Convegno “Stati generali dell’archeologia. Un aggiornamento sul tema”. Intervista ad Alessandro De Rosa, presidente CNAP

Il 30 aprile si terrà a Sant’Agata dei Goti il Convegno “Stati generali dell’archeologia. Un aggiornamento sul tema”.

 

 

Uno degli argomenti all’ordine del giorno è quello del riconoscimento dei professionisti dei beni culturali. Oltre al neopresidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici Giuliano Volpe, interverranno rappresentanti delle Soprintendenze per i Beni Archeologici di Basilicata e Campania nonché delle associazioni di categoria ANA, FAP e CNAP.

 

 

In attesa di conoscere quali saranno i contenuti del documento che verrà redatto al termine dell’ incontro abbiamo parlato con Alessandro De Rosa, presidente della Confederazione Nazionale Archeologi Professionisti (CNAP), di quelle che saranno probabilmente, insieme alla riforma del MiBACT, le tematiche salienti della discussione.

 

 

Il mondo dei professionisti che operano nel settore dei beni culturali è piuttosto variegato e comprende diverse figure professionali (dai liberi professionisti ai dipendenti Mibact a titolari e dipendenti di imprese archeologiche), ognuna con specificità proprie e problemi differenti. Secondo te, pur in questa complessità del settore, qual è la problematica più urgente all’ordine del giorno?

 

 

Direi la definizione della figura professionale: requisiti, competenze, e ambiti di intervento, considerando che il riconoscimento si sta realizzando attraverso la Pdl362. Questo riguarda soprattutto i professionisti che operano al di fuori del ministero. Una definizione della figura professionale, garantita da una forte associazione professionale, tutelerebbe gli archeologi, sia dal punto di vista professionale che nei rapporti lavorativi. Questo avrebbe effetti positivi sull’intero contesto professionale e scientifico. Gli archeologi che operano sul campo sono l’avanguardia della tutela, operano secondo criteri scientifici, spesso in situazioni estreme. Migliorare le condizioni lavorative, avere delle tutele professionali equivarrebbe a tutelare il nostro patrimonio. Dunque avrebbe un positivo effetto sulla tutela dei beni archeologici del Paese. In questo senso la figura dell’archeologo acquisisce una dimensione pubblica notevole ed è paradossale che nel 2014 non esista un documento che ne delinei la figura professionale. Da qui dovrebbe nascere una forte coscienza di categoria e una maggiore e più importante collaborazione con i colleghi del MiBACT.

 

 

Negli ultimi tempi si è evidenziata una maggiore attenzione da parte delle diverse parti in campo (politica, associazioni professionali, mondo accademico, singoli professionisti) verso i problemi delle professioni culturali. Ad oggi però, al di là dell’approvazione alla Camera della pdl 362, non si sono visti ancora interventi decisivi per migliorare le condizioni lavorative dei professionisti del settore. Quali sono, secondo te, le battaglie da portare avanti oggi per noi professionisti? (es volontariato, codice appalti, norma Uni, etc.)

 

 

Una struttura che rappresenti la nostra professione risulta indispensabile, ovvero un’associazione di categoria. In questo, un grosso aiuto ci è stato fornito dalla legge 4/2013 sulle professioni non regolamentate da ordine od albo. Questa ne prevede la definizione attraverso una norma UNI, e associazioni di categoria che se ne facciano garanti. In tal senso la CNAP, insieme a CIA e FAP, sta perseguendo il percorso realizzando una norma UNI (che corrisponde alla definizione della professione e dei suoi ambiti di intervento) strutturata secondo i livelli dell’European Qualification Framework (EQF) in base a requisiti di titoli, competenze e abilità. Con una struttura del genere, definita secondo termini di legge, potremmo affrontare il gravoso problema dei contratti, la tutela professionale, interloquire col MiBACT per una maggiore capacità di intervento, col MIUR per integrare e aggiornare la formazione dei professionisti.

 

Sono contrario al volontariato, in particolare se utilizzato per sostituire i professionisti: l’archeologia è una scienza che richiede un’alta professionalità da parte di chi vi opera e questa va riconosciuta. Operiamo su beni culturali, beni pubblici, e la mia idea è che gli interventi sui beni archeologici debbano essere regolamentati diversamente, rispetto all’attuale codice dei contratti. Penso che quando si stanziano fondi per un’opera pubblica, una percentuale fissa, l’1-2%, debba essere destinata alle attività relative ai beni culturali, scavi, restauri, etc, senza la mannaia dei ribassi. In tal modo avremmo anche numerosi fondi da destinare alla tutela.
Oggi ci si trova spesso di fronte ad una bassissima qualità scientifica e a condizioni contrattuali al limite della dignità per chi opera: e le due cose sono strettamente interdipendenti.

 

 

È innegabile che ci siano tre anime da conciliare nell’archeologia italiana: università, ministero e professionisti. La quadratura del cerchio ti sembra più o meno vicina che in passato?

