Revixit Archeo: il futuro dell’archeologia passa dalla rete

Chi è di noi è abituato all’uso dei social network sa bene che vi si svolgono quotidianamente preziosi dibattiti tra gli archeologi, con toni spesso polemici, a volte propositivi e generalmente marcati da profonda disillusione.
Ci si interroga sull’attualità della professione e si esplorano gli scenari possibili affinché la nostra disciplina possa uscire dall’alveo dell’hobbistica per giovani rampolli di buona famiglia e diventi invece un lavoro a tutti gli effetti, con tutele garantite, tariffario stabilito e dignità sociale.
A volte sembra che a mancare, oltre alle risorse, siano la volontà e le iniziative concrete per fare della nostra professione un settore veramente d’avanguardia, in grado di coniugare ricerca scientifica, formazione e divulgazione al grande pubblico.
In rete è più facile confrontarsi su tematiche spesso trascurate dall’archeologia ufficiale – quella che si insegna e si impara nelle aule universitarie, quella che si pratica nei laboratori e quella che si tutela nelle Soprintendenze. E questo per varie ragioni: vuoi perché ci si confronta in tempo reale anche con il mondo fuori dall’Italia, vuoi perché ci si sente meno “controllati” e quindi più disinvolti nella critica e nella proposta. Sta di fatto che gli archeologi in rete ci sono. E si parlano.
La stessa cosa non si può dire, almeno non con una presenza significativa statisticamente, per le istituzioni che si occupano di archeologia: dipartimenti universitari, soprintendenze, musei.
È per questo motivo che, leggendo le “Linee programmatiche dell’azione del ministro per i beni e le attività culturali”, la nostra attenzione si è subito fermata sul punto 17 (La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale attraverso le nuove tecnologie):

 

 

Le nuove tecnologie possono e devono fornire un contributo importante per la
valorizzazione del patrimonio culturale, favorendone la conoscenza e migliorandone
la pubblica fruizione. In questo senso, assume certamente rilievo prioritario la
promozione e il costante aggiornamento di applicazioni tecnologiche finalizzate a
comunicare e a rendere fruibile il patrimonio culturale.
Attraverso un sistema mirato di azioni da parte del Ministero, in stretta
collaborazione con l’Agenzia per l’Italia digitale, è possibile e necessario individuare
e sperimentare soluzioni innovative nel campo della comunicazione digitale, in
particolare attraverso i social networks, in modo da mettere a disposizione di un
pubblico sempre più vasto e con modalità semplici e accessibili l’enorme quantità di
informazioni e di contenuti relativi al patrimonio culturale oggi in possesso del
Ministero.

 

 

Non ci è sembrato vero leggere in una stessa frase le parole: tutela, valorizzazione, nuove tecnologie.

 

E questo perché, come dicevamo, nel settore dei beni culturali si percepisce un po’ di reticenza verso l’apertura al nuovo, a strumenti che magari non conosciamo bene e che per questo incutono timore. E poi perché, diciamolo tra noi, quanto ci piace a noi archeologi capirci e parlarci solo tra gruppi ristretti!

 

Apertura infatti significa discussione, confronto e rottura della gabbia dorata in cui ci siamo chiusi da decenni. Significa varcare uno steccato di intangibilità e aprirsi al pubblico, quel pubblico che spesso accusiamo di non capire, di fermarsi a Voyager e simili… amenità.

 

Chiediamoci cosa abbiamo fatto e cosa facciamo noi per questo pubblico.

 

Riusciamo a comunicare chi siamo, qual è il nostro lavoro? Oppure non siamo ancora riusciti a costruire un nuovo immaginario, diverso da quello che ci vede come perenni Indiana Jones e Lara Croft alle prese con nazisti, fruste e pistole?

 

Abbiamo mai provato a spiegare davvero cosa è l’archeologia oggi? A cosa serve?

 

Credo di no, e sapete una cosa? Penso che i tempi siano maturi per farlo, per cominciare a porre delle domande innanzitutto a noi stessi, come categoria, e poi al pubblico.

 

Un’altra cosa di cui rimango convinta è che le nuove tecnologie, i network sociali ed il dibattito che si costruisce ogni giorno in rete siano in grado di dare una spinta propulsiva, di farci sentire parte integrante della società, attori che non solo salvaguardano, ma valorizzano e comunicano.

 

È per questo che ci piace che Massimo Bray, il nuovo ministro del Mibac, sul web ci sia, cerchi un confronto, si presti alle critiche e coinvolga la community.

 

Ci auguriamo che questo “stare sul web” si accompagni a decisioni immediate nei confronti di problemi urgenti, provvedimenti in grado di restituire valore aggiunto al nostro patrimonio culturale, spesso dimenticato o ridotto ad una cartolina di “rovine” dal sapore ottocentesco.

