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Milano Sepolta, una mostra fotografica per raccontare l’archeologia urbana

“Milano sepolta. Dieci anni di archeologia urbana a Milano” è il titolo della mostra fotografica in corso al Civico Museo Archeologico di Milano fino al 13 maggio e inaugurata il 2 marzo. Si tratta di un percorso espositivo che racconta gli scavi archeologici condotti nel decennio 2005-2015 nel capoluogo lombardo.

 

Mappa dei ritrovamenti e delle foto presenti in mostra

 

Appena ho letto il titolo dell’esposizione mi è venuto naturale pensare che la parola Milano potrebbe essere sostituita agevolmente con una qualsiasi città italiana dove le attività di tutela portano spesso alla luce dal sottosuolo tracce del passato.

 

Laddove la normativa lo prevede, infatti, i lavori di scavo in aree urbane vengono monitorate dagli archeologi “guardatori di ruspa” che hanno il compito di verificare l’assenza o presenza di manufatti e materiali archeologici. La cosiddetta archeologia d’emergenza, quella che nella maggior parte dei casi dà lavoro a chi decide di intraprendere la strada da archeologo. Lo stesso tipo di lavoro che fa urlare al rallentamento degli scavi o all’intralcio degli archeologi rispetto al progredire della cementificazione di intere città.

 

Un mestiere, il nostro, che, come ben sappiamo, è fatto di odi et amo da parte dei non addetti ai lavori, pronti ad emozionarsi per la scoperta di una nuova tomba e allo stesso tempo a lamentarsi quando il cantiere occupa temporaneamente posti auto o interrompe la viabilità corrente.

 

Come fare dunque a conciliare questa continua oscillazione percettiva nei confronti della nostra disciplina? Come spiegare che quella tomba o quella villa sono stati scoperti proprio perché le norme sui Beni Culturali prevedono che i lavori di scavo vengano seguiti da un archeologo? Come spiegare che tutto ciò che viene portato alla luce è patrimonio comune e racconta la storia delle nostre città, la stratificazione di vite che hanno abitato e vissuto quegli stessi luoghi che ogni giorno calpestiamo frettolosamente andando al lavoro?

 

La risposta sta in una semplice constatazione che a volte sfugge anche a molti operatori archeologi ed è “ridare un senso a quello che facciamo attraverso la valorizzazione e comunicazione del nostro lavoro”. Niente di più facile: si scava, si documenta e poi si illustra alla cittadinanza perché quell’area della città è stata oggetto del lavoro di ricerca scientifica degli archeologi, cosa ci hanno guadagnato i cittadini in termini di conoscenza della propria storia passata e di arricchimento del patrimonio culturale.

 

Il senso dell’archeologia urbana è quello di andare a ritroso nelle vicende urbanistiche metropolitane per indagare le trasformazioni di un tessuto connettivo fatto di abitazioni, luoghi di culto, botteghe, cimiteri, strade, attività produttive, cercando di avvicinarsi quanto più possibile alla definizione e posizionamento topografico di tutto ciò che nel corso dei secoli ha definito il vivere insieme. Come quando tra molti secoli gli archeologi del futuro scaveranno le nostre città e individueranno il quartiere della movida, quello dello shopping, quello residenziale, lo stadio e così via, e in questo modo racconteranno la storia di noi che quei luoghi li abitiamo oggi.

 

Ogni scavo archeologico dunque dovrebbe essere fatto di un Pre, un Durante e un Post.

 

  • Pre: raccolta della documentazione volta a mettere insieme tutti i dati che possano fornirci informazioni sull’area che andiamo ad indagare (documenti d’archivio, fonti, foto storiche, etc)

 

  • Durante: le attività di scavo vere e proprie, condotte stratigraficamente e documentando tutto quanto viene alla luce, posizionando i ritrovamenti in modo che chi verrà dopo di noi saprà esattamente dove si trovava cosa.

 

  • Post: Non Pervenuto. Cioè il Post scavo dovrebbe consistere innanzitutto nella pubblicazione di quanto emerso e poi nella divulgazione e comunicazione alla cittadinanza dei risultati delle indagini effettuate. Cosa che avviene assai raramente per i motivi più disparati, non ultimo la carenza di fondi per la valorizzazione e la comunicazione.

