#PompeiGreci: viaggio nel Mediterraneo multietnico
Può una mostra archeologica raccontare passato e presente allo stesso tempo, utilizzando parole che appartengono ad un mondo che non abbiamo vissuto e insieme evocare sfide del nostro contemporaneo, dibattute quotidianamente sulla metro o al bar?
Può succedere: se il sito è Pompei, se il paesaggio antico e contemporaneo è il Mediterraneo, se c’è dietro un’idea forte del ruolo che l’archeologia e la storia antica devono avere nella coscienza collettiva, cioè il recupero di una dimensione universale della disciplina, finalmente non più confinata a sfoggio di mera erudizione.
Un approccio ambizioso è quello che emerge distintamente dalla mostra “Pompei e i Greci”, in programma dal 12 aprile al 27 novembre 2017 presso la Palestra Grande di Pompei e curata dal Direttore generale Soprintendenza Pompei Massimo Osanna e da Carlo Rescigno (Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli), promossa dalla Soprintendenza Pompei con l’organizzazione di Electa.
L’ambizione è quella di ri-attribuire all’archeologia il ruolo che le è proprio: fungere da ponte tra epoche diverse; creare connessioni che attualizzino il passato e rendano il presente più comprensibile, chiarendo le dinamiche di formazione e trasformazione che hanno portato all’oggi.
E non è un caso che Pompei e i Greci si apra con il tema del viaggio, in un’epoca di migrazioni, di multiculturalismo, di uomini che si incontrano e scontrano in quel bacino connettore di storie diverse che è sempre stato il Mediterraneo: “Del mitico viaggio di Ulisse e dell’incontro del mondo greco con le culture mediterranee abbiamo muti, solidi testimoni: sono gli oggetti, passati di mano in mano, trasportati ammassati nella chiglia di una nave, ricreati dalla sapienza manuale di un artigiano. Sopravvissuti al naufragio dell’antico, sono per noi parole di un racconto, testimoni del culto di un eroe, di una cerimonia votiva, parte di una rassegna di immagini intorno al tempio di una dea, incunaboli di vita privata”.
Pompei non nasce come città romana, anche se nel nostro immaginario tornano ossessivamente le parole latine incise e dipinte sui muri delle botteghe o lungo le strade della città vesuviana. La sua storia risale al VII secolo a.C. quando Pompei è già un coacervo di culture diverse: città italica con presenze etrusche e artigiani greci chiamati a lavorare lì.
Indigeni e greci che si incontrano, grecità che spesso si identifica con il potere come nella reggia di Torre di Satriano, dalla quale provengono elementi decorativi del tetto il cui linguaggio riprende stili e tecniche del mondo greco, realizzati da artigiani tarantini. Ancora una volta commistione di gruppi e di culture diverse.
Siamo in presenza di un mondo multietnico con genti che parlano e scrivono in greco, etrusco, italico, che si influenzano a vicenda, che scambiano merci e saperi in un flusso ininterrotto e incontrollabile, perché insieme alle merci si muovono anche gli uomini, ieri come oggi.
E l’attualità si affaccia prepotente con la rottura di questo equilibrio quando la fondazione di Neapolis, voluta da Cuma, conduce inevitabilmente allo scontro con gli Etruschi, che uscirono pesantemente sconfitti e ridimensionati in quel 474 a.C., definito da Massimo Osanna “l’11 settembre di quei secoli”.
Frattura culturale visibile nel declino di Pompei almeno fino al IV secolo a.C. e leggibile archeologicamente sia nel sito (NdA: ecco a cosa serve l’archeologia stratigrafica, a riconoscere nella successione di terra e cocci, la successione della storia, delle azioni o non azioni umane e naturali) che nella lontana Olimpia dove due elmi, strappati ai caduti in battaglia, furono dedicati presso il Santuario di Zeus da Ierone di Siracusa.
La nuova città, Neapolis, porta con sé le tracce delle merci che attraversarono il Mediterraneo e che ne definirono la sua identità di città sfaccettata e molteplice: nel corso dei secoli sui suoi fondali si sono depositatati oggetti diversi, magari caduti casualmente dalle imbarcazioni, e che costituiscono, per gli archeologi, tanti tasselli di una storia secolare. Troviamo così anfore provenienti da varie regioni del Mediterraneo che trasportavano olio, vino, derrate alimentari, oppure coppe megaresi o altre forme ceramiche destinate alla mensa degli abitanti della città portuale.
E così, secolo dopo secolo, arriviamo all’ellenismo, a quel melting pot culturale che in mostra troviamo ben rappresentato in due scarichi ceramici, lontani geograficamente ma affini tipologicamente: senza le didascalie che ne attribuiscono l’origine, sarebbero quasi interscambiabili nella “comunanza di pratiche sociali, nei modi di concepire la vita e i suoi piaceri”.
La grecità infine diventa collezionismo, amore per l’antiquaria: per i romani possedere e mostrare nelle proprie domus oggetti appartenuti al mondo greco era segno di legittimazione culturale delle elite, un modo per esaltare la propria appartenenza ad un ceto sociale che poteva avere accesso alla cultura per eccellenza, quella ellenica.
Tutto, nella mostra Pompei e i Greci, parla di commistioni, di un mondo in costante evoluzione tra brusche accelerazioni e inaspettate frenate: un realtà in cui si stipulavano trattati, si collezionavano antichità, si esponevano trofei di guerra, si spostavano merci, si conviveva con altri popoli in uno continuo scambio culturale che arricchiva reciprocamente civiltà diverse. Ieri come oggi.
Link utili:
Fonte immagine in evidenza: Electa editore
L’allestimento è curato da Bernard Tschumi
Le installazioni multimediali sono realizzate da Graphics eMotion
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
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