Artigianato e Palazzo: tracce di archeologia

È trascorsa una settimana da Artigianato e Palazzo, una delle più importanti manifestazioni che animano la primavera fiorentina da ben 23 anni. L’evento che ha come sottotitolo “Botteghe artigiane e loro committenze” nasce nel 1995 da un’idea di Neri Torrigiani e viene promossa, nonché ospitata nel giardino della sua dimora seicentesca, dalla principessa Giorgiana Corsini con  un obiettivo programmatico: rivalutare e raccontare la figura dell’artigiano nella sua evoluzione fino ai giorni nostri. Quel sapere artigianale da sempre fiore all’occhiello della manifattura italiana nel mondo.

 

Cosa c’entra dunque Professione Archeologo con Artigianato e Palazzo?

 

Come avrete seguito nelle nostre Stories su Instagram, dal 17 al 19 maggio abbiamo preso parte all’evento in qualità di guest blogger selezionati nell’ambito del topic Blogs And Crafts, i giovani artigiani e il web, iniziativa nata a latere dell’evento principale che da  quattro anni presenta le nuove generazioni di artigiani a confronto con le nuove professionalità della comunicazione. Un gruppo di dieci blogger chiamati a raccontare i giorni della manifestazione, ognuno dal suo personalissimo punto di vista.

E altrimenti che blogger saremmo?

 

La sfida per noi è stata quella di cercare tracce di archeologia in un evento che non ha certamente come fulcro l’antichità ma che quest’anno si è caratterizzato per la raccolta fondi a favore della riapertura del Museo di Doccia, che ospita la più importante collezione di ceramiche Ginori del mondo. Se volete approfondire e saperne di più, potete leggere il nostro post qui.

 

Dunque arrivati al Giardino Corsini abbiamo dato il via alla missione “Trovare l’archeologia ovunque”, riuscire cioè a scovare riferimenti al mondo antico per dimostrare una volta di più, qualora fosse necessario, quanto la nostra disciplina sia attuale e viva nella contemporaneità.

 

Di seguito trovate le 3 TRACCE DI ARCHEOLOGIA ad Artigianato e Palazzo:

 

Il Giardino Corsini

 

Entrare nel Giardino Corsini lascia senza fiato: un lungo muro separa questo angolo di paradiso dal caos cittadino. Varcato l’ingresso ci si trova catapultati nel Seicento: un giardino all’italiana con aiuole geometricamente sagomate, labirinti di siepi e il grande viale centrale costeggiato da statue neoclassiche che richiamano l’iconografia di opere antiche, secondo il gusto barocco dell’epoca. E già qui le tracce del passato fanno aguzzare la vista. Il Giardino Corsini al Prato nasce come progetto di Alessandro Acciaiuoli con l’obiettivo di realizzare un “casino di delizie”. Nel 1620 la proprietà passa ai Corsini che danno all’area la struttura visibile oggi.

 

Percorrendo il viale, fiancheggiato dalle statue marmoree poste ad altezze differenti sui rispettivi piedistalli per conferire profondità al percorso verso il Palazzo padronale, si giunge in prossimità della residenza principesca: una loggia inquadrata da tre arcate definisce l’ingresso.

 

Saliti i pochi gradini si spalanca una porta spazio temporale e si passa dal Seicento all’età greco-romana: la facciata del palazzo è un lapidarium vero e proprio. Una collezione imponente di lapidi e iscrizioni greche e romane impreziosisce il prospetto del palazzo. Nel Settecento infatti la famiglia Corsini raggiunse l’apogeo tanto che il Cardinale Lorenzo Corsini fu eletto al soglio pontificio come Papa Clemente XII, il cui nipote Neri fu grande collezionista di antichità. Dobbiamo proprio a lui la raccolta epigrafica murata nella facciata di Palazzo Corsini al Prato.

 

 

Loggia di Palazzo Corsini al Prato

 

 

Iscirizioni nella facciata di Palazzo Corsini al Prato

 

 

Il Giardino di Livia

 

Passeggiando tra gli stand di Artigianato e Palazzo ad un certo punto l’attenzione viene catturata da un’immagine: un  giardino dipinto con alberi che si stagliano su uno sfondo nelle tonalità del verde e dell’azzurro. Improvvisamente un’intuizione da archeologi: il giardino della Villa di Livia con gli affreschi del ninfeo sotterraneo, oggi conservati a Palazzo Massimo alle Terme.