 

@antoniafalcone

Commenti

7 commenti
  1. giuliano
    giuliano dice:

    Sembra un buon inizio … Facciamo attenzione, noi che siamo attenti … a pensare che il nesso fra valorizzazione e nuove tecnologie sia l’unico possibile. Senza un contenuto le tecnologie non hanno niente da dire, o peggio, da raccontare. E imparare a raccontare è la vera innovazione che (se mai riusciremo a realizzarla) farà la differenza fra un modo ieratico di contemplare il patrimonio e un modo dinamico e creativo di creare davvero innovazione. Nei contenuti, nei linguaggi, nelle idee. E solo dopo, nelle tecnologie. Qualunque tentativo di valorizzazione, anche se ipertecnologico, rimane un oggetto inutile, triste e desueto, se viene gestito in modo grigio e anonimo.

    Volete un esempio?
    http://archeovideo.wordpress.com/2013/06/18/directors-cut-il-video-contest-di-opening-the-past/

    Rispondi
  2. Edmond
    Edmond dice:

    Fantastico. Sapere che c’è ancora gente che non solo si laurea, ma che addirittura spende anche un pacco di euri per seguire -quanti anni sono ora, due?- le stesse fregnacce già sentite durante il corso di laurea è una cosa che, davvero credetemi, mi riempie di gioia. Non fosse altro che per quella deliziosa sensazione del “mal comune…”, insomma ci siamo capiti, no? E chiamalo “male”. Come altro sennò? Come vuoi definire la grande, enorme, immensa impostura di aver avuto un sogno, una passione, una roba che ti fa alzare la mattina con la trepidazione di andar a fare qualcosa di buono, di giusto, di utile? Un sogno su cui da decenni continuano a pisciarci addosso.
    Non prendiamoci in giro, ragazzi. Sappiamo bene come stanno le cose. Sì, ok, il web e tutte le belle cose, la comunicazione e feisbuc e ciao. Io anche uso il web per comunicare con i miei amici archeologi. Che stanno all’estero. Che per v-i-v-e-r-e sono andati a pulire i cessi degli aeroporti londinesi. E poi a pelar patate in cucina, con me.
    Soldi. Programmazione e soldi. Innovazione e soldi. Ricerca e soldi. Non fatemela buttare là, ma di cosa stiamo parlando? Come si può solo immaginare di rianimare questo settore senza presente, senza futuro ma con un passato lasciato rispettabilmente ad ammuffire (volendo si può sostituire settore con “paese)? Io ci ho provato, come voi. Sapete quanti ne ho visti (alcuni con una testa così)? Sapete quanti ce l’hanno fatta? Bravi, risposta esatta.
    Ma tanto già lo sapete, li avete visti i nomi? Tranne pochi meritevoli casi chi sono? Alta borghesia romana, ereditieri, gente che non va ad elemosinare un contratto (pagabile a 90 gg se va bene).
    Ok, fa nulla. Magari l’archeologia si può insegnare anche -soprattutto- a scuola. Sempre se un giorno a uno del ministero non gli gira che tu, laureato dopo il 2001 (dev’essere stato quel cazzo di monolite), non puoi insegnare neanche alle elementari (ma all’università senza laurea sì, lol), neanche con la specializzazione.
    Perché io, davvero, vi capisco. E capisco l’entusiasmo e tutto quello che dite. Ma che “noi” ci saremmo volutamente rinchiusi in una “gabbia dorata” proprio non lo accetto. Perché una (due?) generazion* di archeologi si è rotta il culo a studiare, picconare, andare via in cerca di una cooperativa, provare master, dottorati, elemosinare assegni di ricerca, cercare di vedere una qualche forma di vita oltre il quotidiano sottostando alle mafie delle soprintendenze e alle baronie medievali delle università. Volete esempi o ne avete a sufficienza anche voi?

    Forse vi sembrerà strano, ma è soprattutto per questo che vi stimo.
    Edmond.

