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15 domande a… Diletta Menghinello, archeologa on the road

Diletta Menghinello è archeologa e blogger.

 

Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università della Tuscia di Viterbo, si è specializzata presso l’Università la Sapienza di Roma.

 

Archeologa on the road, ha maturato un’esperienza pluriennale nell’assistenza archeologica e nell’archeologia preventiva.

 

Dal 2009 gestisce il Gruppo Facebook USCIRE DAL TUNNEL DELL’ARCHEOLOGIA SI PUO’!!! e nel 2014 ha fondato il blog Archeopatia. Soliloqui, deliri, peregrinazioni e allucinazioni della parafilia dell’antico dai primi sintomi alla completa remissione.

 

Le abbiamo rivolto 15 domande a cui rispondere al volo.

 

Buona lettura!

 

*

 

1 – Nome?

 

Diletta Menghinello [disambiguazione: Diletta è il nome].

 

2 – Età (vera o mentale)?

 

Anagrafica 36. Mentale: a volte 7, a volte 65. Mediamente i conti tornano.

 

3 – Segni particolari?

 

Cinica tendente al nichilismo.

 

4 – Perché hai scelto di fare l’archeologa?

 

Qui devo evocare la nerd che è in me e parlare di “stratigrafie”, se non archeologiche, mentali. Substrato etrusco, madre amante della materia, immotivata avversione per il ben avviato studio paterno da geometra e cieca adesione al dogma radical chic acquisito al liceo classico che la cultura umanistica prima o poi paga. Il tutto drasticamente aggravato dal tentativo non riuscito di laurearmi in Giurisprudenza.

E il fatto che adesso io passi la maggior parte del tempo nei cantieri a rincorrere geometri e ingegneri vari rispettivamente a 1/2 e 1/4 del loro stipendio lo considero un capolavoro di ironia. La vita spesso ha un grande senso dell’umorismo.

 

5 – Perché fai ancora l’archeologa?

 

Perché a parte questo e la cameriera non so fare altro. E il secondo è un lavoro terribilmente faticoso.

 

6 – Che lavoro farai da grande?

 

Sfrutterò in modo ignobile gli averi dei miei avi aprendo B&B e orticelli bio con il recondito pensiero di riservarmi un pezzetto di terra su cui scavare abusivamente nei momenti di noia.

 

7 – Descrivi in tre righe cosa non va nel tuo lavoro.

 

Corruzione e clientelismi vari connaturati all’italico sistema di risoluzione dei conflitti tra pubblico e privato che rendono la qualità del lavoro un optional (se non direttamente un elemento di disturbo) e la finalizzazione ultima dell’archeologia – che è pur sempre una scienza sociale – una pura utopia. La mancanza di una normativa adeguata fa il resto.

 

8 – Un genio può esaudire un tuo desiderio riguardante l’archeologia in Italia. Cosa chiedi?

 

Un Ministro dei Beni Culturali tedesco.

 

9 – Se ti reincarnassi in una delle figure professionali che si incontrano in cantiere chi vorresti essere?

 

Un certo tipo di funzionaria. Quella che arriva scocciata con un ritardo di circa due ore e mezza nel tuo cantiere lustrato per l’occasione, che ti illumina sulla sua meritoria ascesa alla poltrona ereditata dal prozio defunto mentre due valletti le infilano scarpe antinfortunistiche intonse e che se ne va dopo 5 minuti servita e riverita, senza aver colto a pieno la differenza tra una sezione e una pianta. Godrei certamente dei miei primi momenti di gloria sul posto di lavoro. Strano Paese l’Italia…

 

Ora giochiamo:

 

10 – Che libro butteresti dalla torre: Storie dalla terra o L’arte romana nel centro del potere? Perché?

 

Senza nulla togliere al primo, il libro di Bandinelli è una tappa obbligata per lo studente di archeologia e non solo: ben scritto, affascinante, una meravigliosa avventura dell’anima che ti porta a concludere che in fin dei conti hai fatto la scelta giusta nella vita. Forse solo per questo dovrei buttarlo dalla torre. Ma alla fine no, lancio l’altro!

 

11 – Una birra dopo il lavoro con Massimo Osanna o Giuliano Volpe? Perché?

 

Osanna. Alla terza gli estorcerei la promessa di un lavoretto a Pompei.