 

Terra D’Ombra

 

Affresco della Villa di Livia

 

 

L’intuizione si conferma corretta: un veloce scambio di battute con l’artigiana Elena D’Atti di Terra D’Ombra  per capire che si tratta di un omaggio allo splendido giardino della villa di Prima Porta. Elena ci racconta che proprio l’incanto suscitato dalla visita al museo romano le ha dato l’ispirazione per riprodurre, in una versione rivista e corretta, una parte del giardino illusionistico della villa augustea.

 

 

Manifattura Ginori

 

Al percorso che porta da un pezzo d’argilla alla nascita di un vaso in ceramica era invece dedicata la Mostra Principe all’interno della Limonaia Piccola del Giardino Corsini: artigiani che dalla modellazione alla decorazione presentavano ai visitatori i vari passaggi della Manifattura Richard Ginori. Un momento importante di didattica per gli archeologi che si occupano di ceramica, in particolare di quella post antica, che tante volte ritroviamo negli scavi urbani.

https://www.instagram.com/p/BjACGOWASwg/

 

 

E a proposito della Manifattura Ginori, un extra bonus di questa veloce carrellata è dedicato al donamat Donachiaro: il sistema di raccolta fondi per la riapertura del Museo di Doccia. All’interno della loggia di Palazzo Corsini è stato infatti sistemata una stazione digitale Itineris che permetteva a chiunque volesse partecipare al fundrising per il museo di fare una donazione. Si tratta di uno sportello bancomat mobile al contrario: invece di ritirare il denaro, attraverso carta o contanti, si può donare senza un limite minimo di importo.

 

Un metodo innovativo che potrebbe magari un giorno essere applicato a tanti piccoli musei italiani per campagne mirate di fundraising.

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

Il Museo di Doccia nella storia della ceramica

Dal 17 al 20 maggio Firenze ospita per la XXIV edizione la manifestazione Artigianato e Palazzo, un appuntamento in grado di richiamare migliaia di visitatori nella città toscana, che si trasforma per l’occasione nel centro della manifattura artigianale italiana, fiore all’occhiello della nostra storia.

 

Professione Archeologo è stato selezionato tra i 10 blog operanti sui temi di artigianato, lifestyle, moda, cultura e turismo che racconteranno live l’evento attraverso i social. In particolare ci concentreremo sull’iniziativa Blogs & Crafts, pensata per combinare il “saper fare” e il “saper comunicare”: 10 artigiani raccontati da 10 blogger per riflettere sull’importanza del connubio tra tradizione e multimedialità.

 

Quest’anno c’è un motivo in più per recarsi al Giardino Corsini e trascorrere una giornata alla scoperta di tradizioni artigianali secolari: il ricavato degli ingressi sarà totalmente devoluto all’Associazione Amici di Doccia per sostenere la riapertura del museo che conserva la più importante collezione di porcellana a marchio Richard-Ginori.

 

Porcellane che magari tra qualche secolo diventeranno fossili guida per gli archeologi del futuro.

 

Lo sviluppo artistico della Manifattura di Doccia si presenta particolarmente articolato e […] specchio delle differenti situazioni storiche e culturali che si avvicendarono nella storia della Toscana nell’arco di circa centocinquanta anni, dalla caduta degli ultimi Medici agli anni di Firenze Capitale

 

Facciamo un passo indietro e ripercorriamo la storia della collezione.

 

La manifattura di Doccia, in provincia di Firenze, nasce nel 1735 ad opera del Marchese Carlo Ginori sull’onda del fascino esercitato da oriente dal cosiddetto Oro Bianco. Le porcellane toscane si distinguono subito per i riferimenti culturali di pregio ai quali attingono: Ginori infatti acquistò opere tardo barocche, calchi di opere d’arte, terrecotte, sculture, che funsero da catalogo per i motivi ornamentali delle ceramiche.

 

Le prime porcellane di Doccia databili risalgono al 1740. Ben presto le maioliche e le porcellane invasero i mercati europei proprio perché si caratterizzavano per il notevole gusto artistico sotteso alla loro realizzazione. Non solo dunque oggetti funzionali, ma opere d’arte minore che facevano bella mostra di sé sulle tavole delle aristocrazie. Tipici motivi ornamentali di questa fase sono tulipani e galletti, senza dimenticare gli stemmi araldici di importanti famiglie patrizie che impreziosivano caffettiere, teiere, zuppiere, zuccheriere.

 

Seriazione crono-tipologica della ceramica vi dice niente?

