Ragione e Sentimento: #mestieridellacultura

I mestieri della cultura,  come l’archeologo o lo storico dell’arte, vengono  ancora considerati, nel comune sentire, alla stregua di un hobby o di un divertissement per chi può contare su altre fonti di reddito. Questa percezione è certamente rafforzata dal vuoto normativo entro cui agiamo, ma anche dall’incapacità di vedere prospettive occupazionali e di sviluppo economico che il settore cultura può portare.

 

 

Il nostro Paese di quella fonte di guadagno che sono e possono essere archeologia, arte e cultura, tuttavia, non può proprio più fare a meno. Fosse anche solo per poco romantici motivi economici.

 

 

Ed è proprio centrato sui #mestieridellacultura il sondaggio lanciato dal Ministro Bray sul suo sito personale.

 

 

Seguendo il sentiero tracciato negli ultimi mesi (comunicazione e partecipazione virtuale, uso massiccio del 2.0 e confronto con gli utenti), a margine di un breve articolo che esplicita proprio questo rapporto basato su uno scambio virtuale e virtuoso di opinioni, il Ministro lancia  un questionario.

 

 

Sono molteplici e diverse le professioni messe sul tavolo, che abbracciano tanto il settore culturale vero e proprio quanto quello più vicino al turismo, talmente tante e variegate da ricordare la congerie di occupazioni inserite nella famigerata categoria “altre attività” della gestione separata INPS.

 

Insomma siamo tanti, spesso parzialmente impiegati e mal retribuiti, ma potenzialmente occupabili nei settori più diversificati.
Le domande e le risposte proposte  non sono tutte specifiche come si vorrebbe, ma un certo grado di generalizzazione per un’indagine è sempre  necessario.
Personalmente, tra le altre cose, avrei apprezzato una domanda semplice semplice, ma che sarebbe andata dritta al cuore del problema: “Tu, operatore della cultura, riesci a sopravvivere con il tuo lavoro?”  Perchè se dobbiamo parlare di #mestieridellacultura, dobbiamo parlare anche di possibilità occupazionali che dovrebbero, se non proprio essere l’unica fonte di reddito, almeno garantire una retribuzione dignitosa.

 

In caso contrario lanciamo il dado e ritorniamo al via: rimarranno pochi e fortunati rampolli che vivono di reddito non derivante da lavoro e che conseguentemente possono fare cultura.
Non secondariamente poi, come ha fatto notare una commentatrice, il questionario si rivolge solo agli occupati di turismo e cultura e non ai potenziali o ex tali. Sarebbe stata certo più lungimirante una ricerca volta non solo a sondare le opinioni di quelli che, per fortuna o per tigna, lavorano ancora nel settore, ma anche quelle di coloro che, appena usciti dal proprio percorso di studi o ancora alle prese con la formazione univeristaria, si guardano intorno smarriti alla ricerca della risposta a: “Che lavoro farò da grande?”
Infine, vale la pena rilevare come la fotografia che ne uscirà sarà solamente quella di un certo target dei #mestieridellacultura e del turismo, quello che utilizza costantemente e piuttosto consapevolmente il web.
In altre parole le mancanze si notano, ma l’iniziativa è lodevole ed incoraggiante, ed in fondo, come ci insegna l’archeologia, se anche non si può capire e ricostruire proprio tutto, una conoscenza parziale è decisamente meglio di nulla.

 

 

Rispondiamo al questionario quindi, e cerchiamo di farci ben ritrarre in questa istantanea che il MinistroSocial vuole scattare di noi.  La strada per far convergere la Ragione (economica, di sbarcare il lunario sia come singoli che come sistema Italia ) ed il Sentimento (di profondo amore per Arte e Cultura) è ancora piuttosto lunga da costruire, basolo dopo basolo, ma le prime volenterose pietre, pare, si vogliano gettare.

 

#mestieridellacultura

 

@OpusPaulicium

 

#Archeologiamuta: scene da un patrimonio

Su Professione Archeologo ne abbiamo discusso spesso: può l’archeologia italiana sviluppare gli strumenti per uscire dall’alveo degli “addetti ai lavori” e diventare invece patrimonio comune e condiviso?

 

A dare retta a quel che leggiamo on line, e sempre più frequentemente negli ultimi tempi, la risposta, purtroppo, è no.