 

 

Rispetto al passato il ventaglio di archeologi delle tre anime aperte ad una conciliazione è molto più ampio. In questo ha aiutato il cambio generazionale che sta avvenendo nel MiBACT e nel MIUR. Tra i professionisti c’è stata sempre una chiara apertura in questo senso, anche se inficiata da una altissima “mortalità” professionale. Penso che i tempi siano maturi, anche perché c’è il rischio di perdere un’occasione quasi unica, agevolata da una classe di professionisti di altissima qualità, costituita dalle generazioni dei nati fra la seconda metà degli anni ’60 e gli anni ’70, operanti in tutti e tre i contesti. Dobbiamo impegnarci a ridurre i tempi, proprio per salvaguardare la nostra professionalità e la nostra esperienza.

 

 

Nota dolente: la formazione universitaria. I laureati o specializzati in discipline archeologiche hanno, a tuo parere, gli strumenti per entrare nel mondo del lavoro? Dove bisognerebbe intervenire? Cosa manca e cosa invece ci rende eccellenza?

 

 

Al momento, la formazione universitaria risulta piuttosto carente riguardo alla parte pratica. In particolare è poco formativa nel settore dell’archeologia pubblica, ovvero la parte preventiva, preliminare e di scavo d’emergenza. Purtroppo il contesto lavorativo richiede tempi e modi diversi. In questo l’università dovrebbe, a mio avviso, aprirsi ad una stretta collaborazione col mondo dei professionisti. Un esempio classico è la fase preliminare: far fare l’assistenza ad un giovane collega neolaureato senza esperienza significa mandarlo allo sbaraglio. Ritengo comunque che la formazione offerta dalle università italiane costituisca tuttora un’eccellenza, da integrare e rendere ancora più di qualità attraverso maggiore attività pratica, rispondente alle esigenze del mondo del lavoro: per esempio un contratto di apprendistato potrebbe integrare le fasi finali del percorso formativo.

 

 

Ultima domanda: chi può definirsi secondo te “archeologo”?

 

L’archeologo è un professionista, con un’adeguata formazione universitaria, integrata dall’esperienza acquisita, che opera sui beni culturali in maniera scientifica. Che abbia una forte cognizione del suo ruolo pubblico, perché i beni culturali sono beni comuni, perché indaga il passato e lo rende fruibile, stimolando e cementando il senso di appartenenza ad una comunità di tutti gli individui che vi appartengono.

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

 

Le mezze stagioni

La stagione fredda è stata caratterizzata, come ricorderete, da alcuni temi “caldi” per i professionisti dei beni culturali: da una parte l’iter legislativo della PdL 362 sul #riconoscimento, dall’altra le polemiche per l’ormai celeberrimo bando #500schiavi.

 

La proposta di legge Madia, Ghizzoni, Orfini ha visto l’approvazione quasi all’unanimità alla Camera dei Deputati il 15 gennaio 2014 e tutti i professionisti dei beni culturali hanno tirato un sospiro di sollievo perché hanno finalmente visto accorciarsi la strada verso il traguardo del riconoscimento; un traguardo, dopo anni di discussioni (la prima proposta di legge di cui la PdL 362 è l’erede risale infatti al 2008), tanto ambito quanto insperato.

 

 

Sul bando dei #500schiavi ormai sapete tutto, come è iniziata la protesta, come si  é evoluto il bando stesso (rivisto e corretto dal Mibact) e come è  andata a finire: circa 21552 partecipanti con differenze notevoli di punteggi tra classificati e non (e l’avverarsi quindi del sospetto che non stiamo parlando esattamente di una possibilità formativa per “giovani” neolaureati).

 

 

Ma, al di là delle polemiche, rimane sul tavolo il ricorso contro il bando presentato dall’Associazione Nazionale Archeologi al Tar del Lazio. Il ricorso è stato accolto agli inizi di marzo e il 27 marzo si è svolta la prima udienza per  l’annullamento dei provvedimenti relativi alla selezione dell’avviso pubblico. Il Tribunale Amministrativo, confermando la legittimità del ricorso, ha disposto il rinvio al merito, convocando la nuova udienza per il prossimo 14/07/2014.

 

Per quanto riguarda invece la P.d.L. 362 Madia, Ghizzoni, Orfini la situazione è meno lineare.

 

 

La legge sul riconoscimento dei professionisti dei beni culturali, diventata n. S.1249 perché passata al Senato, è attualmente in discussione alla 7a Commisione Istruzione, Beni Culturali che ha stabilito come deadline per presentare gli emendamenti le ore 12 di oggi (8 aprile n.d.r.). In attesa della definitiva discussione ed approvazione si sono tuttavia già delineate alcune criticità che fanno presagire la necessità di un secondo passaggio alla Camera dei Deputati.