 

La fabbrica di Doccia non produceva soltanto servizi da tavola, ma anche statuette che attingevano al repertorio dell’arte classica e alla mitologia, anticipando il neoclassicismo che sarebbe venuto da lì a poco: la Venere Medici, Amore e Psiche, il Lacoonte.

 

Una problematica molto interessante a livello metodologico per noi archeologi risiede nel riconoscimento delle diverse famiglie decorative di questa fase settecentesca. Esistevano infatti degli inventari in fabbrica per le varie tipologie di decorazioni. Eppure in alcuni casi non è stato possibile trovare un confronto preciso tra inventario e oggetti,  anomalia riconducibile a diversi fattori come la presenza di pezzi unici, l’improvvisazione dei pittori più bravi, le commissioni delle corti, i rimpiazzi eseguiti in fabbrica.

 

Arriviamo all’Ottocento quando la manifattura passa nelle mani di Leopoldo Carlo Ginori Lisci: si avvia un periodo di profondo rinnovamento con l’apertura ai modelli francesi del primo impero. Tra i motivi decorativi di questa fase prevalgono le “vedute”: scorci di rovine romane, architetture classiche, scene mitologiche e tutto il repertorio iconografico legato alle grande scoperte di Pompei, Ercolano e Stabia. Fondamentale il ruolo di Winckelmann nella diffusione di tali immagini iconiche. Sempre al repertorio classico si riferiscono le appliques di mascheroni, sfingi alate e leonine, aquile, serpenti, arpie.

 

Problemi di ordine economico e gestionale della manifattura caratterizzano lo scorcio del secolo, fino ad arrivare al 1896 quando la fabbrica viene venduta a Giulio Richard, industriale milanese: nasce così la Società Ceramica Richard-Ginori, attiva fino a gennaio 2013.

 

Il Museo di Doccia rappresenta il più antico museo d’impresa in Europa e infatti la sua storia va di pari passo con quella della manifattura: grazie alla sua lungimiranza il Marchese Ginori creò fin dal Settecento una Galleria nella villa di Doccia in cui esporre le migliori produzioni della fabbrica. La collezione nel corso dei secoli si è arricchita di pregiati pezzi d’arte fino al 1965 anno in cui fu costruita l’attuale sede espositiva su progetto di Pier Niccolò Berardi.

 

Purtroppo la gloriosa storia della famiglia Ginori e di questo pezzo importante di storia manifatturiera e artistica italiana si ferma nel maggio del 2014 quando il museo chiude e viene abbandonato con conseguenti danni strutturali all’edificio. A farsi carico della conservazione della memoria della manifattura è l’Associazione Amici di Doccia che riesce ad ottenere nel 2017 l’acquisto della collezione da parte del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

 

Per far sì che la collezione torni fruibile al pubblico, in questa edizione di Artigianato e Palazzo è stata quindi lanciata un’imponente raccolta fondi attraverso:

 

  • Gli ingressi alla manifestazione (offerta minima 8,00 euro; 6,00 per i ragazzi tra i 12 ed i 18 anni, i più piccoli entrano gratuitamente).
  • La vendita di 20 opere create per l’occasione dal designer fiorentino Duccio Maria Gambi
  • Il ricavato delle vendite del Pop Up shop di Richard Ginori presente al Giardino Corsini nei giorni di mostra e dove si potranno acquistare le porcellane della celebre collezione “Bianco”
  • Le donazioni raccolte attraverso il dispositivo “Donachiaro” progettato da Itineris Italia e allestito nel Giardino Corsini nei giorni della manifestazione

 

Un momento importante di crowdfunding per la cultura per restituire al pubblico un pezzo importante della nostra storia.

 

Vi ricordiamo che da giovedì 17 potete seguire la manifestazione sui social con l’hashtag #blogsandcrafts.

 

Link utili:

Artigianato e Palazzo http://www.artigianatoepalazzo.it/ 

Amici di Doccia http://www.amicididoccia.it/

Richard Ginori https://www.richardginori1735.com/

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

Milano Sepolta, una mostra fotografica per raccontare l’archeologia urbana

“Milano sepolta. Dieci anni di archeologia urbana a Milano” è il titolo della mostra fotografica in corso al Civico Museo Archeologico di Milano fino al 13 maggio e inaugurata il 2 marzo. Si tratta di un percorso espositivo che racconta gli scavi archeologici condotti nel decennio 2005-2015 nel capoluogo lombardo.