 

L’immagine che viene fuori, invece, ricostruita attraverso casi più o meno eclatanti, reportage, articoli, e, aggiungiamo, anche dalla nostra personale esperienza quotidiana, è quella di un’archeologia che non riesce a comunicarsi e quindi a rendersi accessibile al grande pubblico.

 

Quest’inaccessibilità si manifesta in due momenti distinti, ma complementari: da una parte la problematica legata agli open data ed alla possibilità di permettere la fruizione collettiva dei risultati delle indagini archeologiche, dall’altra la questione della carenza di forme adeguate di valorizzazione del patrimonio archeologico: pensiamo ad esempio alla difficoltà di comprensione che un visitatore può incontrare di fronte ad una testimonianza archeologica che, per quanto conservata, celebrata e magari anche molto nota, spesso rimane però “muta”, talvolta letteralmente.

 

 

Segnaliamo a questo proposito i reportage di Manlio Lilli e Flavia Amabile, che, rispettivamente, sulle pagine del Fatto Quotidiano e de La Stampa, stanno sollevando nelle ultime settimane il problema dei “Monumenti fantasma” a Roma.

 

I monumenti fantasma: la prima puntata (Il Mausoleo di Augusto)

 

I monumenti fantasma: la seconda puntata (L’Ateneo di Adriano)

 

I monumenti fantasma: la terza puntata (La Meta Sudans)

 

I monumenti fantasma: la quarta puntata (Le Terme di Traiano)

 

Nella Roma senza cartelli

 

 

Il problema è ben noto, non solo a chi lavora nell’ambito dei beni culturali, ma anche ai cittadini che, nella veste di turisti o di semplici passanti, si ritrovano troppo spesso a cercare e non trovare, a guardare e non vedere, e questo perché manca non solo una strategia comunicativa (che espressione forte!), ma addirittura semplicemente un adeguato apparato informativo.

 

Archeologiamuta, dunque, che è come dire archeologia negata, nascosta, altra dal paese reale, che spesso la dimentica, non la considera, la ritiene troppo onerosa.

 

C’è la necessità di investimenti (pubblici, privati), è vero, ma c’è anche la necessità di trovare il linguaggio giusto, che spieghi e responsabilizzi, che coinvolga e renda partecipi, che racconti e ricostruisca, perché se le storie che tiriamo fuori dalla terra non diventano storia collettiva, se il patrimonio culturale non diventa eredità di tutti, da tutti difeso e da tutti compreso, per l’archeologia italiana e per gli archeologi che giorno dopo giorno studiano, lavorano, portano alla luce preziose tracce del nostro passato, il futuro, ahinoi, è sempre più nero.

 

 

#archeologiamuta #archeologianegata su twitter per ridare la parola al nostro patrimonio archeologico

 

@Pr_archeologo

 

 

 

 

#Nograndinavi: il fragile equilibrio della Serenissima

Oggi vi proponiamo una riflessione off topic rispetto alle tematiche delle quali ci occupiamo di solito qui su professione archeologo.
Ma ci preme affrontare un argomento che solo apparentemente ha poco a che fare con l’archeologia.

 

 

Noi operatori dei bei culturali abbiamo il compito di tutelare, preservare e valorizzare il nostro patrimonio, la nostra “missione” è consegnare ai posteri quello che ci ha lasciato la storia. E la sfida più grande che abbiamo davanti è quella di saper raccontare questa storia, renderla accessibile anche ai non addetti ai lavori, perchè riconoscere le proprie radici è il primo passo verso la costruzione del futuro.

 

 

E’ per questo che vogliamo aprire un dibattito intorno a quello che ad oggi appare come un insulto e uno scempio della bellezza. Stiamo parlando della questione Grandi Navi a Venezia.

 

 

Stiamo parlando della fragilità di una città come Venezia, assediata dalle tante, troppi, navi da crociera che ogni giorno con la loro mole mastodontica sovrastano, come invasivi grattacieli galleggianti, campanili, calli e campi della Serenissima.

 

 

E non si tratta soltanto di un disvalore legato all’estetica della città che ci invidia tutto il mondo, parliamo anche di un problema di tutela del delicato equilibrio sul quale si regge la città lagunare: il modo ondoso di questi grandi scafi rischia infatti di sconvolgere le strutture che reggono le isole della laguna.

 

 

Forse è giunto il momento di affrontare il problema. O aspettiamo che prima o poi siano gli eventi a prendere il sopravvento? Il nostro paese è ancora in grado di “prendersi cura” del proprio patrimonio storico-artistico?