 

12 – A cena fuori con Bray o Franceschini? Perché?

 

Franceschini. Qualcosa di quell’uomo mi dice che si offrirà volontario per pagare il conto.

 

13 – Puoi scegliere un “archeologo famoso” disposto a passare una giornata con te a guardare l’escavatore. Chi vorresti?

 

Edward C. Harris. Una volta resosi conto del sadismo del suo matrix applicato all’archeologia d’emergenza e fatta pubblica ammenda, acconsentirebbe di sicuro a tornare senza traumi a “strato alfa” e “strato beta”, facendo la felicità di migliaia di archeologi nel mondo.

 

14 – Di chi faresti volentieri a meno in cantiere? Umarells o un caposquadra piacione?

 

Umarells. Mentre infatti il piacione si autodistrugge in tre giorni passando brevemente dal viscidume all’aperta ostilità (a meno che non ci stiate, allora è tutto un altro discorso), il vegliardo ex-ruspista classe ’23 passato indenne ad almeno un conflitto mondiale e agli anni di piombo è praticamente indistruttibile.

 

15 – La tua definizione di archeologia.

 

L’archeologia è soprattutto un disturbo mentale di tipo maniacale. Analizzandola più benevolmente, è quella scienza che, attraverso un impianto teorico da astrofisica ed una rigorosa metodologia chirurgica, si propone di dare risposte perennemente incerte a quesiti ormai passati di moda. Come si vede, anche così si ritorna alla prima definizione.

 

 

 (@pr_archeologo)

Ritorno al futuro (o dell’archeologia come intralcio)

“La Milano medievale sotterranea rischia di complicare l’operazione e rallentare i lavori. Il passato che blocca il futuro”

 

Il passato che blocca il futuro. Questo siamo.

 

Un rischio, ecco a cosa è ridotto il nostro patrimonio storico-culturale. Non un’opportunità, piuttosto un concetto semanticamente opposto.

 

Siamo qui, Italia, 1924.

 

Ah no, 2014.

 

Eppure a leggere le esternazioni del giornalista del Corriere della Sera  sembra di tornare indietro di decenni, quando l’archeologia era sterro e mera “scoperta” di tesori. Tutto qui. Non stratigrafia, nè tutela e valorizzazione, non studio e ricerca, ma ostacolo, forse, di tanto in tanto, celebrazione magnificente della scoperta. E se ancora si incontra qualche nostalgico di quel modo di scavare (una volta un funzionario della Soprintendenza di Roma ha confessato ammiccante: “eh sì che negli anni ’30 sapevano scavare”), noi, tutti gli altri, pensavamo di esserci lasciati alle spalle questo modo di concepire l’archeologia, di aver raggiunto una nuova consapevolezza del nostro patrimonio culturale e del ruolo sociale che gli archeologi rivendicano e devono avere.

 

Evidentemente ci sbagliavamo.

 

Dobbiamo ancora fare amaramente i conti con la retorica degli sventramenti, del progresso a tutti i costi, con quello stesso modus operandi che ha distrutto interi quartieri e testimonianze del passato che nessuno ci restituirà più, che nessuno potrà visitare, conoscere, amare. Non torneranno più.

 

Basta quindi il rinvenimento di una muratura e si affaccia di nuovo pericolosamente l’idea che l’archeologia è un intralcio.

 

Che poi archeologia. Siamo sicuri che di archeologia stiamo parlando?

 

Perché se è così, noi ci eravamo fatti un’altra idea. Perché noi pensavamo che quello che noi archeologi “tiriamo fuori” dal sottosuolo non è nostro, ma appartiene alla collettività, proprio come i tubi del teleriscaldamento di piazza Duomo.

 

La Milano Medievale non è degli archeologi che sono egoisti e odiano il progresso, ma è patrimonio di tutti, da conoscere e condividere.

 

Siamo sicuri di volerne fare a meno?

 

Siamo sicuri di poterne fare a meno?

 

Scrivere che “il passato blocca il futuro” significa due cose. Da una parte si sta attaccando pesantemente una categoria già bistrattata come quella degli archeologi italiani (e non è vittimismo, leggere per credere ), dall’altra questo è un attacco bello e buono al significato stesso di “cultura”.

