Diario dall’Iraq. Ur, alle origini della civiltà
Sono Antonia e vi sto scrivendo dall’Iraq, precisamente da Ur. Siamo nel sud del Paese, a pochi chilometri da Nasiriyah, in pieno deserto e con il pc in questo momento mi trovo nella sala da pranzo della casa della missione italo-irachena che dal 2012 scava il tell di Abu Tbeirah (ve ne avevo parlato qui).
Esterrefatti, vero? Di seguito vi spiego i perchè e i per come di questa nuova avventura di Professione Archeologo. E vi porto anche a Ur.
Andiamo con ordine.
Cosa ci faccio qui?
Sono ospite del gruppo di ricerca de La Sapienza, guidata dal prof. F. D’Agostino (cattedra di Assiriologia) e da Licia Romano, co-direttrice delle attività sul campo, con il compito di raccontarvi in tempo (quasi) reale una delle missioni fiore all’occhiello della ricerca italo-irachena in questo meraviglioso oriente, che tanto ha dato e continua a dare all’archeologia e alla storia della civiltà.
Il mio non sarà un racconto soltanto archeologico, ma anche emotivo, è la prima volta che arrivo qui nel Vicino Oriente e potete immaginare l’entusiasmo e la sorpresa di conoscere un mondo solo così apparentemente distante dal nostro.
Condividerò quindi con voi lettori di Professione Archeologo sensazioni, esperienze, persone che sto vivendo e conoscendo, cercando di darvi dei consigli qualora doveste decidere di affrontare un viaggio di studio o lavoro qui nel sud dell’Iraq.
Arrivare a UR
É stata un’avventura, come ci si aspetterebbe romanticamente da un viaggio nel Vicino Oriente. Niente cappelli coloniali o brame di tesori da esploratori dell’ottocento, ma una buona dose di peripezie non è mancata.
Roma > Istanbul >Basra (Bassora): il nostro itinerario.
Siamo in otto, tra archeologi, studenti e restauratori.
Obiettivo: raggiungere Ur, la base di partenza quotidiana della missione per Abu Tbeirah, il tell del 3° millennio oggetto di scavo del gruppo di ricerca.
Se la prima parte del viaggio da Roma a Istanbul è andata liscia, tra le normali attese in aeroporto e le chiacchiere per conoscersi, un grande aiuto al consolidarsi del gruppo (!) è arrivato dalle avventure vissute nel tragitto Istanbul – Basra.
Partenza alle 4 di notte, arrivo previsto alle 7 di mattina all’aeroporto dove, al termine della trafila burocratica per i visti, saremmo stati prelevati e portati a Ur in tempo per sistemare la casa della missione e cenare, prima di affrontare la prima giornata in cantiere.
Il condizionale è d’obbligo perchè tra noi a Instanbul e noi a Basra si è sovrapposta una fitta coltre di nebbia che ha ritardato di quasi 12 ore l’arrivo a Ur. Cosa è successo è presto detto: invece di atterrare a Basra siamo tornati indietro in Tuchia per l’impossibilità materiale di atterrare a causa delle avverse condizioni meteorologiche. E così ci siamo ritrovati in un aeroporto secondario della Turchia, nella città di Diyarbakir in attesa di sapere quando le condizioni atmosferiche ci avrebbero permesso di ripartire.
Agevolo qua sotto una foto della cittadina di Diyarbakir vista dall’aeroporto e un’immagine di me che prendo la cosa di buon grado.
Dopo circa 5 ore il cielo su Basra decide di volerci accogliere e quindi ripartiamo, per toccare finalmente il suolo iracheno. Altre 2 ore e mezzo di marcia in automobile e la casa della missione ci appare con il suo profilo bianco che si staglia nel deserto.
Da Basra a Ur sembra di essere in un reportage di quelli visti mille volte in tv: strade enormi percorse da camion in fila,i fuochi dei pozzi di petrolio ai due lati, bandiere agli angoli delle strade, diversi check point utili a garantire la sicurezza in un territorio martoriato negli ultimi 40 anni da guerre e devastazioni, deserto, stabilimenti petroliferi e l’aria fresca della sera.
L’impatto con Nasiriyah, sfiorata nel nostro tragitto, per me è stato pazzesco: ci sono immagini che non è possibile raccontare perchè le parole non sono sufficienti. Qualunque aggettivo io usi potrebbe solo sminuire, amplificare o annichilire un insieme di sensazioni che segnano nel profondo. Potrei raccontarvi dell’aria densa nelle strade o delle pozzanghere ovunque o dei gioiosi sorrisi degli iracheni o ancora delle casupole diroccate, ma non basterebbe. Spero di riuscire a tornare a Nasiriyah nei prossimi giorni armata di macchina fotografica per farvi vivere un po’ il panorama urbano del sud dell’Iraq.