 

Del resto, oltre alle palesi esigenze di tutela riguardanti un ecosistema così delicato e la necessità di non compromettere i monumenti di una città unica, va sottolineato come il passaggio delle grandi navi, non solo non crei turismo di qualità, ma non faccia altro che alimentare, al massimo, una fruizione mordi e fuggi che incide negativamente sia dal punto di vista culturale che economico.

 

La Serenissima, quasi come una novella copia di se stessa, una Las Vegas italiana insomma, la si lascia attraversare e guardare dalle navi senza preoccupazione alcuna per la sua sopravvivenza, mostrandola come si mostra un quadro o peggio un animale impagliato.

 

Ma Venezia è città, organismo vivo e le grandi imbarcazioni invece di salvarla dalla stasi e dall’agonia la violentano e feriscono.

 

Detto questo, sebbene non ci siano drammi e naufragi da raccontare, sebbene non ci siano complicate controverse tecnologie da criticare, bisognerebbe  ogni tanto ricordarsi dell’articolo 9 della Costituzione che recita “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

 

E magari applicarlo.

 

Sicuramente si lederanno gli interessi di qualcuno ma si farà l’interesse di tutti.

 

 

 

 

 

 

 

Tomba di Tarquinia - archeologia archeologi

Sand Creek ovvero Dell’esistenza e Necessità della Figura dell’Archeologo ~ di Paola Romi

Strana professione la nostra, strani i fenomeni che la attraversano, celebrano e tartassano. Siamo fieri e granitici nella nostre certezze. Siamo giusti, siamo scevri da interessi strettamente economici, siamo certi di lavorare per il bene comune.
I fieri ed alteri sacerdoti della Storia.

 

Questo è il prequel ovviamente, o forse la convinzione di qualche fortunato.

 

La verità è un’altra, la raccontano in tanti sul web, ne abbiamo parlato spesso anche noi di PA. È una realtà fatta di grandissimi problemi pratici, economici e legislativi, eppure noi continuiamo a sentirci baciati dalla dea Fortuna perché, alla fine, facciamo un mestiere che ci piace. In fondo siamo comunque dei privilegiati.

 

Usciamo dalla metafora e torniamo al presente.

 

Tarquinia, settembre 2013: la missione dell’università di Torino scopre una tomba etrusca. Intatta. Due giorni fa notizia rimbalza su tutti i media, in Italia e all’estero ed una generazione di archeologi, con una punta di inevitabile invidia, constata che forse vale ancora la pena di fare questo lavoro.

 

Ieri 24 settembre. Esce un articolo del Corriere della Sera in cui, nel non esiguo spazio dedicato alla notizia, protagonista non è l’eccezionale scoperta, né il team che l’ha realizzata, ma lo sponsor, anzi uno degli sponsor, dello scavo: 53 anni, laureato in economia, docente universitario e AD di una florida impresa. Si parla di lui, della sua passione per l’archeologia, del suo passare le ferie, come tutta la famiglia, a scavare. Si descrivono le sue emozioni, si lascia a lui l’onore di entrare per primo nella tomba e sempre a lui l’onere di accennare ad “un’interpretazione” del contesto.

 

“Interpretazione”? No, scusate, ma gli archeologi? L’equipe della missione?

 

Non pervenuti.

 

Solo alla fine, quasi a chiosare con erudita leggerezza, si lascia la parola al professore che ha diretto lo scavo. Per una notazione da antichista, ovvio.

 

Constatato che forse persino Schliemann e Carter impallidirebbero davanti a tale visione dell’archeologia, quello che mi chiedo è come mai questo accade, perché, se una testata nazionale dà quel taglio all’articolo, se un non professionista entra per primo in una tomba inviolata, se la nostra figura professionale sembra non avere nessun valore ontologico, un motivo ci deve essere.

 

E chissà, magari questo è il prezzo da pagare nel non avere un ben definito approccio alle sponsorizzazioni: sì, no, forse, ci piacciono, non ci piacciono. Il risultato di questa relazione incerta, anche quando scientificamente non nefasta come in questo caso, può anche essere questo: lo sponsor che sostituisce il professionista.

 

Non illudiamoci, però. Il liberale professor Benini è il meglio che ci possa capitare. Per il resto rimaniamo, ahimè, trasparenti, considerati sostituibili senza troppi danni da chi lavora a titolo gratuito.

 

Riposseduta, o delle molteplici anime dei nuovi vertici MIBAC (e non solo) ~ di Paola Romi

Un fantasma si aggira per l’Europa… No, quella era un’altra storia, anche se di questi tempi sarebbe comunque molto pertinente.

 

Torniamo in Italia. Selezioniamo l’area metropolitana di Roma. Infine facciamo uno zoom sulla sede del MIBAC. Stop, ci siamo.

 

Sono passati alcuni mesi dall’inizio della legislatura e, strano a dirsi, i nuovi vertici del Ministero negli ultimi anni tra i più programmaticamente latitanti hanno insperatamente parlato abbastanza e fatto discutere ancor di più.

 

Due personaggi di primo piano in questo spettacolo tutto italiano:

 

Lui, il Ministro Massimo Bray, protagonista legittimo. Lei, Ilaria Borletti Buitoni, Sottosegretario nonché coprotagonista suo malgrado. Entrambi accompagnati, come di consueto, dalle chiose del Coro composto perlopiù dai Professionisti della cultura, ma anche da volenterosi cittadini dediti ad altre attività (N.d.a.  Al secondo personaggio, per ovvi motivi di semplificazione onomastica, d’ora in avanti si farà riferimento con l’appellativo BB).

 

Ma veniamo alla trama: dopo un primo breve momento di incredulità generale (Bray? Chi è costui?) e forse di spaesamento personale, il neoMinistro ingrana la quarta. Inizia con una visita a sorpresa a Pompei e, come il turista medio, rimane vittima dei mezzi pubblici italiani guadagnando così la simpatia di molti. Poi rilancia e presenta un dettagliato documento programmatico sulle future attività del MIBAC. Qualche ombra c’è, come il controverso riferimento a privatizzazioni e volontari, ma il Coro apprezza molto che si sia esposto. L’aspetto caratterizzante delle sue proposte sembra subito essere la promozione della cultura mediante i Social media e, coerentemente con questa proposta, Bray continua a cinguettare dal suo vecchio account Twitter. Non pago dei pareri che chiede in questo modo, apre una pagina su Facebook in cui, oltre a documentare le sue attività, raccoglie anche critiche ed opinioni. Bray insomma sembra aver sposato le cause dell’innovazione, della condivisione e della trasparenza.

 

Negli stessi mesi BB, già in passato fortemente impegnata nel FAI, punta nelle sue dichiarazioni su due temi diversi: concessione della gestione dei BBCC ai privati nonché impiego necessario e massiccio dei volontari. È granitica in questo. Nonostante sin dalla difesa della richiesta di volontari per La Notte dei Musei abbia sollevato, prima sul web e poi sui media tradizionali, una levata di scudi inconsuetamente trasversale, lei, anche in queste settimane, persevera nel “suggerire” l’utilizzo di personale non retribuito. Sulla gestione ai privati la questione è più complessa, il dissenso si fonda soprattutto sui modi e sui tempi, non sulla questione tout-court.

 

Ad onor del vero Bray, del resto, le amate tematiche di BB, nel documento programmatico le aveva inserite.

 

Quale è dunque l’anima vera di questa nuova gestione MIBAC? Quella MediaFriendly, low profile e collaborativa del volenteroso Ministro 2.0 o quella più elitaria e decisionista, che strizza l’occhio ad una gestione privatistica del Patrimonio Culturale, senza tenere conto delle possibili ricadute delle proprie idee su categorie di professionisti già tanto vessati?

 

Negli stessi mesi peraltro, con l’avanzare dell’iter del disegno di legge che introduce finalmente archeologi (e non solo), nel Codice dei Beni Culturali, con l’audizione dei rappresentanti delle Associazioni professionali alla Camera, anche il potere legislativo sembrava adeguarsi alla ventata di rinnovamento che si intuiva dietro le iniziative del Ministro Social.

 

Il Coro si era quindi convinto che il l’idea di un Patrimonio Culturale aperto e produttivo, senza penalizzare i suoi professionisti, nonché una gestione MIBAC 2.0 fossero possibili, addirittura vicini. Ma, immediato, a far di nuovo sorgere il dubbio su quali e quante siano le anime che permeano attualmente chi, a vario titolo, è chiamato a decidere del futuro dei BBCC (e anche del nostro), è giunto l’articolo di Luca Corsato.

 

Dopo il gran lavoro fatto, quando la necessità della condivisione e della pubblicità dei dati sembrava una cosa assodata, un colpo di spugna ha cancellato la questione OpenData dalle proposte di emendamento al Codice dei Beni Culturali.

 

A questo punto noi, come probabilmente il resto del Coro, ci chiediamo, rivolgendoci alla politica oltre che ai vertici MIBAC, non quale sia la vera anima del nuovo Ministero, ma, di tutto quello che è stato detto e fatto negli ultimi mesi, cosa sia facciata e cosa sia sostanza. E non di sostanza dei sogni parliamo, ma di interventi concreti.

 

Risposte?

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

Immagine: disegno e colori (Davide Arnesano); soggetto (Antonia Falcone)

La paghetta dell’archeologo (o una storia come tante)

Oggi parliamo di soldi, e partiamo da un assunto imprescindibile: il lavoro va pagato. Sempre. Anche quando è mascherato da “gavetta” necessaria o quando da più parti ci si sente dire che il nostro è più che altro un “hobby”. E quanto guadagna un archeologo oggi? Ecco, ci piacerebbe un confronto con voi.

 

Io posso raccontarvi la mia esperienza da archeologa, iniziata nel 2007 e conclusasi qualche mese fa.
Maggio 2007: laurea e invio curricula.  Settimana successiva, due colloqui. Colloquio 1: cooperativa, 42 euro netti al giorno, primo pagamento dopo 5-6 mesi, poi assicurata regolarità nei tempi di pagamento.  Colloquio 2: Società, 50 euro netti al giorno, primo pagamento dopo 3 mesi, poi garantita regolarità nei tempi di pagamento. Forme contrattuali: non me lo ricordo, ma certamente collaborazione occasionale e simili.
Accetto la seconda offerta.
Lavoro per circa un anno con continuità, tutti i giorni, facendo la nomade per tutte le zone della capitale. Ovviamente niente rimborso spese, ovviamente anche due cantieri in un giorno solo. Ovviamente non puoi rifiutare, sennò “ce ne sono altri che accetterebbero subito”. Prima paga dopo tre mesi, seconda paga due mesi dopo e così via, vivendo di circa 1000 euro pagati ogni due mesi.

 

“Ma tanto è inutile che li chiedi, a noi non pagano le fatture”, e nel frattempo la società prende lavori in tutta Roma. Tanti lavori.

 

Collaborazione occasionale per il primo anno (non chiedetemi altri particolari perché non lo so, prima esperienza lavorativa e conoscenza nulla di diritti e doveri di un datore di lavoro e di un lavoratore. Queste cose non le insegnano all’università) e ogni mese la promessa di un contratto a tempo determinato, “perché vogliamo investire in chi lavora con noi.”

 
Dopo un anno arriva la fatidica richiesta, camuffata da proposta a tuo vantaggio: “Perché non apri la partita iva?”

 

La pillola amara viene mandata giù con lo zuccherino: ci fatturi 1400 euro netti al mese e in cambio, oltre alle 8 ore di cantiere, ti occuperai anche dell’editing delle documentazioni archeologiche in ufficio. Si sta fuori casa dalle 6 del mattino alle 19 di sera. Ok, accetto, ignara del trucchetto.

 

Masochismo, speranza di fare carriera, possibilità di avere un futuro facendo il lavoro per cui ho studiato.  Stupidità.

 
1400 euro al mese. Wow.  1400 euro al mese pagati ogni 2-3 mesi.  1400 euro, praticamente morire di fame. E nel frattempo la società prende lavori, tanti lavori e a noi viene assicurata continuità lavorativa, mai un giorno fermi.

 
2010: nulla di nuovo sotto il sole.  Nessun progresso. Nessuna pubblicazione. Trincee e trincee.

 

Basta.

 

Lascio tutto e decido di specializzarmi, di tornare a studiare.
Cambio di scena: Puglia meridionale.  E per pagarmi gli studi comincia l’invio forsennato di curricula a società e cooperative. Ne risponde solo una. Cooperativa. Colloquio: 50 euro netti al giorno, pagamento a venti giorni. Nella testa solo un’idea: non si transige più a 30 anni suonati, senza garanzia di pagamento con tempi certi non accetto. Garanzia fornita.
E si ricomincia, però… pochi lavori, per lo più a molti chilometri di distanza, nessun rimborso benzina. Primi pagamenti puntuali, poi ricomincia la via crucis. Telefonate per sollecitare, toni gentili, ma tempi di attesa che si allungano.

 

Fino a 2 mesi fa: ci spiace, ma a noi le fatture le pagano a 6-8 mesi, quindi non possiamo dirti con certezza quando ti pagheremo il prossimo lavoro. E poi sai com’è, bisogna farla un po’ di gavetta, tutti abbiamo cominciato così, si mettono i soldi da parte e poi il circolo diventa virtuoso.

