per la sopravvivenza stessa della nostra disciplina dobbiamo essere in grado di mantenere il punto e non farci fuorviare da facili ammiccamenti. Dobbiamo ricordare a noi stessi ogni giorno che anche se non troveremo mai la tomba di Alessandro Magno, nella nostra lunga carriera di archeologi avremo comunque avuto il privilegio di toccare con mano quello che lo scorrere inesorabile del tempo ha sepolto per riconsegnarcelo frammentario e spesso incomprensibile. 

 

Compito dell’archeologo, in questi anni di facili sensazionalismo, di nuove Pompei o Atlantidi portate alla luce ai quattro angoli del globo, è quello di sapere raccontare cosa facciamo, come trascorriamo le nostre giornate in laboratorio a fare noiose seriazioni crono tipologiche o a tentare di ricostruire il paesaggio antico, per evitare di trovarsi vittime della maledizione delle “quatto pietre” che di certo non hanno il luccichio dell’oro.

 

Concludiamo quindi questa breve riflessione con alcune delle risposte che gli archeologi ci hanno dato su Instagram alla domanda “Qual è stato il momento più emozionante che avete vissuto come archeologi?”

 

martabisello

Tanti bellissimi momenti 😍…ma in generale quando nello scavo siamo riusciti a cogliere la sequenza degli ultimi attimi prima che lo strato fosse sigillato…

 

tosca_flavia

Un “banalissimo” piano di calpestio ben evidente in stratigrafia durante uno scavo al palazzo di Festos. Ovviamente, come ogni buona campagna di scavo che si rispetti, il tutto messo in luce l’ultimo giorno 😫😁

 

clodegio

Villaggio dell’età del bronzo di Ustica (Palermo): macine, pestelli, vasi integri e manufatti di ogni tipo sopra l’ultimo piano d’uso prima dell’abbandono improvviso.

 

veronica_sadge

Il ritrovamento di un pezzetto di metallo, forse una lega con il piombo, dalle forme così strane da non essere ancora stato identificato e che ha fatto dannare i professori durante l’intero scavo.

 

giselle.enchanted.crafts

Quando ho scavato la tomba di un bimbo entro un’anfora….da mamma mi sono commossa

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

 

[1] Daniele Manacorda, L’archeologia non è solo arte, pubblicato in Il Sole 24 Ore, Domenica 20.3.2016