Ragione e sentimento. Lavorare gratis in un museo è l’aspirazione sbagliata?

Decadenza. Passione. Risorse umane. Risorse economiche.

 

Ciao Valentina,

 

di sicuro i quattro termini, ripresi dalla tua lettera al Sindaco di Roma Ignazio Marino, sono più che adatti a descrivere la situazione dei lavoratori dei Beni Culturali. Personalmente, avrei scelto di utilizzarli in altro modo e sarei arrivata ad una richiesta nettamente opposta.

 

Ma andiamo con ordine.

 

Io e te non ci conosciamo, ma abbiamo in comune più cose di quante immagini. Entrambe viviamo a Roma, entrambe amiamo l’arte, entrambe abbiamo studiato o studiamo beni culturali. Entrambe abbiamo qualcosa da dire.

 

Non voglio perdere tempo ed entro subito nel merito della questione.

 

“Lavoro” e “gratis”non possono andare d’accordo perchè sono sono due concetti semanticamente opposti. “Gratuito” è ciò “che si fa o si riceve o si ha senza pagamento, senza compenso”, esattamente agli antipodi, quindi, della parola “lavoro” che invece presuppone una retribuzione per la prestazione svolta.

 

Tenere aperto un museo è un lavoro, concorderai con me. Necessita di competenze ed esperienza e in quanto lavoro va retribuito.

 

Tenere aperto un museo solo con chi “vuole” farlo gratis squalifica il museo stesso oltre che le professionalità del settore. E tra queste ultime tra qualche anno ci sarai anche tu, con la tua laurea, il tuo master o il tuo dottorato. Questa sì che è decadenza.

 

Facciamo un salto avanti nel tempo, diciamo… di cinque anni.

 

Per allora avrai terminato gli studi e ora stai cercando lavoro. Hai mandato centinaia di curriculum, partecipato a concorsi su concorsi e finalmente, un giorno ti chiamano per un colloquio in un museo. Il sogno della tua vita. Era ora!

 

Sei preparata, determinata e certa che questa volta sta per arrivare la grande occasione.

 

Ecco, immagina che nella sala d’aspetto per il colloquio ci siamo io e te.

 

Entrambe abbiamo gli stessi titoli, le stesse esperienze e la stessa ambizione: lavorare in quel museo.

 

La differenza tra me e te è che io non ho bisogno di essere retribuita (sono benestante di famiglia, voglio ancora fare esperienza, ho un marito che mi mantiene, fai un po’ tu). Tu invece, ne hai bisogno, eccome: i tuoi non ti mantengono più ora e devi pagare l’affitto della stanza e le bollette, oltre che a una birretta con gli amici ogni tanto e quel corso di yoga a cui finalmente hai deciso di iscriverti.

 

Ecco, immaginiamo che in questo scenario ben poco fantascientifico, i fondi per tenere aperto il museo sono esigui, anzi, il museo potrebbe chiudere da un giorno all’altro. Sarebbe un peccato, una magnifica collezione chiusa per sempre!

 

Io entro a colloquio. Dico all’esaminatore che per me non c’è nessun problema a tenere aperto il museo senza essere pagata.

 

Poi entri tu.

 

Alla fine del colloquio chiedi all’esaminatore qual è lo stipendio mensile.

 

 

I conti sono facili.

 

Sceglieranno me. Li ho scongiurati di prendermi, non voglio neanche il rimborso spese modello stage. No,voglio proprio lavorare gratuitamente. Io amo la cultura.  Io tornerò a casa gongolante, ho realizzato il mio sogno.

 

 

Tu tornerai a casa dopo l’ennesimo colloquio andato a vuoto.  Cosa penserai allora? O meglio, cosa farai?  Cercherai un altro lavoro, probabilmente lavorerai qualche mese in un call center, poi in pizzeria, poi farai la freelance, poi poi poi.

 

 

Poi cosa?

 

 

Avrai studiato dieci anni e non avrai avuto la possibilità di lavorare nel settore per il quale ti sei formata. E sconsiglierai a chiunque te lo chiederà di studiare storia dell’arte o archeologia. Non ne vale la pena, non si sopravvive.
Quindi come vedi risorse umane e risorse economiche, in una società che non sia basata sullo schiavismo o sulle caste, non sono due voci alternative. Semplicemente perché non “campiamo d’aria”. Nè io nè te.

 

 

Le risorse umane necessitano di risorse economiche.

 

 

Prendere la strada del “io lo faccio anche gratis” significa avviare una selezione in base al censo, tra chi può permetterselo e chi non può e dovrà cambiare lavoro.
Siamo sicuri che il progresso scientifico e culturale, perché a questo servono i musei, a conservare ma anche a divulgare, insegnare, progredire, assolveranno alla loro missione con un personale selezionato in base al censo?

 

 
Io non credo. Come non credo che la passione possa uccidere la ragione.

 

 

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

Paola Romi (@opuspaulicium)

Giano bifronte: #verybello e la comunicazione culturale made in Italy

Comunicazione culturale, comunicazione museale, comunicazione turistica, comunicazione istituzionale.

 

Lo abbiamo detto tante volte. La cultura va comunicata e va fatto seriamente e consapevolmente.

 

Eppure, non tutti l’hanno capito.

 

È sabato pomeriggio e STUMP! Arriva una sorpresa: www.verybello.it. Un nome, una garanzia.