 

Eh no.

 

Sono cinque anni che faccio gavetta, da Roma alla Puglia, tra società e cooperative, tra partite iva e collaborazioni occasionali, tempi determinati e chissà quale altra diavoleria – leggi, precariato – e da parte non ho messo un euro.  Smetto.

 

Grazie, ma non faccio la morta di fame con una laurea e una specializzazione. Forse riprenderò, chissà, ma per ora mi piacerebbe poter rispondere ad una domanda: chi ha la responsabilità di questo scempio?  Mi hanno detto tante volte che la colpa è mia, è di tutti noi che accettiamo di lavorare per poco, ma  sarebbe bello andare a fondo per capire cosa c’è sotto il pulpito di chi parla.

 

Io so che dietro chi accetta di lavorare a 40-50 euro c’è l’idea che è bello svegliarsi la mattina per fare il lavoro per cui hai studiato tanti anni, che magari poi le cose cambiano, che appena uscita dall’università non si può mica pretendere chissà che cosa, che magari riuscirai prima o poi a lavorare per le società che pagano bene e non perchè conosci qualcuno, ma solo perché hanno letto il tuo curriculum, che magari se tu fai il brutto muso poi non ti chiamano più.

 

E che se non ti chiamano, poi ti toccherà il call center. Alla stessa cifra, ma con un sogno distrutto dal “Pronto, abbiamo un’offerta telefonica per lei”.

 

Ho deciso di scrivere questo post perché sto seguendo come tutti voi la vicenda Italgas, perché le nostre associazioni di categoria stanno dando un supporto importante a chi ha deciso di denunciare, perché anche i giornali si occupano di noi (link in fondo al post).

 

E perchè è più facile essere in tanti a dire no, che rimanere soli.  Le responsabilità non sono mai dei più deboli.

 

 

@antoniafalcone

 

Articolo di Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera

Nota della Confederazione Italiana Archeologi

Nota dell’Associazione Nazionale Archeologi

 

open access archaeology

Be open, be free

“Archaeologists have an ethical obligation to make their data available” (Sue Alcock)

 

Uno spettro si aggira nel mondo dell’archeologia e si chiama “open”: open data, open source, open access.

 

Qui sulle pagine virtuali di Professione Archeologo ci siamo occupati spesso del tema della trasparenza e accessibilità del dato archeologico e delle pubblicazioni scientifiche, perché riteniamo che l’apertura dei dati sia una delle sfide che ci toccano più da vicino, in quanto creatori e fruitori di contenuti.
Le iniziative che guardano all’archeologia open come modello da sostenere e incrementare diventano sempre più frequenti e sono improntate alla multidisciplinarietà, facendo della contaminazione di linguaggi e ricerche una cifra significativa (matematica, archeologia, geologia, informatica, etc).

 

A questo proposito, ricordiamo che dal 13 al 15 giugno ha avuto luogo Opening The Past 2013, proprio su predictivity, open data, open access e geoarchaology. Qui trovate il sito di Mappa Project dove è possibile scaricare i pre-atti del convegno.

 

Si sta svolgendo invece in queste ore a Catania l’edizione 2013 del workshop ArcheoFOSS – Open Source, Free Software e Open Format nei processi di ricerca archeologica, organizzato dall’Image Processing Lab dell’Università di Catania che si propone di accendere i riflettori su:

 

 

“utilizzo innovativo e sviluppo di software libero e open source nella ricerca archeologica e nei beni culturali;
diffusione di banche dati gestite da enti di ricerca e tutela secondo i principi degli open data, e libera circolazione della conoscenza.”

 

 

E’ possibile seguire il livetwitting dell’incontro che continuerà anche domani grazie all’hashtag #archeofoss, mentre qui trovate il sito web dedicato.

 

Un’altra importante inziativa che abbiamo seguito fin dall’inizio è quella di OpenPompei.

 

Il progetto è ormai entrato nel vivo e si caratterizza per la volontà chiara di mettere in luce le realtà del territorio campano che portano avanti forme di sviluppo sano nella regione. A questa volontà non sfugge l’archeologia. E’ chiara infatti la necessità di avviare un percorso di apertura dei dati che coinvolga anche l’area archeologica di Pompei. E gli amici di OpenPompei hanno “aperto” il loro blog anche a noi archeologi, raccogliendo suggerimenti e contatti.