 

 

La Commissione Affari Costituzionali del Senato, sentita per un parere consultivo, ha infatti  dato un parere “non ostativo con condizioni”. Nello specifico la 1a Commissione Permanente ha rilevato come vada modificato il comma 2  dell’articolo 2 del testo, ovvero come il coinvolgimento delle associazioni professionali, in sede di emanazione del decreto ministeriale sulle modalità e i requisiti per l’iscrizione dei professionisti negli elenchi nazionali nonché sulla  scelta dellle modalità per la tenuta degli stessi elenchi nazionali, debba avere solamente natura consultiva e come, al comma 3 del medesimo articolo, il richiesto parere delle commissioni dei due rami del Parlamento circa l’emanazione del suddetto decreto debba essere meramente obbligatorio e non vincolante (link).

 

 

Da quanto si apprende circa la discussione avvenuta il 2 aprile in Commissione Istruzione e Beni Culturali (link) si prefigura quindi, nelle prossime sedute, la presentazione di emendamenti che accoglieranno tali eccezioni e potrebbero rendere necessaria una nuova approvazione del disegno di legge alla Camera dei Deputati.

 

Augurando buon lavoro a tutti, auspichiamo che il 2014 sia finalmente l’anno del nostro #riconoscimento.

@saveMAME: No alla chiusura del Museo Nazionale dell’Alto Medioevo

@saveMAME: la Capitale sogna di essere come New York ma rischia di perdere uno dei suoi musei più belli.

 

Le ultime settimane sono state caratterizzate da un vivace dibattito sulla salvaguardia del patrimonio culturale italiano, nel quale si è inserito il tema delle  “emergenze museali” che recentemente si trova ad affrontare Roma.

 

 

In gennaio era infatti stata annunciata la chiusura del Museo della Civiltà Romana, poi scongiurata grazie a un finanziamento giunto in extremis. “Risolta” questa prima emergenza, tuttavia, lo splendido e un po’ negletto distretto museale dell’EUR non può ancora dormire sonni tranquilli perché sembrerebbe ormai prossima la chiusura del Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.

 

 

E’  forse superfluo ricordare in questa sede quanto questo museo sia unico nel suo genere e quali tesori conservi, dai corredi delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino, a reperti, anche di recente acquisizione, come l’opus sectile c.d. di Porta Marina proveniente da Ostia.

 

 

Ma cominciamo dall’inizio.
Quali sarebbero i motivi della chiusura?
Ancora una volta si parla di tagli dovuti alla c.d. spending review. Per essere più precisi, lo Stato non sarebbe più in grado di far fronte al canone di locazione del Museo all’Eur SPA che, udite udite, è di proprietà al 90% del Ministero delle Finanze e al 10% del Comune di Roma.

 

Sin qui notizie più o meno note o quantomeno non nuove.
Eppure quest’ultima settimana è stata foriera di novità.
Le prime sono quelle che vengono dal fronte delle proteste contro la chiusura del Museo Nazionale dell’Alto Medioveo: oltre alla creazione di una petizione che è possibile firmare on line, sono stati aperti sia una pagina Facebook di sostegno all’iniziativa che un account twitter a nome  @saveMAME.

 

Tra le iniziative più creative va annoverata anche quella proposta da alcune guide turistiche della capitale, cioè l’organizzazione di visite guidate al museo, il cui biglietto d’ingresso viene pagato ai partecipanti proprio dalle guide stesse: un modo per far conoscere al grande pubblico uno dei musei più importanti della Capitale dedicato all’archeologia medievale.

 

Ora, nel turbine di tutte queste iniziative, che non sono certo le uniche voci di protesta alzatesi in questi mesi, mentre il MiBACT non è in alcun modo tornato sulle sue posizioni, suona strano sentire  il presidente della Commissione Cultura del Comune di Roma parlare di valorizzazione culturale e promozione turistica delle aree periferiche della città.

 

Nell’edizione romana di Repubblica di Venerdì 7 marzo Michela Di Biase parla entusiasticamente della volontà di “accendere un riflettore sulle altre zone della città”  per dare a tutte le aree della Capitale la stessa dignità e rilevanza del centro storico; seguendo forse l’idea di una città intrinsecamente policentrica, poi, il presidente immagina una Roma turisticamente divisa in quadranti “come New York”.

 

 

Un progetto di redistribuzione dei flussi turistici e di valorizzazione del patrimonio diffuso di Roma sarebbe senz’altro un bene per una città che negli ultimi mesi è sembrata un po’  in affanno sullo sviluppo di politiche culturali di largo respiro: e perché non partire proprio dall’EUR ? Perchè non lavorare ad un’intesa, un accordo, un progetto insomma, che lasci aperto il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo?

 

 

Non sappiamo infatti quanto sia calzante il paragone tra la nostra Capitale e La Grande Mela, ma siamo certi che la nostra offerta museale non vada depauperata chiudendo il MAME.

 

 

Paola Romi (@OpusPaulicium)

 

 

Per saperne di più :

http://archeoroma.beniculturali.it/musei/museo-nazionale-dell-alto-medioevo

https://www.facebook.com/ssba.rm.ostia.medioevo

http://ilmanifesto.it/la-storia-perduta/

http://www.archeologiamedievale.it/2014/02/08/possibile-chiusura-del-museo-nazionale-dellalto-medioevo-di-roma/

http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2014/2/118464.html

http://eur.romatoday.it/museo-alto-medioevo-rischio-chiusura.html

http://www.tafter.it/2014/03/05/musei-una-petizione-per-salvare-il-museo-nazionale-dellalto-medioevo-di-roma/

http://www.insideart.eu/2014/03/04/il-museo-nazionale-dellalto-medioevo-rischia-la-chiusura-parte-la-petizione/

Comunico, dunque sono: Bronzi superstar? Si, ma in seconda serata.

In principio fu la comparsa su Twitter di @a_bronzo e @BronzoB.

Abbiamo compreso che di lì a breve i Bronzi di Riace sarebbero tornati a casa, nel Museo di Reggio Calabria, prima del previsto.

 

 

Di fatto la grande esposizione mediatica data alla vicenda dei Bronzi di Riace ha sancito l’inaugurazione di una strategia di promozione del nostro patrimonio culturale più moderna del solito. E chi è solito cinguettare o frequentare il mondo dei social media ha percepito subito questa inversione di tendenza.

 

 

Seguendo l’input del Ministro On. Massimo Bray e l’esempio dei Bronzi di Riace, nella blogosfera si è infatti moltiplicata la presenza dei Musei Italiani, e su Twitter non passa settimana che non si affacci una nuova istituzione museale o una nuova “opera d’arte parlante”.

 

 

Questo innovativo modo di fare divulgazione, di “stare sul pezzo”, se così si può dire, rivela un tentativo di svecchiare e dare slancio alla comunicazione del nostro immenso patrimonio storico-artistico, troppo spesso ingessata e ancora legata a modalità retrò di presentazione al pubblico (basta dare un’occhiata ai siti web dei principali musei italiani).
Se poi serva o meno ad avvicinare i cittadini ad arte, archeologia e cultura in genere lo scopriremo.

 

 

E adesso, quasi a rinnovare la gioia del ritorno a casa delle due statue, festeggiata al grido di #saturdaybronzefever, andrà in onda su Rai3 uno speciale di Alberto Angela, dedicato proprio ai Bronzi. (promo)

 

 

Bello, bene, bravi ma, c’è un “ma”.

 

 

I Bronzi di Riace sono finiti in seconda serata, a partire dalle ore 22.45 circa, di domenica 9 febbraio.
E questo ha giustamente scatenato molte proteste.
Sul web ci si chiede infatti perché vadano invece in onda, in prima serata, trasmissioni di taglio molto meno rigoroso e si invoca una loro “ricollocazione” nel palinsesto:

 

 

“E uffa, perché così tardi ? Dovrebbe andare in prima serata, la cultura!”
“Mio figlio, 8 anni, ha segnato sul calendario, data 9 febbraio: “Ulisse, speciale bronzi di Riace” . Perché lui, ci tiene tanto a vedere la puntata. E adesso come glielo spiego che è in seconda serata?”
“I miei figli di 9 e 7 anni adorano Ulisse e Super Quark. Ma come faranno a vedere una trasmissione che – realisticamente – inizierà alle undici di sera quando l’indomani c’è scuola?”
“Non è concepibile che le Sue trasmissioni finiscano ad orari che rendono impossibile la visione a bambini e ragazzi.”

 

E via dicendo.

 

 

Dai commenti emerge dunque che la programmazione in seconda serata è sentita come privazione soprattutto per un target di pubblico che invece andrebbe stimolato di più: bambini e ragazzi, cioè i futuri depositari di valori culturali universali.
In effetti tutto questo è un nonsenso.

 

 

Perché da un lato ci si impegna a svecchiare la comunicazione museale utilizzando in modo creativo e disinvolto i socialnetworks, e dall’altro si rilega un documentario su una rete pubblica in una fascia oraria che ne oscura la visibilità?
Certo RAI e MiBACT sono due entità ben distinte, ma in fondo dovrebbero rispondere entrambe a ragioni di pubblica utilità.
Ci auguriamo (forse inutilmente) che i Bronzi di Riace, dopo aver ritrovato a Reggio Calabraia la dimora che gli spetta e trovato nel web lo spazio che meritano, riescano anche a trovare, nel palinsesto, la posizione che gli dobbiamo.

 

@opuspaulicium

@antoniafalcone

Riconoscimento: #sipuòfare

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo.

 

I professionisti dei beni culturali hanno deciso di sottrarsi al gioco al massacro che è stato fatto sulla loro pelle per anni, hanno deciso di unire le forze per ritagliarsi un ruolo attivo nella discussione sui provvedimenti che riguardano il futuro del settore.

 

Abbiamo cominciato col dire NO ad un bando che ci trasformava da professionisti pluriformati e competenti in #500schiavi a 3,5 euro l’ora.

 

Ci siamo fatti sentire e qualcuno ci ha ascoltati. Il bando è stato limato e le perplessità sono rimaste. Perplessità che ci hanno fatto scendere in piazza l’11 gennaio.

 

Eravamo tanti, arrabbiati e propositivi, perché le due cose non per forza si devono escludere. Eravamo archeologi, storici dell’arte, archivisti, bibliotecari, categorie che di solito si ignorano reciprocamente e cordialmente.

