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EA: Emergenza d’Archeologia (Episodio terzo) ~ di Paola Romi

1.03 – Vanilla Sky

 

“Ma non vivrò in una realtà parallela?”.

 

Questo è l’interrogativo che mi gira e rigira nella scatola cranica e spesso, davvero, mi attanaglia il dubbio di abitare una vita artefatta, fondata sull’errore. Non mi riferisco al fatto di aver sbagliato professione, quello, se si pensa alle difficoltà, è un dato di fatto.

 

Situazione tipo. Stai seguendo le operazioni di allargamento di una strada. Dopo la rimozione di un muretto di contenimento del terreno che sovrasta la sede stradale, in sezione, si palesano le tegole della copertura a cappuccina di un’antica inumazione. Di più, se per caso il sole o il gelo ti avessero talmente obnubilato dal farti dubitare dell’unica interpretazione possibile di quello che hai davanti agli occhi, eccole là, due tibie, che spuntano, composte e bianchicce, sopra alle sconquassate ossa dei piedi. La natura di quello che vedi ti sembra talmente evidente che non ti perdi in chiacchiere, tiri fuori i pennelli e, cercando di non complicare la vita all’amico antropologo, ripulisci il contesto.

 

Ed ecco, in questo momento di concentrazione, sommessa gioia e relativa tranquillità, arriva qualcuno, un qualcuno che credevi dotato di raziocinio, giunto a ripeterti, per cinque o sei volte, che quella che stai scavando è la recentissima sepoltura di un cane. Con inaspettata ironia lo zittisci, con inaudita crudeltà lo inviti a mostrare le ossa della sua caviglia per fare un confronto. Annientato, lo sfortunato geometra, batte in ritirata fra l’ilarità generale.

 

Dopo scene come questa, legate anche a evidenze meno inequivocabilmente interpretabili, dopo commenti e valutazioni, non sempre simpatiche e generose, dei rinvenimenti, ma soprattutto a margine di discussioni con persone dotate di un alto profilo professionale e culturale, che fanno altri mestieri, mi domando sempre: “Perché?”.

 

Perché non capiscono l’importanza di quello che facciamo, delle cose che analizziamo e di quelle che tuteliamo? Forse viviamo in una dimensione onirica che gli altri non comprendono.

 

Ed in preda a questa invisibile alienazione qualcosa mi dice: “Apri gli occhi!”. Non siamo noi a non esistere, è la comunicazione del nostro lavoro ad essere inconsistente. Manca la narrazione del passato fuori dagli stereotipi di Voyager, manca la divulgazione vera. Se non troviamo il modo di trasmettere il senso, la bontà ed i risultati anche del più piccolo scavo di emergenza siamo destinati ad una perenne scissione dal resto della popolazione.

 

Ci condanniamo da soli a popolare, con i soli nostri simili, un’eterna Life extension, gratuita, problematica e sterile.

 

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Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium