…potrebbe piovere! (da officinarcheologia)

Alcuni di noi ci sono cascati, nell’illusione di trovare un lavoro e l’indipendenza dopo la laurea e soprattutto di andare a mettere in pratica il frutto di tanto studio. Chi invia il proprio curriculum alle varie cooperative archeologiche di Roma si sente inizialmente fortunato e ottimista, poi preoccupato ma speranzoso ed infine preso in giro e sfiduciato…. continua

Commenti

4 commenti
  1. Caterina Ottomano
    Caterina Ottomano dice:

    Quando ho iniziato a scavare era il 1986, mi ero appena laureata in geologia a Milano e non avevo alcuna esperienza. Eppure la ditta che mi inpiegava, a ritenuta d’acconto, perchè all’epoca si poteva fare, mi pagava la bellezza di 18.000 £ iva esclusa all’ora, cioè 9 euro, e l’assegno mi veniva consegnato ogni fine mese. Tenete conto che all’epoca 18.000 lire erano parecchi soldi. Quanto guadagna oggi un giovane archeologo? Credo la stessa cifra, se va bene, ma pagamento a 60-90 o mille giorni. Non credo proprio che sia il caso, oggi, di intraprendere questa professione, senza contare che a 40 anni schiena, ginocchia e sistema nervoso sono a pezzi.
    Io ho tenuto un corso a contratto all’Università di Genova, corso di beni culturali nel 2002 e 2003: imploravo gli studenti di cambiare facoltà. Spero che qualcuno mi abbia dato retta

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    • Domenica Pate
      Domenica Pate dice:

      Ciao Caterina e grazie per aver condiviso la tua storia. Ti va di scrivere un pezzo per il nostro blog? Va bene quello che hai già scritto, ampliandolo raccontandoci come sei arrivata da geologia ad archeologia, che esperienze hai avuto nel campo dell’archeologia e in che contesti hai lavorato. Ed anche, soprattutto, quali difficoltà hai incontrato e cosa ti ha portata a dare quel consiglio ai tuoi studenti.
      In alternativa, se ti va, io e la mia socia saremmo anche interessate ad intervistarti. Speriamo di riuscire a caricare la prima video intervista nella prossima settimana, così, se vuoi, puoi darci un’occhiata, per capire qual è il tono che intendiamo dare alle interviste che proporremo e decidere allora.

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  2. Caterina Ottomano
    Caterina Ottomano dice:

    Quando mi sono iscritta a scienze della terra non avevo la benchè minima intenzione di occuparmi di archeologia, certo avevo un forte interesse per la storia, ma la cosa finiva lì. La mia tesi di laurea consisteva nel rilevamento geologico dei terrazzi fluviali e fluvioglaciali del territorio a nord di Novara e nell’analisi sedimentologica dei depositi che li costituivano, si trattava quindi di geologia del Quaternario, un campo nuovo a Milano. All’epoca, all’inizio degli anni ’80, molti laureati in geologia venivano impiegati all’AGIP, nella ricerca di idorcarburi e anch’io pensavo di dover/poter fare la stessa fine. Però, a sparigliare le carte è arrivato a Milano da reggio Emilia un giovane ricercatore: Mauro Cremaschi, quaternarista e geoarcheologo, appunto. Lui mi ha seguito sulla parte della tersi dedicata ai Loess e poi ha proposto a me e ad altri colleghi di andare a scavare una settimana nel sito paleolitico di Isernia la Pineta, che era stato scoperto da pochi anni. L’ho fatto, ci sono andata, mi sono intossicata con il paraloid, ho vomitato per due giorni e ho giurato a me stessa che non avrei mai più scavato. Detto fatto, dopo la laurea, nel 1986, su consifglio ed incitamento di Cremaschi ero presidente di una cooperativa di geologi litigiosi che ricordava l’armata brancaleone e a luglio trepidante e sudata ho partecipato al primo scavo: un sito dell’età del ferro vicino ad alessandria in mezzo al mais e alle zanzare. Con l’autunno sono stata reclutata da una ditta di Milano -la cui socia ‘anziana’ aveva la bellezza di 32 anni- negli scavi urbani di via moneta e lì ho conosciuto una serie di archeologi inglesi ridotti alla fame dai tagli della tatcher e giunti in Italia perchè allettati dal lavoro abbondante e dalle buone paghe. Tenete conto che gli anni ’80 e ’90 sono stati un momento d’oro per l’archeologia per la gran quantità di opere grandi e meno grandi che si sono effettuate sia in contesto urbano che extraurbano; moltissimi archeologi si sono formati allora ed alcuni sono gli stessi, invecchiati e inaciditi, che dirigono alcune società o cooperative con cui avete a che fare. All’epoca, però, tutti erano felici, entusiasti e giovani, soprattutto. Nel tempo, pur continuando a scavare, mi sono specializzata in archeomicromorfologia, che consiste nello studio al microscopio di suoli e terreni antropici e in analisi del rischio archeologico. In quanto professionista ho lavorato in ambiti di ogni genere dal paleolitico al postmedioevo, ma la maggior parte delle analisi micromorfologiche le ho eseguite su campioni provenienti da siti pre-protostorici. Ho pertecipato ad alcune campagne di scavo nel Pakistan del sud con l’Università di Venezia e in Libia con l’Università di Roma La sapienza.
    Il mestiere dell’archeologo, lo spaete, non è tutto rose e fiori: con gli ispettori di soprintendenza i rapporti sono sempre tesi e difficili, il professionista è spesso visto come una cazzuola attaccata ad un braccio, avida e priva di spessore scientifico; non è vero, naturalmente, alcuni miei colleghi sono ora funzionari o soprintendenti, altri lavorano in università; sono una minoranza comunque, considerando che siamo pertiti in moltissimi. Non parliamo delle imprese edili con cui si ha a che fare, che ci vedono come il fumo negli occhi, che sono sempre pronte a gettare la croce dei ritardi sugli ‘scavi’ e che appena ti volti ti devastano ettari di abitato. Che dire poi dei kilometri percorsi su macchine scassate e rumorose, di milioni di ore dormite in pensioni di infino ordine, in aule di scuole elementari, in palestre puzzolenti? E i pagamenti, che moon mano che la crisi economica prcedeva impiegavano più tempo ad arrivare, e giù telefonate di sollecito. Questo è un lavoro per giovani, man mano che passava il tempo io mi rendevo conto di essere stanca, di volere passare più tempo a casa, e poi, la cosa più grave, non ce la facevo più a lavorare in cantieri di speculazione edilizia, in cui il cemento subentrava alla campgna o alle poche aree libere in città.
    Per tutti questi motivi ho consigliato a chi seguiva il mio corsetto all’Università di genova di intraprendere una carriera diversa o, comunque, di tenersi aperta un’altra porta.
    Poi, nel 2004, dopo un mese di fila passato a non dormire, ho deciso: basta.