 

Mappa dei ritrovamenti e delle foto presenti in mostra

 

Appena ho letto il titolo dell’esposizione mi è venuto naturale pensare che la parola Milano potrebbe essere sostituita agevolmente con una qualsiasi città italiana dove le attività di tutela portano spesso alla luce dal sottosuolo tracce del passato.

 

Laddove la normativa lo prevede, infatti, i lavori di scavo in aree urbane vengono monitorate dagli archeologi “guardatori di ruspa” che hanno il compito di verificare l’assenza o presenza di manufatti e materiali archeologici. La cosiddetta archeologia d’emergenza, quella che nella maggior parte dei casi dà lavoro a chi decide di intraprendere la strada da archeologo. Lo stesso tipo di lavoro che fa urlare al rallentamento degli scavi o all’intralcio degli archeologi rispetto al progredire della cementificazione di intere città.

 

Un mestiere, il nostro, che, come ben sappiamo, è fatto di odi et amo da parte dei non addetti ai lavori, pronti ad emozionarsi per la scoperta di una nuova tomba e allo stesso tempo a lamentarsi quando il cantiere occupa temporaneamente posti auto o interrompe la viabilità corrente.

 

Come fare dunque a conciliare questa continua oscillazione percettiva nei confronti della nostra disciplina? Come spiegare che quella tomba o quella villa sono stati scoperti proprio perché le norme sui Beni Culturali prevedono che i lavori di scavo vengano seguiti da un archeologo? Come spiegare che tutto ciò che viene portato alla luce è patrimonio comune e racconta la storia delle nostre città, la stratificazione di vite che hanno abitato e vissuto quegli stessi luoghi che ogni giorno calpestiamo frettolosamente andando al lavoro?

 

La risposta sta in una semplice constatazione che a volte sfugge anche a molti operatori archeologi ed è “ridare un senso a quello che facciamo attraverso la valorizzazione e comunicazione del nostro lavoro”. Niente di più facile: si scava, si documenta e poi si illustra alla cittadinanza perché quell’area della città è stata oggetto del lavoro di ricerca scientifica degli archeologi, cosa ci hanno guadagnato i cittadini in termini di conoscenza della propria storia passata e di arricchimento del patrimonio culturale.

 

Il senso dell’archeologia urbana è quello di andare a ritroso nelle vicende urbanistiche metropolitane per indagare le trasformazioni di un tessuto connettivo fatto di abitazioni, luoghi di culto, botteghe, cimiteri, strade, attività produttive, cercando di avvicinarsi quanto più possibile alla definizione e posizionamento topografico di tutto ciò che nel corso dei secoli ha definito il vivere insieme. Come quando tra molti secoli gli archeologi del futuro scaveranno le nostre città e individueranno il quartiere della movida, quello dello shopping, quello residenziale, lo stadio e così via, e in questo modo racconteranno la storia di noi che quei luoghi li abitiamo oggi.

 

Ogni scavo archeologico dunque dovrebbe essere fatto di un Pre, un Durante e un Post.

 

  • Pre: raccolta della documentazione volta a mettere insieme tutti i dati che possano fornirci informazioni sull’area che andiamo ad indagare (documenti d’archivio, fonti, foto storiche, etc)

 

  • Durante: le attività di scavo vere e proprie, condotte stratigraficamente e documentando tutto quanto viene alla luce, posizionando i ritrovamenti in modo che chi verrà dopo di noi saprà esattamente dove si trovava cosa.

 

  • Post: Non Pervenuto. Cioè il Post scavo dovrebbe consistere innanzitutto nella pubblicazione di quanto emerso e poi nella divulgazione e comunicazione alla cittadinanza dei risultati delle indagini effettuate. Cosa che avviene assai raramente per i motivi più disparati, non ultimo la carenza di fondi per la valorizzazione e la comunicazione.

 

Tutta questa premessa mi è sembrata necessaria per darvi più di una ragione per approfittare dell’ultima settimana di esposizione e precipitarvi a vedere la mostra “Milano Sepolta”. Dichiarazione programmatica degli organizzatori è quella di aver voluto la mostra per rendere partecipe la collettività non soltanto di quanto emerso durante gli scavi archeologici condotti nel decennio 2005-2015 in diverse aree di Milano, ma soprattutto per far emergere il duro lavoro degli archeologi per riportare alla luce, tutelare e valorizzare i beni archeologici.