 

Ci siamo incontrati sapendo di avere un’idea comune di futuro, un futuro che non vogliamo farci strappare di mano, che vogliamo contribuire a costruire insieme a chi ci dovrebbe rappresentare, in un dialogo costruttivo tra nuove interpretazioni politiche, nuove proposte, nuovi scenari.

 

Ecco, forse la parola d’ordine è e sarà sempre di più Nuovo. Anche se hanno tentato di imbrigliarci in vecchi schemi, la verità è che c’è un’intera generazione che non desidera altro se non un confronto serio, pacato e chiaro su alcuni temi chiave.

 

Ed è giunto di momento di darci (e di prenderci) quest’opportunità.

 

Ci piace prendere in prestito le parole di @g_gattiglia:

 

Ora è il momento delle proposte, di invertire, come suggeriva qualcuno in piazza, i cartelli e trasformare i 500no in #500on.

 

Bene, il nostro primo #500on è destinato ad un tema che sta a cuore a tutti i professionisti dei beni culturali: il #riconoscimento della nostra professione, che da ieri é più vicino.

 

In una quasi fatale concomitanza con la nostra protesta, infatti, la Camera dei Deputati ha approvato la PdL 362 (al link il testo della proposta di legge) Madia, Ghizzoni, Orfini che prevede integrazioni al Codice dei Beni Culturali atte a riconoscere i professionisti del settore.

 

Sebbene manchi ancora il via libera del Senato, il fatto è comunque epocale: sia per la velocità con cui si è passati da una mancata approvazione in Commissione Cultura ad una calendarizzazione della discussione in Aula, sia per la larga maggioranza, o meglio per la quasi unanimità (con la sola astensione del gruppo Fratelli d’Italia) con cui è stata licenziata a Montecitorio.

 

Sin qui le buone novelle. E tuttavia non è stata una passeggiata.

 

Alla prima delusione dovuta al ritiro dell’appoggio del Movimento 5 Stelle in Commissione Cultura, si sono sommate le critiche della stessa parte politica lunedì 13 gennaio alla Camera.

 

Molti di noi, quando hanno sentito dire che l’approvazione della #pdl362 “non era urgente” hanno temuto che l’agognato #riconoscimento si allontanasse inesorabilmente.

 

Alcune delle critiche sollevate si basano sul supposto pericolo di creazione di Albi professionali, secondo un’errata lettura del disegno di legge ed una scarsa conoscenza del diritto europeo in materia, nonché sulla mancanza della figura del manager culturale tra le figure da normare.

 

A ridosso dell’approvazione alla Camera, a queste critiche si sono aggiunti gli interventi di alcuni Docenti universitari che chiedevano un ruolo attivo delle Università nell’approntamento degli elenchi ministeriali di professionisti previsti dalla PdL 362.

 

Come è finita per adesso lo sappiamo tutti. Con qualche emendamento e qualche giorno di riflessione quasi tutti gli scettici alla Camera hanno deciso che il #riconoscimento era un atto doveroso.

 

Ringraziando i relatori della proposta di legge, Onorevoli Marianna Madia, Manuela Ghizzoni e Matteo Orfini senza i quali oggi non staremmo neanche a parlare del riconoscimento dei professionisti dei beni culturali, vogliamo aggiungere un “GRAZIE” a noi stessi, a tutti noi professionisti dei beni culturali.

 

Noi che abbiamo trovato il modo ed il tempo di protestare in modo forte, pacifico e civile contro un bando iniquo.

 

Noi che abbiamo dimostrato che tuteliamo il passato, ma sappiamo usare i mezzi di comunicazione del momento come e meglio di altri.

 

Noi che abbiamo scoperto il coraggio e l’orgoglio di riconoscerci in un folto gruppo di professionisti apparentemente eterogeneo, ma dalle richieste comuni.

 

Noi che da ieri sappiamo che le nostre istanze non cadono più nel generale disinteresse.

 

Noi che abbiamo capito che se una cosa ci interessa veramente ed è legittima #sipuòfare

 

Crediamoci.

 

@pr_archeologo

 

#500schiavi un mese dopo: #verso11G

È passato un mese dall’uscita del bando #500schiavi. Sarebbe inutile raccontare nuovamente tutte le criticità della stesura che, dopo il 7 dicembre 2013, ha generato un fronte di lotta comune, capace di riunire incredibilmente tutte le professioni dei Beni Culturali.
E tuttavia, visto l’approssimarsi della manifestazione che ne è derivata, ripercorriamo le tappe della protesta.

 

1 – Il 7 dicembre viene pubblicato il bando per il reclutamento di 500 giovani per la cultura. Subito sui Social iniziano le proteste e le critiche, non solo su requisiti e monte ore ma soprattutto sull’iniqua “retribuzione”.

 

2 – Nel weekend la contestazione “monta” su Twitter al “grido” di #500schiavi e compaiono i primi articoli in merito sui blog.