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  3. Caterina Ottomano
    Caterina Ottomano dice:

    Quando mi sono iscritta a scienze della terra non avevo la benchè minima intenzione di occuparmi di archeologia, certo avevo un forte interesse per la storia, ma la cosa finiva lì. La mia tesi di laurea consisteva nel rilevamento geologico dei terrazzi fluviali e fluvioglaciali del territorio a nord di Novara e nell’analisi sedimentologica dei depositi che li costituivano, si trattava quindi di geologia del Quaternario, un campo nuovo a Milano. All’epoca, all’inizio degli anni ’80, molti laureati in geologia venivano impiegati all’AGIP, nella ricerca di idorcarburi e anch’io pensavo di dover/poter fare la stessa fine. Però, a sparigliare le carte è arrivato a Milano da reggio Emilia un giovane ricercatore: Mauro Cremaschi, quaternarista e geoarcheologo, appunto. Lui mi ha seguito sulla parte della tersi dedicata ai Loess e poi ha proposto a me e ad altri colleghi di andare a scavare una settimana nel sito paleolitico di Isernia la Pineta, che era stato scoperto da pochi anni. L’ho fatto, ci sono andata, mi sono intossicata con il paraloid, ho vomitato per due giorni e ho giurato a me stessa che non avrei mai più scavato. Detto fatto, dopo la laurea, nel 1986, su consifglio ed incitamento di Cremaschi ero presidente di una cooperativa di geologi litigiosi che ricordava l’armata brancaleone e a luglio trepidante e sudata ho partecipato al primo scavo: un sito dell’età del ferro vicino ad alessandria in mezzo al mais e alle zanzare. Con l’autunno sono stata reclutata da una ditta di Milano -la cui socia ‘anziana’ aveva la bellezza di 32 anni- negli scavi urbani di via moneta e lì ho conosciuto una serie di archeologi inglesi ridotti alla fame dai tagli della tatcher e giunti in Italia perchè allettati dal lavoro abbondante e dalle buone paghe. Tenete conto che gli anni ’80 e ’90 sono stati un momento d’oro per l’archeologia per la gran quantità di opere grandi e meno grandi che si sono effettuate sia in contesto urbano che extraurbano; moltissimi archeologi si sono formati allora ed alcuni sono gli stessi, invecchiati e inaciditi, che dirigono alcune società o cooperative con cui avete a che fare. All’epoca, però, tutti erano felici, entusiasti e giovani, soprattutto. Nel tempo, pur continuando a scavare, mi sono specializzata in archeomicromorfologia-che consiste nello studio al microscopio di suoli e terreni antropici- e in analisi del rischio archeologico. In quanto professionista ho lavorato in ambiti di ogni genere dal paleolitico al postmedioevo, ma la maggior parte delle analisi micromorfologiche le ho eseguite su campioni provenienti da siti pre-protostorici. Ho pertecipato ad alcune campagne di scavo nel Pakistan del sud con l’Università di Venezia e in Libia con l’Università di Roma La sapienza.
    Il mestiere dell’archeologo, lo sapete, non è tutto rose e fiori: con gli ispettori di soprintendenza i rapporti sono sempre tesi e difficili, il professionista è spesso visto come una cazzuola attaccata ad un braccio, avida e priva di spessore scientifico; non è vero, naturalmente, alcuni miei colleghi sono ora funzionari o soprintendenti, altri lavorano in università; sono una minoranza comunque, considerando che siamo pertiti in moltissimi. Non parliamo delle imprese edili con cui si ha a che fare, che ci vedono come il fumo negli occhi, che sono sempre pronte a gettare la croce dei ritardi sugli ‘scavi’ e che appena ti volti ti devastano ettari di abitato.
    Che dire poi dei kilometri percorsi su macchine scassate e rumorose, di milioni di ore dormite in pensioni di infino ordine, in aule di scuole elementari, in palestre puzzolenti? E i pagamenti, che man mano che la crisi economica procedeva impiegavano più tempo ad arrivare, e giù telefonate di sollecito. Questo è un lavoro per giovani; più il tempo passava più io mi rendevo conto di essere stanca, di volere stare un p casa, e poi, la cosa più grave, non ce la facevo più a lavorare in cantieri di speculazione edilizia, in cui il cemento subentrava alla campgna o alle poche aree libere in città.
    Per tutti questi motivi ho consigliato a chi seguiva il mio corsetto all’Università di genova di intraprendere una carriera diversa o, comunque, di tenersi aperta un’altra porta.
    Poi, nel 2004, dopo un mese di fila passato a non dormire, ho deciso: basta.

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