 

Ph. Credit: Pietro Mecozzi

 

Un’attenta selezione d immagini di scavo, rievoca la memoria di questa realtà, parte integrante dell’anima della città, prima che venga definitivamente perduta

 

Un esperimento riuscito che speriamo davvero possa fare da apripista per altre città.

 

Ph. credit: Pietro Mecozzi

 

Lancio qui la mia proposta al Ministero: perché non pensare ad istituire “la settimana dell’archeologia d’emergenza” mettendo in calendario mostre, eventi, conferenze in tutta Italia per raccontare cosa c’è dietro le transenne dei cantieri urbani?

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

 

L’esposizione è promossa dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la Città Metropolitana di Milano e dal Civico Museo Archeologico di Milano, progettata da Pietro Mecozzi e Ilaria Frontori con le fotografie di P. Mecozzi, A. Baudini, V. Borroni, F. Manfredini e M. Pessina.

 

L’esposizione è visitabile negli orari di apertura del museo all’interno del percorso di visita alle collezioni con il biglietto di accesso al museo.

 

Bio dei curatori:

 

Ilaria Frontori: attualmente assegnista di ricerca in Archeologia Classica presso l’Università degli Studi di Milano e direttore tecnico per la missione di scavo a Nora (CA), si occupa dello studio di Milano romana, in particolare degli aspetti funerari e urbanistici. Collabora da oltre 10 anni con aziende private ed enti pubblici per scavi di emergenza e indagini di archeologia preventiva.

 

Pietro Mecozzi: archeologo e antropologo da campo, si è laureato presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi di archeologia funeraria. Collabora con l’ateneo milanese alle missioni di Nora (CA) e Gortina (Creta) e lavora a scavi d’emergenza in tutto il nord Italia dal 2005. Appassionato di fotografia da sempre, è al suo secondo progetto.

 

Pompei@Madre: l’antico nel contemporaneo

La mostra Pompei@Madre è frutto della collaborazione tra il Parco Archeologico di Pompei e il Museo di Arte Contemporanea di Napoli: un’occasione nella quale non è il contemporaneo a far mostra di sé in un sito o area archeologica, ma al contrario è l’antico ad “occupare” gli spazi espositivi dell’arte di oggi. Un esperimento fortemente voluto da Massimo Osanna e Andrea Viliani, curatori della mostra.

 

La mostra è articolata in due capitoli:

 

 

 

Su invito di Scabec, società della Regione Campania per la valorizzazione e promozione dei beni culturali regionali, sabato 17 marzo abbiamo preso parte all’#InstameetPompeiMadre, un evento organizzato in collaborazione con Igers Napoli che ha visto la partecipazione di blogger e instagramers impegnati a raccontare attraverso immagini e parole questo esperimento espositivo. Una sinergia di intenti tra istituzioni culturali locali per valorizzare un patrimonio artistico universale.

 

Sottotitolo della mostra è infatti “Materia archeologica” perché di questo si tratta: di materia antica e contemporanea in dialogo. Il dipanarsi della giustapposizione tra opere d’arte contemporanee e oggetti d’uso del passato prende le forme di una Domus contemporanea: le sale del Madre si trasformano così nelle stanze di una tipica dimora pompeiana. Atrium, Fauces, Triclinium, Cubiculum vissuti e riletti tra le installazioni dei più importanti artisti che impreziosiscono le collezioni del museo.

 

Il concept alla base di questo innovativo esperimento è leggibile nelle appassionate parole di Andrea Viliani, eletto da Artribune quale Miglior Direttore di Museo in Italia per il 2017 .

 

“Napoli non è una città dove il passato è cristallizzato, ma qui è vissuto quotidianamente. E come Pompei ci costringe a guardare all’integrazione tra natura e materia, così è necessario intaccare il pregiudizio che nei musei contemporanei tutto deve essere contemporaneo, dall’architettura alle opere. È contemporaneo il nostro modo di guardare alle cose, non gli oggetti.”

 

Tante e tali sono le impressioni suggerite dalla mostra che non basterebbe un post per raccontarle tutte. Abbiamo deciso così di stilare la nostra Top Five delle sale di Pompei@Madre:

 

Sala Sol Lewitt – Opus Sectile

 

L’integrazione perfetta tra i colori di Pompei e le celeberrime linee di uno dei più importanti artisti americani: i Wall Drawings posti su due pareti affrontate sono un intreccio di migliaia di linee rette sovrapposte che frammentano lo spazio pittorico e avvolgono l’opus sectile proveniente dalla casa di Marco Fabio Rufo, collocato al centro della sala a catturare lo sguardo dei visitatori. Piccole tessere di marmo colorato inquadrate da una fascia monocroma bianca: doveva essere la pavimentazione di un portico colonnato della sontuosa villa pompeiana.