 

3 – Lunedì 9 e martedì 8 la tensione sale: noi di PA siamo stupefatti dal successo del nostro articolo, che è spia della rilevanza del problema tra i professionisti dei #BBCC.

Sono giorni mediaticamente concitati: in poche ore si passa dalla forte presa di posizione delle nostre associazioni di categoria (ANA, CIA ), al tam tam tra le diverse realtà attive in rete. I professionisti dei beni culturali fanno sentire a gran voce il proprio disappunto e il salto della protesta dalla rete alle testate giornalistiche nazionali viene da sé, trascinato da cinguettii, post, pagine/gruppi fb. (Qui trovate la rassegna stampa)

 

 
4 – Viene così indetta la manifestazione dell’ 11 gennaio, 500 no al Mibact.

 

 
5 – Il primo risultato si ottiene domenica 15 dicembre, quando il Ministro On. Massimo Bray, incalzato nel corso della trasmissione “Che tempo che fa?” sulla questione #500schiavi, prende atto dei problemi del bando e promette, tra le altre cose, di migliorarlo.

 

 
6 – Tuffo carpiato con doppio avvitamento della macchina del MIBACT: a tempo di record il 16 dicembre esce una nuova stesura del bando  con requisiti e monte ore attenuati.

Non è successo il miracolo di Natale, sono state limate tutte le caratteristiche legalmente impugnabili in modo semplice e diretto. È un buon segno, ma il problema resta.
Ma non demordiamo.

 

 

7 – Ed ecco arrivare #verso11G: il sit-in del 20 dicembre davanti alla sede del Ministero.

Sotto la pioggia battente, dopo aver visto passare sottosegretari meno affabili delle forze dell’ordine (non serve fare nomi, vero?), i delegati dei manifestanti vengono ricevuti dal Capo di Gabinetto del Ministero Lipari, dal Segretariato Generale Antonia Pasqua Recchia e dal Direttore Generale per l’organizzazione, gli affari generali, l’innovazione, il bilancio ed il personale Mario Guarany, che di fatto aprono al dialogo con i professionisti dei Beni Culturali.

 

 
E poi? E poi ci sono state le festività natalizie. Ma adesso sono finite. L’11 Gennaio è prossimo.
E ora è il momento di scendere in piazza.
Perché deve essere chiaro che non siamo choosy e neanche piagnoni e tanto meno vecchi brontoloni (come molto gentilmente siamo stati apostrofati da giovani ansiosi di guadagnare 3 euro l’ora).
Siamo professionisti, abbiamo competenze, idee innovative e siamo anche piuttosto stufi dei diktat che piovono dall’alto e ci obbligano a pensare che l’unica strada percorribile per “valorizzare” il nostro patrimonio sia quello di prostrarsi, cospargersi il capo di cenere e accettare un altro anno di “formazione” inutile.
Prima di tutto partiamo dalle spiegazioni: l’unico modo per impiegare 2,5 milioni di euro era questo? Qualcuno ha pensato a valide alternative? Oppure era molto più “comodo” ripiegare sul classico dei classici: stage retribuito senza futura possibilità di assunzione (che alla fine conviene andare a farlo in un’azienda privata dove forse poi assumono anche…) per parcheggiare altri 500 giovani che tanto dopo un anno emigreranno o cambieranno lavoro?

 

 

Tirare a campare è davvero l’unica possibilità che volete/vogliamo darci?
E sia chiara un’altra cosa: non chiediamo assistenzialismo, ma possibilità di lavoro.
Innovazione, creatività, risveglio culturale sono parole che devono andare di pari passo con l’idea di tutelare e conservare il nostro patrimonio culturale.
Rifiutiamo il bando e l’idea che sottende al bando perché ci sembra una panacea temporanea che non affronta i veri nodi del settore.
Lo sappiamo benissimo che da qualche parte bisognava iniziare, dopo anni sciagurati di tagli indiscriminati, ed è proprio per questo che ci sembra che sia stata sprecata un’occasione.
Le nostre proposte, embrionali, magari utopiche, le abbiamo discusse qui e qui.
E le richieste sottese alla manifestazione sono enucleate nella piattaforma programmatica, scritta nero su bianco.
Siamo la #generazionepro e sarà difficile fermarci, perché per la prima volta siamo uniti non solo per protestare ma per proporre un futuro diverso.

 

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

Credits immagine: Davide Arnesano (soggetto, disegno, colori)

#500schiavi ovvero del prezzo di essere archeologo

Qualcuno prima o poi dovrà spiegarci con dovizia di particolari ed esauriente eloquio perché mai a 19 anni un giovane dotato di sufficiente senso della realtà dovrebbe decidere di intraprendere un percorso di studi in beni culturali. La richiesta non è retorica, come può sembrare.

 

 

Riassumiamolo il percorso di studi di un aspirante archeologo: si iscrive all’università, consegue la laurea triennale, poi quella specialistica, poi si iscrive ad una scuola di specializzazione, consegue il diploma, è archeologo. Poi magari vince anche un dottorato. Totale di anni di studio: 7 o 10.