 

Perché, caro giornalista del Corriere della Sera, archeologia non vuol dire ricordare o insegnare alla gente quale imperatore ha fatto costruire la Basilica di San Paolo o l’Arco degli Argentari, ma significa instillare nei cittadini la consapevolezza che ogni nuova scoperta sia un arricchimento, anche a prescindere da un’auspicabile valorizzazione turistica. Distruggere qualcosa del nostro passato, senza nemmeno documentarlo, è come cancellare interi rami del nostro albero genealogico.

 

Perché a conti fatti l’archeologia è un viaggio nel passato che altera il futuro. L’archeologia serve a comprendere, oltre che a conoscere il nostro passato, e tutte le operazioni che si devono compiere durante lo scavo (documentazione accurata di ciò che si rinviene e della natura delle stratificazioni che si asportano) servono a registrare ed in seguito a capire le informazioni che quelle poche, labili tracce del passato conservate sotto terra, ci forniscono.

 

Una volta un professore mi disse “Il passato è finito, è morto, è sepolto, e quello che rimane sono solo frammenti sparsi di quel mondo scomparso”.

 

Scavare di fretta o peggio distruggere e non scavare nel senso archeologico del termine (con metodo, cogliendo i segni del passaggio degli uomini, documentando passo passo quello che si fa), significa cancellare definitivamente un puzzle di cui non possediamo nemmeno tutti i pezzi.

 

E quel puzzle non solo è patrimonio comune, ma è parte di chi siamo, è il nostro album dei ricordi.

 

Se dimentichiamo o perdiamo il passato, diventiamo come Marty McFly, che per uno sventurato incidente quasi cancella dall’esistenza la sua famiglia.

 

La nostra famiglia, in questo caso, è la nostra collettività. Cancellando pezzi del nostro passato si rischia di non capire più chi siamo. È questo che vogliamo essere? Un paese che non ricorda più chi è?

 

Il passato non blocca il futuro.

 

La conoscenza consapevole e condivisa costituisce invece la fondazione stabile della nostra identità presente e futura.

 

*

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

Domenica Pate (@domenica_pate)

 

 

Un ordinario giorno di archeologia “d’emergenza”

 

La sveglia suona improrogabilmente alle 5.30.

 

Capelli arruffati, occhi semichiusi e il desiderio che una tazza di caffè si materializzi sul comodino.

 

Inizia una nuova settimana di lavoro. Destinazione odierna: suburbio romano.

 

Lavagna, palina, freccia del nord, macchina fotografica sono pronti nello zaino, insieme a block notes, cappellino e crema protettiva. Il sole scotta in cantiere se non c’è neanche un albero a farti ombra e rischiare un’insolazione con il pericolo di stare a casa qualche giorno non è cosa da mettere in conto, soprattutto ora, dopo mesi di pausa forzata.

 

Eh sì perché non tutti i giorni si lavora, ci sono periodi in cui non parte un cantiere neanche se si pregano i Lari.

 

Nessuna esitazione quindi. Si parte.

 

In macchina ci sono già i dispositivi per la sicurezza: caschetto, guanti, scarpe antinfortunistiche e giubbotto catarifrangente, oltre all’immancabile trowel. Il resto del corredo da archeologo è formato da: metro a stecca, matite, tavoletta per i rilievi, fogli lucidi, filo a piombo, compasso, mazzuolo, picchetti. E non da ultima una buona dose di pazienza.

 

Pronti, partenza, via.

 

Buongiorno agli operai, verifica del nulla osta e si comincia a guardare la ruspa.

 

Perché non è vero che l’archeologia è avventura e mistero o improbabili scoperte di lavoro alieno sfuggito ad anni di ricerche. L’archeologia può essere, e anzi, nella maggior parte dei casi è, un laureato che fissa una ruspa.

 

La chiamano archeologia d’emergenza: ci sono dei lavori, pubblici per lo più, e l’archeologo controlla che nel corso degli stessi vengano tutelati i beni archeologici.

 

Tanto per iniziare devi trovare il “tuo” punto di osservazione. Ovvero una posizione rispetto al bordo della trincea, nonché ad escavatore e camion, in cui sia possibile vedere in modo soddisfacente le operazioni di scavo, non dare fastidio e non farsi male.

 

Rigorosamente in questo ordine.