 

E’ di qualche giorno fa, ad esempio, un post in cui si chiamano a raccolta esperti di dati aperti ed economia hacker, per la creazione di una long list che includa tutti coloro che vogliono dare un contributo al progetto.

 

Insomma, l’archeologia si sta finalmente aprendo anche in Italia alla condivisione libera e trasparente dei dati. Di lavoro da fare, di certo, ce n’è ancora tanto, ma da qualche parte bisogna pure cominciare, e chi ben comincia…

Revixit Archeo: il futuro dell’archeologia passa dalla rete

Chi è di noi è abituato all’uso dei social network sa bene che vi si svolgono quotidianamente preziosi dibattiti tra gli archeologi, con toni spesso polemici, a volte propositivi e generalmente marcati da profonda disillusione.
Ci si interroga sull’attualità della professione e si esplorano gli scenari possibili affinché la nostra disciplina possa uscire dall’alveo dell’hobbistica per giovani rampolli di buona famiglia e diventi invece un lavoro a tutti gli effetti, con tutele garantite, tariffario stabilito e dignità sociale.
A volte sembra che a mancare, oltre alle risorse, siano la volontà e le iniziative concrete per fare della nostra professione un settore veramente d’avanguardia, in grado di coniugare ricerca scientifica, formazione e divulgazione al grande pubblico.
In rete è più facile confrontarsi su tematiche spesso trascurate dall’archeologia ufficiale – quella che si insegna e si impara nelle aule universitarie, quella che si pratica nei laboratori e quella che si tutela nelle Soprintendenze. E questo per varie ragioni: vuoi perché ci si confronta in tempo reale anche con il mondo fuori dall’Italia, vuoi perché ci si sente meno “controllati” e quindi più disinvolti nella critica e nella proposta. Sta di fatto che gli archeologi in rete ci sono. E si parlano.
La stessa cosa non si può dire, almeno non con una presenza significativa statisticamente, per le istituzioni che si occupano di archeologia: dipartimenti universitari, soprintendenze, musei.
È per questo motivo che, leggendo le “Linee programmatiche dell’azione del ministro per i beni e le attività culturali”, la nostra attenzione si è subito fermata sul punto 17 (La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale attraverso le nuove tecnologie):

 

 

Le nuove tecnologie possono e devono fornire un contributo importante per la
valorizzazione del patrimonio culturale, favorendone la conoscenza e migliorandone
la pubblica fruizione. In questo senso, assume certamente rilievo prioritario la
promozione e il costante aggiornamento di applicazioni tecnologiche finalizzate a
comunicare e a rendere fruibile il patrimonio culturale.
Attraverso un sistema mirato di azioni da parte del Ministero, in stretta
collaborazione con l’Agenzia per l’Italia digitale, è possibile e necessario individuare
e sperimentare soluzioni innovative nel campo della comunicazione digitale, in
particolare attraverso i social networks, in modo da mettere a disposizione di un
pubblico sempre più vasto e con modalità semplici e accessibili l’enorme quantità di
informazioni e di contenuti relativi al patrimonio culturale oggi in possesso del
Ministero.

 

 

Non ci è sembrato vero leggere in una stessa frase le parole: tutela, valorizzazione, nuove tecnologie.

 

E questo perché, come dicevamo, nel settore dei beni culturali si percepisce un po’ di reticenza verso l’apertura al nuovo, a strumenti che magari non conosciamo bene e che per questo incutono timore. E poi perché, diciamolo tra noi, quanto ci piace a noi archeologi capirci e parlarci solo tra gruppi ristretti!

 

Apertura infatti significa discussione, confronto e rottura della gabbia dorata in cui ci siamo chiusi da decenni. Significa varcare uno steccato di intangibilità e aprirsi al pubblico, quel pubblico che spesso accusiamo di non capire, di fermarsi a Voyager e simili… amenità.

 

Chiediamoci cosa abbiamo fatto e cosa facciamo noi per questo pubblico.

 

Riusciamo a comunicare chi siamo, qual è il nostro lavoro? Oppure non siamo ancora riusciti a costruire un nuovo immaginario, diverso da quello che ci vede come perenni Indiana Jones e Lara Croft alle prese con nazisti, fruste e pistole?

 

Abbiamo mai provato a spiegare davvero cosa è l’archeologia oggi? A cosa serve?

