Diario dall’Iraq. Sul tell di Abu Tbeirah
Quando parti per andare a scavare (o bloggare) in Iraq è inevitabile pensare che al tuo arrivo troverai clima arido, tempeste di sabbia, caldo torrido e magari oasi, beduini e cammelli che aspettano proprio te per farsi fotografare in tutte le pose più instagrammabili possibili.
E invece la realtà, come sempre, è molto più sfaccettata degli stereotipi. Per fortuna, aggiungo io.
A me quindi è capitato di vivere l’Iraq sotto la pioggia.
I primi due giorni del mio soggiorno in questo angolo di mondo sono stati segnati, nell’ordine, da:
- temporali
- elettricità che salta per i temporali di cui sopra
- internet a tratti
- acqua calda che manca
- allagamenti della casa missione
Tutto ciò ha comportato due conseguenze: la prima è stata l’impossibilità di andare materialmente in cantiere; la seconda è stata quella di sfoderare tutto lo spirito d’adattamento del quale l’essere umano è naturalmente portatore sano e che in particolare abbonda nell’homo archeologus.
Ne ho approfittato quindi per documentare la ziggurat di Ur a tutte le ore del giorno, anche sotto la pioggia, per scrivere la prima puntata del mio diario dall’Iraq (link qui) e per socializzare con i compagni di viaggio e di missione, impegnati nel frattempo ad organizzare e pianificare le attività di cantiere, perchè “non può piovere per sempre” (cit.)
Ora vi faccio una confessione: io ho sempre pensato che deserto = sabbia, quella drenante (lo sappiamo tutti fin dai primi anni di università che nella scheda US se lo strato è sabbioso allora si può scrivere che il drenaggio è ottimo). Invece qui in Iraq ho scoperto che il deserto può anche essere argilloso e questo, cari miei, è un gran bel problema se il sito da scavare è NEL deserto e se nel frattempo ha piovuto a iosa.
Cosa succede in questi casi? Che l’area da scavare si trasforma in un acquitrino, che diventa maledettamente difficile individuare gli strati e che quindi lo scavo sta fermo un giro finchè il sole non asciuga la superficie del terreno.
Così abbiamo fatto. Fino a oggi, sabato 10 novembre 2018, perchè ieri la pioggia ci ha dato finalmente tregua.
Con i primi timidi raggi di sole il team, sveglio di buon’ora, si è radunato fuori dalla casa missione per salire sul camioncino Iveco con direzione Abu Tbeirah. Lo sfondo, ormai familiare, è la ziggurat di Ur. Dopo aver caricato le borse con l’attrezzatura, la stazione totale e noi stessi, siamo partiti alla volta del cantiere.
Per arrivare sul sito si attraversa la periferia di Nasiriyah, a quest’ora del mattino brulicante di vita: un mercato, la moschea, gli uomini che vanno al lavoro , i bambini per le strade, capannelli di donne, pecore, tacchini e tanta acqua dappertutto.
Il viaggio dura circa mezz’ora e finalmente si intravede il tell di Abu Tbeirah, una leggera protuberanza in mezzo ad un paesaggio pianeggiante che si perde a vista d’occhio.
I nostri prodi archeologi scendono dal camioncino e…affondano nel fango.
Ebbene sì, il primo incontro con il sito di Abu Tbeirah è stato per così dire d’impatto. Scarponcini che affondano con tutta la suola, pantaloni schizzati di fango, scivoloni ed equilibrio precario.
Ne è valsa la pena? Giudicate voi dalla foto qua sotto.
Licia Romano (co-direttrice dello scavo) ci ha portati nell’area scavata lo scorso anno dove si vedono distintamente le strutture degli edifici in mattoni crudi messi in luce, le tracce delle fosse delle tombe già scavate e la quadrettatura delimitata dai picchetti.
La struttura è stata interpretata come una household, un’unità con funzioni abitative e produttive, datata al periodo di transizione dal cosiddetto Proto-dinastico all’Accadico (attorno al 2350-2300 a.C.), un momento storico molto importante che ha visto l’unificazione delle città stato della Mesopotamia meridionale ad opera del sovrano Sargon di Akkad.
Tutto intorno cocci, cocci e ancora cocci, estremamente frammentari, che emergono dall’argilla e che si incollano sotto le scarpe infangate.
La vera sorpresa però arriva quando ci spostiamo nell’area del porto individuato l’anno scorso, scoperta vincitrice del Social Award della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.
Il bacino del porto (Marsa in arabo), a seguito delle piogge dei giorni scorsi, è tornato a riempirsi di acqua, restituendoci l’immagine di come doveva probabilmente apparire nel III millennio. Quello che ancora non si vede e che le prossime campagne di scavo cercheranno di mettere in luce sono le banchine e le infrastrutture portuali.
Al termine del sopralluogo, utile a definire la strategia di scavo delle prossime settimane e a mostrare l’area agli studenti che quest’anno scaveranno per la prima volta, siamo ripartiti alla volta della casa missione, con gli occhi pieni di meraviglia e la motivazione giusta per iniziare lo scavo domani .
Pianificare e organizzare una missione di scavo è di per sè un’attività che richiede tempo, impegno, la convergenza di professionalità diverse, studi preliminari, capacità di team building, di foundraising e di ottimizzazione delle risorse.
Se poi lo scavo è in Iraq, se ha inaspettatamente piovuto, se i tempi di scavo sono stretti, allora essere archeologi vuol dire trasformarsi in piccoli supereroi in grado di risolvere problemi e portare a casa il risultato. E per fare questo la dote più importante di tutte che all’università non ti insegna nessuno è: non perdersi mai d’animo.
Con questo spirito domani si inizia a scavare.
(…continua)
Antonia Falcone
(@antoniafalcone)
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[…] il clima non proprio ottimale che abbiamo incontrato i primi giorni (qui, qui e qui le prime tre puntate del Diario), finalmente lunedì è giunto per noi il tempo di andare […]
[…] cancellate quello che vi ho scritto ieri: oggi niente cantiere. Ma qui in Iraq è così, non sai cosa farai da un giorno […]
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