    Rispondi
  3. Antonia
    Antonia dice:

    Ciao Edmond, grazie per il tuo commento. Confrontarsi è sempre un ottimo punto di partenza. Le tue riflessioni ovviamente sono condivisibili. E lo dico da archeologa che per anni ha continuato ad alzarsi all’alba per seguire cantieri in giro per Roma, prima, e la Puglia, dopo, e che oggi è fuori dal mercato. Sono fuori perchè non sono ereditiera, non sono borghese e ho bisogno di sapere che quando lavoro lo faccio per conservare la dignità. E quando ti propongono di lavorare a 50 euro al giorno senza rimborso benzina, facendoti il “favore” di pagarti ogni 2-3 mesi, questa dignità si è bella che volatilizzata. Ma continuiamo ad accettare. Perchè? Perchè non riusciamo a far passare l’idea che il nostro è un lavoro come un altro, perchè siamo trincerati dietro la maledetta passione. Ecco, il mio post voleva essere un contributo per far capire che è necessario decostruire questo sentire comune, è necessario re-inventare questo immaginario. Gli archeologi non sono più gli aristocratici o gli esploratori ottocenteschi, ma professionisti che devono reclamare il loro posto nel mondo contemporaneo, siamo tutti iperspecializzati e la dobbiamo smettere una buona volta di accettare tutto, pur di… pur di fare cosa?

    ps: amo il web, non so che farci.

    Rispondi
  4. Edmond
    Edmond dice:

    Ciao Antonia e grazie della risposta. Anzi, ci tengo a scusarmi se il mio precedente intervento può essere sembrato troppo acceso, ma ogni volta che si riapre ‘sta ferita son dolori. Ovviamente il mio non voleva essere ne’ un’accusa al web (e ci mancherebbe, visto che ci passo su ormai fin troppo tempo), ne’ tantomeno alla categoria, alla quale mi sento di appartenere ormai solo in virtù di un retaggio di nostalgie ed esperienze formative (e non ti nascondo che quando parlo del mio curriculum lo faccio con un certo grado di fierezza). Il problema, per quanto ormai possa interessarmi visto che mi occupo di tutt’altro, è che noi/voi si possa fare ben poco. Certo, chi come te ha avuto la costanza e il coraggio di non uscire dall’ambiente, di trovare il modo di accettare anche i compromessi infami cui si sottopone l’archeologo, ha tutta la mi ammirazione e bene fa a non mollare, nell’attesa che qualcosa possa un giorno cambiare. Ma credo altresì che il nostro settore sia destinato a sparire velocemente almeno sino a quando non ci sia un mutamento radicale nelle politiche culturali di questo ridicolo paese. E ciò comporta, fantascientificamente, una completa inversione di tendenza riguardo agli investimenti di DENARO PUBBLICO per quanto riguarda SCUOLA, UNIVERSITA’ E RICERCA. Stop. Pur non essendo un pasdaran dello statalismo sfrenato, anzi ritenendo che l’apporto dei privati possa arricchire le disponibilità finanziarie e formative di una parte degli indirizzi di sviluppo nel settore generico dei beni culturali, ritengo tuttavia che solo una coscienza politica lungimirante, culturalmente moderna e aperta al dialogo con gli operatori del settore, possa fare uscire l’archeologia e le discipline ad essa correlate dalla depressione professionale in cui da anni si trovano. Basta a far ciò un ministro che twetta o aggiorna lo status di FB? Ne dubito. Le nostre missioni di scavo all’estero, lo sapete bene anche voi credo, son costrette a chiedere il 5×1000. Quelle in Italia, credo si possano contare sulle dita di una mano. Per il resto è solo un fiorire di scavi preventivi e ricognizioni per qualche impresa metalmeccanica.
    Se proprio dovessi intravedere una lucina in fondo al tunnel direi che andare all’estero sia la nostra ultima chance. (http://www.corriere.it/inchieste/reportime/societa/scuola-pillole-sapere-procura-roma-apre-fascicolo-funzionari-miur/09be1188-dcec-11e2-98cd-c1e6834d0493.shtml).
    In bocca al lupo,
    un archeologo.

    Rispondi
    • Domenica
      Domenica dice:

      Ciao Edmund, ti rispondo solo ora, ma grazie delle tue parole.

      Non posso che sottoscriverle, perchè personalmente anche io sono convinta che se non si investe nella formazione (e anche su quella, su come funziona, c’è un lungo discorso da fare, e prima o poi affronteremo l’argomento anche su queste pagine) e nella ricerca, non si va da nessuna parte.

      Così come non si va da nessuna parte se non si pongono dei limiti al ribasso che negli ultimi anni ha caratterizzato il lavoro in campo archeologico, soprattutto nell’ambito dell’archeologia preventiva, croce e delizia di tanti archeologi.

      E poi la comunicazione è essenziale. Tra archeologi, con i non archeologi, e con il grande pubblico. Con le istutuzioni. Il nostro è un mestiere importante, una responsabilità grande, e questo dobbiamo comunicare all’esterno, perchè se non lo facciamo non esistiamo agli occhi degli altri, e se non esistiamo… che ci stiamo a fare qui?

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  1. […] vogliono aiutarsi e fare sistema – molto prima che i Ministeri se ne accorgessero), ho letto l’articolo di Antonia e ho ripensato alle parole di Caterina (“cerca l’originalità e troverai la […]

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