 

Credo di no, e sapete una cosa? Penso che i tempi siano maturi per farlo, per cominciare a porre delle domande innanzitutto a noi stessi, come categoria, e poi al pubblico.

 

Un’altra cosa di cui rimango convinta è che le nuove tecnologie, i network sociali ed il dibattito che si costruisce ogni giorno in rete siano in grado di dare una spinta propulsiva, di farci sentire parte integrante della società, attori che non solo salvaguardano, ma valorizzano e comunicano.

 

È per questo che ci piace che Massimo Bray, il nuovo ministro del Mibac, sul web ci sia, cerchi un confronto, si presti alle critiche e coinvolga la community.

 

Ci auguriamo che questo “stare sul web” si accompagni a decisioni immediate nei confronti di problemi urgenti, provvedimenti in grado di restituire valore aggiunto al nostro patrimonio culturale, spesso dimenticato o ridotto ad una cartolina di “rovine” dal sapore ottocentesco.

 

@antoniafalcone

In Francia l’archeologia apre le porte al pubblico. E da noi?

Ieri sul nostro profilo twitter abbiamo segnalato una notizia che, secondo noi, squarcia il velo di Maya sul modo di percepire e vivere l’archeologia in Italia.

 

Si tratta di un’iniziativa d’oltralpe, dei cugini francesi, in cui l’archeologia è la protagonista. Un’archeologia vissuta nell’ottica della divulgazione da parte degli addetti ai lavori e della partecipazione da parte del pubblico.

 

Di cosa stiamo parlando? Parliamo di come, per i prossimi tre giorni a partire da oggi, l’archeologia francese apre le sue porte a chi archeologo non è.  Porte intangibili, ma che a volte appaiono impossibili da buttar giù, chiusa com’è la nostra archeologia dietro le transenne dei cantieri o tra le mura delle aule, dei laboratori.

 

Le Journées nationales d’Archéologie, giunte alla quarta edizione, sono il modo attraverso cui l’archeologia che tanto scopre si lascia scoprire, aprendo in via eccezionale aree archeologiche, organizzando mostre e dibattiti pubblici, incontri con gli archeologi, animazioni, rappresentazioni storiche e sì, portando la gente anche sui cantieri. Tutto nello spazio di un lungo weekend.

 

La mission è chiara:

Elles mettent en lumière les aspects les plus divers de l’archéologie et permettent au public de découvrir la discipline à travers des initiatives originales dans des lieux ouverts exceptionnellement le temps d’un week-end.

 

Il pubblico ha così l’occasione di visitare un cantiere di archeologia preventiva, di capire perchè i lavori pubblici per la costruzione di quel parcheggio sono fermi, cosa rivela la stratigrafia formatasi nei secoli, cosa fa davvero un archeologo.

 

Un’iniziativa di questo tipo ha il pregio di contribuire a creare un nuovo immaginario della figura dell’archeologo, che non è più Indiana Jones, ma un professionista che passa le sue giornate a lavorare nello stesso spazio urbano in cui vive la cittadinanza, diventa un cittadino che svolge una professione utile alla collettività. E la collettività diventa partecipe del suo lavoro.

 

E pubblicità e promozione? Ne paniquez pas! Se ne occupa il ministero, in collaborazione con l’Inrap (Istituto Nazionale francese di Archeologia Preventiva), che ha caricato sul sito ufficiale dell’iniziativa persino i manifestini da stampare e diffondere in giro per la città.

 

Ma come fa il cittadino a sapere quali posti sono aperti e quali no?

 

Semplice. Mettiamo vi trovate in Aquitania (beati voi!). Vi va di visitare un vero cantiere archeologico? Una comoda funzione di ricerca vi permette di cercare tutti gli scavi aperti in quella regione. Potete leggere l’apparato informativo, vedere i nomi di chi ci lavora, visitare la pagina Fb o il sito internet se c’è. E poi via, si consulta la mappa e si parte, a vivere un fine settimana di cultura in cui sono gli archeologi veri, e non quelli dei film, a raccontare come funziona l’archeologia. E se si ha tempo, e voglia, ecco a vostra disposizione tutte le notizie sulle iniziative archeologiche della regione selezionata.

 

Bello no?

 

Bello sì, e la cosa che più ci ha colpiti è che alla fine si può compilare un ‘questionario di gradimento’ perchè se c’è qualcosa da correggere, il prossimo anno, la festa viene meglio.

 

A noi di Professione Archeologo PIACE.

 

E lanciamo una provocazione: perchè non farlo in Italia?