 

 

Totale di tasse pagate: tante, meglio non soffermarsi a fare il calcolo col pallottoliere.

 

 

Finisce di studiare, è l’orgoglio di mamma e papà ed è contento di aver finalmente suggellato con tutti questi titoli di studio la sua aspirazione di essere archeologo.

 

 

A questo punto si scontra con il mercato del lavoro. Le alternative sono poche:

 

 

1-continua la carriera accademica, barcamenandosi tra assegni di ricerca rinnovati o no. Difficile essere davvero indipendenti economicamente, per fortuna a casa c’è qualcuno che gli da una mano.

 

 

2-prova a lavorare per qualche società o cooperativa. Guadagna poco, lo pagano con scadenze indicibili e sa che probabilmente sarà difficile resistere a lungo. Sommessamente comincia ad elaborare un piano B: cambiare lavoro.

 

 

3-mette su una società e si inventa imprenditore: rincorre committenti e pagamenti, combatte ogni giorno con la burocrazia e se riesce da lavoro a qualcuno. Il tutto mentre gli vengono i capelli bianchi per l’ansia di non farcela.

 

 

4-lavora come libero professionista, cerca di prendere cantieri senza abbassare le tariffe, ma è difficile. C’è sempre qualcuno che gioca al ribasso e la sua rabbia diventa frustrazione.

 

 

Sconforto e voglia di mollare.

 

Poi come per incanto il miracolo o meglio il miraggio: un governo che dice di voler investire su di lui e sui suoi colleghi. Grandi proclami sull’importanza della cultura nel nostro Paese. Finalmente, forse, c’è bisogno di quelli come lui.

 

 

Non promette di essere la panacea di tutti i mali ma scrive e trasforma in legge il decreto ValoreCultura. E il provvedimento prevede, come ricorda in TV anche il presidente del Consiglio, di assumere, per un anno, come tirocinanti, 500 giovani da impiegare nella catalogazione.

 

 

Certo, penserà l’archeologo, sono solo 12 mesi, ma magari da cosa nasce cosa e finalmente ce la faccio a vivere della mia professione.
Passano i mesi e dei presunti futuri catalogatori si perde ogni traccia.

 

 

Poi d’un tratto, alla vigilia dell’Immacolata, ironia della sorte, il parto: ecco il bando.
E basta leggerlo di fretta per capire.
Per capire che forse non c’è speranza.

 

 

Si chiedono ottimi e molteplici requisiti, e magari il nostro archeologo ce li ha.

 

 

Si richiede un punteggio di laurea minimo di 110/110: si sa, più si è bravi in questo Paese,  e più è facile sfruttarti. E il nostro archeologo nel frattempo pensa: difficilmente mi saranno concesse altre opportunità.

 

 

Bisogna avere meno di 35 anni, e il nostro amato conoscitore del passato per fortuna non è ancora giunto al mezzo del cammin di lunga vita.

 

 

Ma c’è un piccolo problema: il compenso per un anno in cui dovrà svolgere 30-35 ore di formazione/lavoro settimanale sono 5000 euro.
416 euro al mese.

 

 

Un compenso inferiore al servizio civile, un compenso inferiore a quanto il nostro archeologo guadagnerebbe con le ripetizioni private o facendo il cameriere.

 

 

E tutto questo glielo propongono a 35 anni, dopo un decennio di studio, dopo che l’università non è stata in grado di fornirgli uno straccio di formazione lavorativa. E per fare cosa poi? Farsi sfruttare un anno al ministero e ritrovarsi nuovamente alla casella di partenza.

 

 

E il nostro archeologo si chiede, disperato, ma se nemmeno il mio Ministero crede che valga più di un lavavetri al semaforo perché dovrebbe crederci il resto della società civile?

 

 

Perchè dovrei crederci io?

 

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

 

Link al bando

La finestra di fronte ~ di Camilla Bertini

La ricerca archeologica può essere divulgata al grande pubblico in Italia? Che ruolo hanno internet e i social networks in tutto questo?

 

La questione è stata discussa all’interno della Borsa Mediterranea del turismo Archeologico di Paestum. I professionisti del settore dei Beni Culturali (e non solo) lamentano la mancanza di piattaforme adeguate alla diffusione della cultura sul web in Italia. Se si prende ad esempio l’estero, l’Italia perde su tutta la linea: per rendersene conto basta accedere ai siti internet dedicati alle collezioni dei più famosi musei  (dal British Museum, al Louvre o al bellissimo Corning Museum of Glass) o, per esempio, alle piattaforme gestite dalle stesse università straniere che raccolgono blog, account Twitter, Facebook e persino canali YouTube.

 

Incontri come quello degli archeoblogger a Paestum sottolineano la necessità di aprire un dialogo fra il professionista archeologo ed il suo pubblico: l’archeologia può e ormai deve diventare interattiva. L’esplosione dell’hashtag #archeoblog su Twitter, trending topic tra i primi dieci in Italia nello scorso giovedì, dimostra come in rete ci siano professionisti e appassionati che sanno come usare gli strumenti web messi a loro disposizione per diffondere cultura e che se ne interessano, ne parlano e vogliono confrontarsi usando tali strumenti. Allora perché in Italia si fatica a far decollare l’informazione digitale?