 

Sala Mimmo Paladino – Cubiculum

 

L’angoscia della morte cristallizzata nel calco di un genitore e del suo bambino, fissati per sempre nei millenni a venire da quel 79 d.C.. Immagine del terrore che sopraggiunge con la catastrofe naturale e l’empatia della scultura bianca in forma umana stilizzata che sembra disperarsi contro il muro della sala. Sono immagini fortemente evocative, ancor più enfatizzate dai segni graffiati sulle pareti. Il cubiculum appare così come spazio del sonno eterno.

 

Sala Richard Long – Culina

 

Una città nel pieno delle sue attività quotidiane: scambi commerciali, vita nelle botteghe e per le strade, questa era Pompei all’alba dell’eruzione del Vesuvio. Della fiorente laboriosità della cittadina vesuviana rimangono gli oggetti di uso comune: anfore, spiedi, mortai, pentole, tegami, tutte le suppellettili che avremmo potuto trovare nella cucina di una delle tante domus di Via dell’Abbondanza. Materia in trasformazione, come il fango, unione di acqua e terra che, nell’installazione di Richard Long, è distribuito sulle pareti della sala e che si pone in connessione con il cibo, materia che nutre.

 

Sala Jeff Koons – Taberna/Moenia/Pomerium

 

Artista di rottura e di denuncia, Jeff Koons con la sua arte racconta la cultura contemporanea nei suoi miti di materialismo e consumismo, rileggendo la Pop Art e amplificandola a dismisura nelle sue dimensioni. Supereroi e pubblicità, tutto il patrimonio delle immagini della globalizzazione che corre sulle pareti della sala a lui dedicata. E al centro il simbolo del conflitto: proiettili di catapulta rinvenuti lungo le fortificazioni di Pompei, ricordo dell’assedio di Silla dell’89 a.C. con il generale romano vittorioso sui pompeiani, primo passo verso l’ingresso della città nell’orbita politica romana.

 

Sala Rebecca Horn – Sepulcra

 

Infine la vanità della vita nel confronto tra l’installazione di Rebecca Horn e i cippi funerari pompeiani. Le riproduzioni in serie di uno dei teschi del Cimitero delle Fontanelle di Napoli sono coperte e riflesse ad un tempo in specchi mobili, simboli di vanitas barocca e della continuità fra vita e morte. Un memento mori che incontra i segnacoli dei monumenti funerari extra moenia di Pompei: cippi in pietra lavica, calcare, tufo o marmo che riproducono forme antropomorfe stilizzate e sempre corredati da iscrizioni con il nome e l’età del defunto.

 

 

A completamento di questa rapida carrellata all’interno della Domus Contemporanea allestita tra le sale al primo piano del Madre, abbiamo un Extra Bonus da raccontarvi. Basta salire con noi al terzo piano ed entrare nel pieno della Materia Archeologica: la terra e quello che restituisce.

 

Sala Ø – Lo scavo archeologico come ipotesi e narrazione (strumenti, scoperte, distruzioni, diari)

 

Un viaggio nel tempo che ci narra della Pompei scavata, rinvenuta, documentata e di coloro che materialmente l’hanno portata alla luce. Forse la sezione più archeologica di tutta la mostra benché non siano esposti vasi, oggetti o affreschi provenienti dalla città antica. Potremmo definirlo lo scavo dello scavo, con una provocazione.

 

Alle pareti i diari di scavo del Settecento con le belle grafie degli scopritori, disegni a mano e un linguaggio arcaico che poco hanno a che fare con le US e i rilievi di oggi; le schede inventariali post bombardamento degli anni Quaranta con l’elenco dei pezzi andati perduti, ma soprattutto nelle teche gli strumenti di scavo della metà del Novecento.

 

Picconi, ceste per il trasporto della terra di risulta, lanterne per scavare al buio, squadre da cantiere e i setacci: mancano le trowel, la stazione totale e i droni, tutto l’instrumentum che oggi siamo abituati a maneggiare in cantiere e che magari un giorno andranno a riempire le sale di qualche museo del futuro per raccontare la Professione dell’Archeologo.

 

Antonia Falcone

(@antoniafalcone)

 

Info utili:

Orari

Lunedì / Sabato
10.00 – 19.30
Domenica
10.00 – 20.00

Martedì chiuso