Visitare UR
Dopo un bel sonno ristoratore, tanto tè e una doccia, si pone l’imperativo categorico del giorno: la visita del sito archeologico di UR.
Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, si tratta di un’importantissima città sumerica, uno dei primi insediamenti della Mesopotamia, nata nel quarto millennio a.C., estremamente popolosa e ricca, la cui topografia è definita oggi dal recinto sacro con i suoi templi e le tombe reali. Doveva essere una città magnificente, come testimoniato dai ricchi corredi tombali rinvenuti.
Siamo nel deserto, tutto intorno un paesaggio brullo di sabbia e argilla, casupole basse sparse e improvvisamente lei: la grande Ziggurat dedicata alla Luna (dea Nanna), quella che avete visto fotografata su tutti i libri di storia dalle scuole elementari in poi.
Ecco, io mai avrei pensato nella vita di poter vivere un’emozione così grande: trovarmi di fronte alla maestosa scalinata in mattoni che doveva condurre in cima al tempio dominante il pianoro circostante; percorrere quella scalinata, pensare che oggi rimangono solo 15 m degli originali 25 perchè erosi dal tempo, e nonostante questo, salire sulla ziggurat rende bene l’idea dell’imponenza e del timore reverenziale che doveva incutere al momento della sua edificazione nel III millennio a.C.
La struttura, parzialmente restaurata, conserva ancora parte dell’edificio originale, costituito da mattoni legati da bitume e malta per alleggerire la costruzione.
La storia della scoperta archeologica di UR risale al XVIII secolo anche se le prime campagne di scavo sistematiche si devono all’archeologo L. Wooley che, dal 1922, scavò per 12 anni con una missione congiunta del British Museum e dell’Università della Pennsylvania.
Nel corso degli scavi furono portate alla luce più di 1800 sepolture tra le quali le cosiddette “Tombe Reali” contraddistinte da corredi principeschi e dalla deposizione, insieme a re e regine, di attendenti, domestici, guardie e personale di corte immolati e sacrificati. Siamo alla metà del III millennio a.C.
Nella mia visita a UR sono stata accompagnata da Dhaif, pronipote del guardiano del sito ai tempi di Wooley: un pezzo di storia dell’archeologia!
Dhaif ha guidato il mio sguardo tra i mattoni delle tombe, facendomi scoprire le iscrizioni sumeriche che compaiono tra i mattoni nudi: frasi che richiamano i nomi dei re e il loro potere.
Qui sotto si può leggere in sumerico:
[mu pad3-da] dEn-lil2-la2-ke4 nitah kalag-ga lugal Urim2ki-ma lugal an-ub-da-limmu2-ba
[Il cui nome] è stato scelto dal dio Enlil, l’uomo forte, il re di Ur, il re delle quattro parti della terra
(traduzione del Prof. D’Agostino)
Il re è Amar-Suena, la datazione al 2050 circa a.C.
Ma il sito di Ur è strettamente legato anche alle sacre scritture e così nel corso di questa passeggiata archeologica mi sono imbattuta nella cosiddetta “Casa di Abramo”, un’abitazione paleo-babilonese ritenuta coeva al Patriarca. La città infatti viene nominata nella Genesi proprio come luogo di nascita di Abramo. L’edificio, in gran parte ricostruito, è una successione di stanze con aperture ad arco, dall’andamento labirintico e caratterizzato in molti punti dalla presenza di impianti di smaltimento delle acque, problematica fortemente sentita in questo luogo a causa della natura argillosa del terreno, chiaramente poco drenante.
Qui sotto potete vedere una sorta di “pozzo” rivestito di ceramica che confluiva in un canale sotterraneo.
Avrei mai immaginato di camminare tra i resti di Ur in un novembre piovoso, circondata dal deserto e chiacchierando con un iracheno discendente dal guardiano di Wooley? No, mai nella vita.
E di questo devo ringraziare i lettori del blog, cioè voi, perchè è proprio grazie alla vostra costante presenza che questo è diventato un seguitissimo spazio web dove raccontare l’archeologia, quella quotidiana della ruspa e del cantiere, ma anche quella lontana, inimmaginabile.
Perchè l’archeologia è quella cosa che porta studiosi e aspiranti tali a spostarsi nel mondo, a interagire e conoscere altre culture, per tentare di ricostruire la storia di tutti noi, la storia dell’umanità. Senza confini e senza barriere.
(…continua)
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
Aspetto con trepidazione altri racconti di questa emozionante esperienza; complimenti per il tuo lavoro