 

Tutta questa premessa mi è sembrata necessaria per darvi più di una ragione per approfittare dell’ultima settimana di esposizione e precipitarvi a vedere la mostra “Milano Sepolta”. Dichiarazione programmatica degli organizzatori è quella di aver voluto la mostra per rendere partecipe la collettività non soltanto di quanto emerso durante gli scavi archeologici condotti nel decennio 2005-2015 in diverse aree di Milano, ma soprattutto per far emergere il duro lavoro degli archeologi per riportare alla luce, tutelare e valorizzare i beni archeologici.

 

Ph. Credit: Pietro Mecozzi

 

Un’attenta selezione d immagini di scavo, rievoca la memoria di questa realtà, parte integrante dell’anima della città, prima che venga definitivamente perduta

 

Un esperimento riuscito che speriamo davvero possa fare da apripista per altre città.

 

Ph. credit: Pietro Mecozzi

 

Lancio qui la mia proposta al Ministero: perché non pensare ad istituire “la settimana dell’archeologia d’emergenza” mettendo in calendario mostre, eventi, conferenze in tutta Italia per raccontare cosa c’è dietro le transenne dei cantieri urbani?

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

 

L’esposizione è promossa dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la Città Metropolitana di Milano e dal Civico Museo Archeologico di Milano, progettata da Pietro Mecozzi e Ilaria Frontori con le fotografie di P. Mecozzi, A. Baudini, V. Borroni, F. Manfredini e M. Pessina.

 

L’esposizione è visitabile negli orari di apertura del museo all’interno del percorso di visita alle collezioni con il biglietto di accesso al museo.

 

Bio dei curatori:

 

Ilaria Frontori: attualmente assegnista di ricerca in Archeologia Classica presso l’Università degli Studi di Milano e direttore tecnico per la missione di scavo a Nora (CA), si occupa dello studio di Milano romana, in particolare degli aspetti funerari e urbanistici. Collabora da oltre 10 anni con aziende private ed enti pubblici per scavi di emergenza e indagini di archeologia preventiva.

 

Pietro Mecozzi: archeologo e antropologo da campo, si è laureato presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi di archeologia funeraria. Collabora con l’ateneo milanese alle missioni di Nora (CA) e Gortina (Creta) e lavora a scavi d’emergenza in tutto il nord Italia dal 2005. Appassionato di fotografia da sempre, è al suo secondo progetto.

 

La paghetta dell’archeologo (o una storia come tante)

Oggi parliamo di soldi, e partiamo da un assunto imprescindibile: il lavoro va pagato. Sempre. Anche quando è mascherato da “gavetta” necessaria o quando da più parti ci si sente dire che il nostro è più che altro un “hobby”. E quanto guadagna un archeologo oggi? Ecco, ci piacerebbe un confronto con voi.

 

Io posso raccontarvi la mia esperienza da archeologa, iniziata nel 2007 e conclusasi qualche mese fa.
Maggio 2007: laurea e invio curricula.  Settimana successiva, due colloqui. Colloquio 1: cooperativa, 42 euro netti al giorno, primo pagamento dopo 5-6 mesi, poi assicurata regolarità nei tempi di pagamento.  Colloquio 2: Società, 50 euro netti al giorno, primo pagamento dopo 3 mesi, poi garantita regolarità nei tempi di pagamento. Forme contrattuali: non me lo ricordo, ma certamente collaborazione occasionale e simili.
Accetto la seconda offerta.
Lavoro per circa un anno con continuità, tutti i giorni, facendo la nomade per tutte le zone della capitale. Ovviamente niente rimborso spese, ovviamente anche due cantieri in un giorno solo. Ovviamente non puoi rifiutare, sennò “ce ne sono altri che accetterebbero subito”. Prima paga dopo tre mesi, seconda paga due mesi dopo e così via, vivendo di circa 1000 euro pagati ogni due mesi.

 

“Ma tanto è inutile che li chiedi, a noi non pagano le fatture”, e nel frattempo la società prende lavori in tutta Roma. Tanti lavori.

 

Collaborazione occasionale per il primo anno (non chiedetemi altri particolari perché non lo so, prima esperienza lavorativa e conoscenza nulla di diritti e doveri di un datore di lavoro e di un lavoratore. Queste cose non le insegnano all’università) e ogni mese la promessa di un contratto a tempo determinato, “perché vogliamo investire in chi lavora con noi.”

