Diario dall’Iraq. Il primo giorno di scavo nel deserto
Sono Antonia e vi sto scrivendo da Roma, al termine della mia avventura irachena.
Perché per me di avventura si è trattato: era in assoluto la mia prima volta in un Paese mediorientale, non solo come archeologa, ma anche come viaggiatrice. I paesaggi desertici, le città arabe, gli iracheni, le albe, i tramonti, le tende dei beduini: un wow continuo, interrotto soltanto dai click della mia macchina fotografica con la quale ho cercato di immortalare i momenti e i volti da portare con me al rientro.
In questa penultima puntata del Diario vi racconto il nostro primo giorno di scavo. Facciamo finta per un attimo che io mi trovi ancora a Ur nella casa missione e che sia al pc in sala da pranzo a narrarvi la giornata appena trascorsa.
(Un espediente letterario utile a non farmi sentire troppo la saudade che ti assale quando lasci questa splendida terra. Anzi approfitto di questo spazio virtuale per salutare a mezzo blog i colleghi e amici che ho lasciato a Ur)
Nonostante il clima non proprio ottimale che abbiamo incontrato i primi giorni (qui, qui e qui le prime tre puntate del Diario), finalmente lunedì è giunto per noi il tempo di andare sullo scavo sul tell di Abu Tbeirah, motivo per il quale sono giunta fin quaggiù in Iraq.
Sveglia alle 5, alba sulla ziggurat.
Partenza prevista alle 6.
Con gli occhi ancora stropicciati di sonno, biascicando dei “’giorno” a mezza bocca per salutarci, trangugiamo tè e caffè e siamo pronti a caricare gli strumenti sul camioncino Iveco che ci accompagnerà tutti i giorni sul tell.
Pale
Picconi
Cazzuole
Secchi
Stazione totale e livello ottico
Macchine fotografiche
Tutta l’attrezzatura è pronta, manchiamo solo noi sull’Iveco. E mancano anche gli operai che raccogliamo lungo la strada per Nasiriyah. Tutti ben coperti perché siamo in pieno novembre ormai.
L’aria è frizzantina e il sole si alza rosso dall’orizzonte. Intorno rimangono ancora le tracce della pioggia dei giorni scorsi e dentro di noi speriamo tutti che la situazione sul sito sia migliorata rispetto a due giorni fa, che almeno si possa camminare senza farci risucchiare dalle sabbie mobili del deserto.
Arrivati a destinazione, l’Iveco e la scorta (sì, nei nostri spostamenti siamo accompagnati dalla scorta della polizia addetta alla protezione del patrimonio archeologico) ci scaricano sul sito. Dopo i primi timidi passi per sondare il terreno giungiamo alla conclusione che per fortuna oggi non si affonda nel fango. Si possono scaricare gli attrezzi!
E così una lunga e ordinata fila di archeologi e operai si avvia verso l’area del porto: siamo tutti carichi di borse e procediamo con cautela mantenendo l’equilibrio.
Il team, oltre agli operai, è così composto:
Licia Romano, co-direttrice dello scavo
Marta Zingale e Veronica Porzi, archeologhe veterane della missione
Leonardo Antonucci, studente new entry di quest’anno
Luca Forti, geologo
Io, archeologa e blogger
L’area del tell è enorme, sconfinata e desertica, motivo per il quale ogni anno si procede con l’apertura di alcune aree/saggi, lo scavo in estensione sarebbe infatti impossibile da affrontare su superfici di queste dimensioni.
Prima operazione della mattinata è la trilaterazione dell’area da aprire: fettuccia metrica, picchetti, nastro biancorosso e il gioco è fatto. Basterà poi riportare i limiti del settore all’interno della pianta del tell per geolocalizzare con precisione l’intervento.
Siamo pronti a partire: le squadre di operai si dividono lungo l’area e si inizia a picconare e raccogliere la terra, picconare e raccogliere. L’aria è ancora fresca e si può lavorare di buona lena. Lo strato 0 viene asportato con relativa facilità: a questo punto subentrano gli archeologi che verificano la stratigrafia messa in luce per dare indicazioni agli operai su come continuare lo scavo.
Gli operai sono curiosi, fanno domande, si (e ci) interrogano su quello che stanno facendo e su che cosa ci aspettiamo di trovare nella zona a ridosso del porto, negli anni hanno imparato a riconoscere gli strati e il loro ausilio è di fondamentale importanza in cantiere.
Mentre riprendono le operazioni di scavo, un gruppetto di archeologi parte in esplorazione dell’area: un rapido accurato survey per segnalare la presenza di ceramica affiorante in alcuni punti del tell, si raccolgono quindi i frammenti diagnostici (orli, anse, fondi) che verranno poi processati e schedati una volta tornati in casa missione.
Nel frattempo il geologo analizza le sezioni esposte così da poter desumere informazioni sulla composizione e struttura delle sedimentazioni del terreno, soprattutto nell’area del porto che doveva essere di certo attraversata da canalizzazioni.
E io, cosa faccio mentre intorno a me tutti hanno un compito da portare a termine entro la giornata?
Innanzitutto raccolgo materiale video e fotografico da postare sui vari social e qui sul blog perché ad Abu Tbeirah stiamo sperimentando un modo diverso di fare comunicazione archeologica: il primo archeo-reportage direttamente da una missione all’estero!
E poi cerco di capire come riconoscere i mattoni crudi.
Ora voi dovete immaginare che per una come me abituata ai laterizi, al cementizio romano e alle tegole, il concetto stesso di mattone crudo non solo è volatile, ma assolutamente inconcepibile. Al contrario, qui nel vicino oriente le costruzioni risalenti a millenni fa erano realizzate in mattoni crudi, fatti cioè di argilla non cotta.
La difficoltà principale nel riconoscere questa tecnica costruttiva è dovuta al fatto che i fenomeni post deposizionali nel corso del tempo hanno accumulato argilla su argilla (ricordiamoci che siamo in un deserto) e quindi distinguere un mattone dall’argilla tutt’intorno è complicatissimo. Grande stima per gli archeologi orientalisti!
Ora dopo ora si avvicina il momento della merenda che si trasforma in una sorta di picnic nel deserto: ognuno con il cibo che ha portato da casa, ci sediamo in cerchio e ci riposiamo dalle fatiche fisiche e mentali di questa prima giornata di scavo. Un morso all’Iraqi samoon, un altro all’uovo sodo e la pausa vola via.
Manca poco al termine di questa giornata lavorativa e il caldo iracheno inizia a farsi sentire. Per fortuna siamo a novembre e le giornate torride ce le siamo lasciate alle spalle, altrimenti sarebbe stato impossibile lavorare oltre la tarda mattinata.
Stanchi ma soddisfatti per aver finalmente aperto l’area di scavo possiamo avviarci verso l’Iveco che ci aspetta all’ingresso del tell.
Questo è il mio ultimo giorno qui ad Abu Tbeirah, domani due aerei mi porteranno da Bassora a Istanbul e poi a Roma.
Voglio riempirmi gli occhi e il cuore delle immagini di questa terra e così salgo dietro il furgone con gli operai, sfidando gli scossoni ma imprimendo per sempre nella mia memoria il ricordo e la magia dell’Iraq.
(…continua)
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)