 

Da un lato si percepisce poca voglia di scommettere sul grande pubblico da parte delle istituzioni: si pensa che la cultura non porti né ascolti né guadagno, e se pensiamo nei termini dell’espressione tristemente comune della cultura come “petrolio d’Italia” forse è davvero così, ma equiparare la divulgazione su vasta scala ad un impegno inutile è in sé un parodosso: come si può incuriosire un potenziale “fruitore” di cultura senza fornigli le informazioni necessarie?

 

Internet ed i mezzi offerti dalla tecnologia non potrebbero invece diventare pubblicità gratuita, oltre che un prezioso alleato nel formare una rete capillare fra il professionista ed il pubblico? Si parla sempre più spesso di engagement anche nel mondo culturale: non è tempo di pianificare stategie a lungo termine, di rendere la cultura non solo accessibile, ma facile da trovare, alla portata di tutti, persino quotidiana?

 

In Italia i segnali sono incoraggianti, ma c’è ancora molto lavoro da fare. L’ideale?

 

Ve lo racconto in un aneddoto.

 

Martedì mattina ricevo una email dal mio professore in cui si scusa, ma deve cancellare il nostro appuntamento per quel giorno. Motivo? Ha un appuntamento in radio per un’intervista.

 

Parlare di vetro antico sulla BBC radio Nottingham?

 

Avevo proprio capito bene.

 

Provenienza e il riciclo delle materie prime, la differenza fra siti di produzione primaria e secondaria, usi e nascita del vetro antico possono sembrare, nel belpaese, argomenti azzardati e magari anche un po’ barbosi da trattare alle tre del pomeriggio in una radio locale, e invece, con la giusta dose di chiarezza è possibile introdurre la materia per tutte le fasce di ascoltatori. Non solo, l’intervista mette anche in luce quanto il lavoro dell’archeologo comprenda diverse fasi di lavoro, non soltanto il vero e proprio scavo archeologico che è forse quello che più fa parte della nostra professione nell’immaginario collettivo (indiana Jones a parte), ma anche tutta la successiva analisi dei dati che andranno a creare l’informazione finale, quella che poi viene effettivamente veicolata al grande pubblico.

 

Non sarebbe bello, auspicabile, cool, se si raggiungesse lo stesso grado di ‘naturalezza’ anche in Italia, magari proprio investendo sulle nuove possibilità date dalla rete.

 

Bè, io me lo auguro. Io sono pronta per una vera e propria rivoluzione digitale.

 

P.s. Chi lo volesse ascoltare l’intervista, a questo link si può trovare la trasmissione integrale della puntata (per l’intervista andare a 3h 24’): la registrazione è disponibile ancora per qualche giorno.

 

*
Camilla Bertini, l’autrice di questo post è su Twitter @Cami82

Da #no18maggio a #FreeArchaeology (dal blog di Alessandro D’Amore)

Vi presentiamo con piacere l’ultimo post di Alessandro D’Amore sul suo blog “Le parole in archeologia“, interessante intervista che parla di precariato, lavoro culturale, crisi e comunicazione. E stavolta @Alex_OLove ci porta in Gran Bretagna, incontrando Sam Hardy di (Un)Free Archaeology.

 

Qui il link al post e di seguito un assaggio dell’intervista:

 

Ciao Sam e grazie mille per aver accettato di fare questa chiacchierata. Sono molto contento di questa opportunità.

Ciao Alessandro, grazie a te per quest’intervista. Noi attivisti (anti)#freearchaeology siamo d’accordo con voi attivisti di #no18maggio sulla necessità di costruire una consapevolezza ed una solidarietà internazionale per portare avanti le nostre battaglie, perciò quest’occasione è ottima per tutti noi.

 

 

Sono passati quasi sette mesi da #no18maggio e sebbene in Italia la questione non sia stata più trattata dal Mibact, oltremanica la nostra protesta/proposta ha attirato l’attenzione.

 

Ci siamo tutti resi conto, in modo forse traumatico, che le grandi problematiche della nostra professione sono ben lungi da essere solo italiane, o solo British. La crisi è ovunque e di conseguenza (di conseguenza?) il settore culturale soffre. Ecco questa frase forse è più consona alla patria di Sam perché da noi soffriva anche prima. Eccome.

 

L’intervista di Alessandro ci offre lo spunto per riflettere nuovamente sul lavoro culturale: quali sono i reali problemi di chi lavora per e nella cultura? Si possono ricondurre alla più generale precarizzazione del lavoro? Una volta che la nostra professione sarà finalmente definita ed inserita nel quadro normativo, quali problemi persisteranno?

 

 

Domande in un certo senso inquietanti, ma siamo convinte che solo provando ad immaginare una risposta sarà possibile affrontare i nodi ancora irrisolti della nostra professione.

 

Voi come la pensate?