 
Dopo un anno arriva la fatidica richiesta, camuffata da proposta a tuo vantaggio: “Perché non apri la partita iva?”

 

La pillola amara viene mandata giù con lo zuccherino: ci fatturi 1400 euro netti al mese e in cambio, oltre alle 8 ore di cantiere, ti occuperai anche dell’editing delle documentazioni archeologiche in ufficio. Si sta fuori casa dalle 6 del mattino alle 19 di sera. Ok, accetto, ignara del trucchetto.

 

Masochismo, speranza di fare carriera, possibilità di avere un futuro facendo il lavoro per cui ho studiato.  Stupidità.

 
1400 euro al mese. Wow.  1400 euro al mese pagati ogni 2-3 mesi.  1400 euro, praticamente morire di fame. E nel frattempo la società prende lavori, tanti lavori e a noi viene assicurata continuità lavorativa, mai un giorno fermi.

 
2010: nulla di nuovo sotto il sole.  Nessun progresso. Nessuna pubblicazione. Trincee e trincee.

 

Basta.

 

Lascio tutto e decido di specializzarmi, di tornare a studiare.
Cambio di scena: Puglia meridionale.  E per pagarmi gli studi comincia l’invio forsennato di curricula a società e cooperative. Ne risponde solo una. Cooperativa. Colloquio: 50 euro netti al giorno, pagamento a venti giorni. Nella testa solo un’idea: non si transige più a 30 anni suonati, senza garanzia di pagamento con tempi certi non accetto. Garanzia fornita.
E si ricomincia, però… pochi lavori, per lo più a molti chilometri di distanza, nessun rimborso benzina. Primi pagamenti puntuali, poi ricomincia la via crucis. Telefonate per sollecitare, toni gentili, ma tempi di attesa che si allungano.

 

Fino a 2 mesi fa: ci spiace, ma a noi le fatture le pagano a 6-8 mesi, quindi non possiamo dirti con certezza quando ti pagheremo il prossimo lavoro. E poi sai com’è, bisogna farla un po’ di gavetta, tutti abbiamo cominciato così, si mettono i soldi da parte e poi il circolo diventa virtuoso.

 

Eh no.

 

Sono cinque anni che faccio gavetta, da Roma alla Puglia, tra società e cooperative, tra partite iva e collaborazioni occasionali, tempi determinati e chissà quale altra diavoleria – leggi, precariato – e da parte non ho messo un euro.  Smetto.

 

Grazie, ma non faccio la morta di fame con una laurea e una specializzazione. Forse riprenderò, chissà, ma per ora mi piacerebbe poter rispondere ad una domanda: chi ha la responsabilità di questo scempio?  Mi hanno detto tante volte che la colpa è mia, è di tutti noi che accettiamo di lavorare per poco, ma  sarebbe bello andare a fondo per capire cosa c’è sotto il pulpito di chi parla.

 

Io so che dietro chi accetta di lavorare a 40-50 euro c’è l’idea che è bello svegliarsi la mattina per fare il lavoro per cui hai studiato tanti anni, che magari poi le cose cambiano, che appena uscita dall’università non si può mica pretendere chissà che cosa, che magari riuscirai prima o poi a lavorare per le società che pagano bene e non perchè conosci qualcuno, ma solo perché hanno letto il tuo curriculum, che magari se tu fai il brutto muso poi non ti chiamano più.

 

E che se non ti chiamano, poi ti toccherà il call center. Alla stessa cifra, ma con un sogno distrutto dal “Pronto, abbiamo un’offerta telefonica per lei”.

 

Ho deciso di scrivere questo post perché sto seguendo come tutti voi la vicenda Italgas, perché le nostre associazioni di categoria stanno dando un supporto importante a chi ha deciso di denunciare, perché anche i giornali si occupano di noi (link in fondo al post).

 

E perchè è più facile essere in tanti a dire no, che rimanere soli.  Le responsabilità non sono mai dei più deboli.

 

 

@antoniafalcone

 

Articolo di Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera

Nota della Confederazione Italiana Archeologi

Nota dell’Associazione Nazionale Archeologi