 

Dopo attenta osservazione ci riesci e forse per qualche ora starai pure all’ombra: deve essere il tuo giorno fortunato.

 

And now: let’s dig!

 

In piedi, bardata con casco, giubbotto ad alta visibilità, antinfortunistiche e borsa di Mary Poppins a tracolla inizi a controllare il lavoro.

 

La ruspa scava, carica, scava, carica, scava…

 

Di antico non c’è assolutamente nulla, ma bisogna comunque documentare.
Per cui, tra la fine della realizzazione di un tratto di trincea e la posa della tubazione, di qualsiasi tipo sia, bisogna essere reattivi.

 

Con scatto felino (si fa per dire), prendi la palina, la lavagnetta e la freccia del nord. Con un po’ di fatica cerchi di ricordare dove hai messo i gessetti e la bussola. In un attimo è tutto pronto per fotografare la trincea.

 

Metti la palina a piombo, orienti la freccia, posizioni la lavagnetta a favore di camera.  1,2,3… click.

 

E giusto in quel momento qualcuno passa tra te e il tuo soggetto!

 

Mantieni la calma e riprovi.

 

Click.

 

Perfetto.

 

Approfittando di un attimo di distrazione degli operai prendi pure le misure delle sterili stratificazioni, così mentre loro metteranno in opera le tubazioni ti farai uno schizzo. Una volta a casa poi la tua “opera d’arte” dovrà diventare una bella, quanto poco utile, sezione disegnata con Autocad o software affini.

 

Visto che ci sei poi, ti siedi sul ciglio del marciapiede, tiri fuori il block-notes e abbozzi il giornale di scavo.

 

Dopo un po’ guardi l’orologio, sono quasi le 12.

 

Tra un po’ ci sarà la pausa pranzo. Meno male.

 

Mezzogiorno: scatta l’anarchia!

 

Chi si rifugia sul camion, chi corre a comperare il pranzo, chi decanta le doti culinarie della moglie e tu, senza dare nell’occhio, ti rifugi nel bar più promettente. La mission della scelta del bar non è tanto la ricerca del cibo migliore. E nemmeno di quello più economico. Il bar serve per rinfrescarsi d’estate, scaldarsi d’inverno e avere una toilette a disposizione in tutte le stagioni.

 

Mentre ti mangi un panino, portato da casa, bevendo un bibita acquistata in loco per poter usufruire dei confort suddetti, hai un solo pensiero: quando finiranno di scavare oggi? E soprattutto: quante possibilità ci sono che nel corso di questo lavoro io faccia qualche rinvenimento?

 

Perché è quello che metterà alla prova la tua abilità da archeologo, ma non quella teorica o tecnica o stratigrafica. No, quella caratteriale. Perché è nel preciso momento in cui dirai, a voce alta o bassa, “fermate la ruspa” che si scateneranno delle dinamiche di guerra di cui ovviamente all’università non ti avevano parlato.

 

Improvvisamente tu, l’archeologo, diventerai il nemico, e tutti gli sguardi e le parole di chi ti sta attorno andranno in una direzione sola: convincerti che hai avuto un’allucinazione, che quel muro non esiste e che “non possiamo perdere tempo”.

 

Ed è lì che cambierai profilo professionale, da archeologo ti trasformerai in PR: in cantiere arriveranno geometri, ingegneri, direttori dei lavori, capisquadra.

 

A tutti andrà spiegato che bisogna allargare l’area di scavo, che bisogna procedere con la pulizia archeologica del settore, che si dovrà rilevare la struttura e che a partire da questo momento tutto fa capo a te.

 

L’unico tuo alleato sarà il funzionario della Soprintendenza che, prontamente avvertito, arriverà in cantiere, farà un sopralluogo e imporrà delle direttive da seguire.

 

Alea iacta est.

 

A questo punto l’andamento umorale della tua giornata dipenderà dalla squadra con cui lavori.

 

Se tutti si dimostreranno collaborativi, alla fine delle ore di cantiere, tornerai a casa stanco ma soddisfatto.

 

Se invece si instaurerà un clima da guerra fredda rincaserai con un pensiero fisso: ma chi me l’ha fatto fare?

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

 

Il post è stato scritto per il Day of Archaeology 2014

Qui il link

Traduzione di Domenica Pate (@domenica_pate)