 

Uno schiaffo in faccia a tutti quelli, e sono tanti, che da tempo sottolineano l’importanza di una strategia di comunicazione dei beni culturali (per esempio, ne abbiamo parlato diffusamente a Paestum durante la Borsa Internazionale del Turismo Archeologico: qui i video dell’incontro degli archeoblogger che parlano di comunicazione in archeologia).

 

Le porte del tempio di Giano si sono spalancate di nuovo.

 

La nuova faccia della bellicosa divinità bifronte, dall’alto di #Expo2015, ci ricorda quanta strada ci sia ancora da fare nel nostro Paese.

 

O meglio, in alcune realtà del nostro Paese: perché in molte altre la comunicazione museale e culturale funziona. Eccome.

 

Funziona e cresce, grazie al lavoro per lo più volontario di professionisti inquadrati nell’organico con altre mansioni nei non molto reconditi meandri del MiBACT. Facciamo i nomi?

 

Sì, facciamoli.

 

I Musei Archeologici Fiorentini, le Soprintendenze per i Beni Archeologici di Liguria e Toscana, lo scavo della Terramara di Pilastri, tra molti altri.

 

Funziona e cresce nelle università, come anche grazie all’impegno e alla cura delle associazioni e o per merito di private iniziative: si vedano, ad esempio, il sito dello scavo di Vignale, l’attività dell’Associazione Piccoli Musei, #svegliamuseo.

 

La comunicazione della cultura ha già raggiunto livelli degni degli standard mondiali più alti in alcuni casi, pensiamo ai musei torinesi ed in particolare al museo Egizio. Descrivere la qualità, la diversificazione e la fantasia delle attività di una struttura, che tra l’altro è in corso di ristrutturazione, risulterebbe di certo riduttivo, quindi vi invitiamo a visitare il sito www.museoegizio.it e vedrete come quest’istituzione, affidata alle cure del Direttore Christian Greco, non solo comunica, ma è anche capace di raccontarsi. Hanno persino promosso la campagna #egizio2015 che lancia la riapertura dopo un corposo “restyling” e riesce in pieno negli obbiettivi di incuriosire ed attrarre.

 

Insomma, quando vogliamo, in piccolo o in grande, quasi “aggratis” o con ampi finanziamenti, produciamo ottime campagne di comunicazione.

 

Ma certe volte…

 

Certe volte escono cose come Very Bello, che sembrerebbe una battuta di un vecchio film di Verdone o l’inglese arrancante e un po’ comico di Fantozzi, e invece è il titolo di un portale del MiBACT che ben due ministri hanno presentato sabato in pompa magna a tutta la stampa: “VeryBello! Tutta la ricchezza dell’offerta culturale italiana da maggio a ottobre 2015.”

 

Ma, ahinoi, il nome è solo l’inizio.

 

Lo facciamo un attimo il punto su questo portale, nato come aggregatore di eventi culturali in giro per l’Italia per la durata di Expo2015?

 

•   Al lancio l’immagine di copertina comprendeva Francia meridionale e stati dell’ex Jugoslavia, ma non parte della Calabria e la Sicilia. Da ieri è cambiata e ci sono anche Calabria e Sicilia. Mmm… grazie?

•   Il sito è lento, si blocca spesso e non funziona o non funziona bene da smartphone, almeno alle sottoscritte.

•   È solo in italiano, cosa quanto meno bislacca visto che il sito dovrebbe servire a promuovere la cultura italiana in vista dell’Expo2015, evento internazionale. L’inglese, pare, is coming soon (Nel frattempo potete dare un’occhiata a questo link). Sabato leggevamo di almeno altre 7 lingue, che saranno disponibili da febbraio. Sarà vero?

 

Andiamo ai contenuti.

 

Il sito è un aggregatore, dicevamo. Come avvenga l’aggregazione dei contenuti non si capisce. C’è chi si spulcia internet e carica i contenuti di volta in volta? Su segnalazione? Ci saranno tutti gli eventi? O forse c’è un sistema di raccolta automatica? (Ok, questa forse è fantascienza).

 

•   Gli eventi sono divisi in categorie che è possibile selezionare da un menù a scaletta. Però è difficile trovare una logica a queste categorie. Per esempio, perché il jazz non sta nella categoria musica e concerti? E perché l’opera è divisa dal teatro? La categoria bambini riunisce un po’ di tutto, da contenuti effettivamente dedicati ai più piccoli, agli acquari e bioparchi, ad eventi legati al cibo.

•   Essendo una lista di “eventi” non esiste una categoria musei o aree archeologiche, il che vuol dire, quindi, che le aree archeologiche sono escluse dalla lista dell’offerta culturale italiana nell’anno dell’Expo2015 a meno che non ospitino una mostra o un festival? Se non fai un evento non fai cultura?

•   Si può effettuare una ricerca per luogo: nella barra in alto si inserisce il nome di una città (o provincia) ed ecco la lista degli eventi, ma attenzione: non esiste la possibilità di fare una ricerca per regione, cosa utile visto che magari uno straniero, già che c’è in Italia, visita più città, o si sposta sul territorio (ma tanto la lingua è l’italiano, quindi al momento il problema non si pone, no?)

•   E a proposito di ricerca per luogo, non posso farne due di seguito senza passare dal via, ovvero, se consulto gli eventi di Lecce e poi voglio vedere quelli di Taranto (perché non posso cercare quelli di tutta la Puglia, vedi sopra), devo prima tornare in homepage e poi inserire la nuova città.

•   Se usate la ricerca per luogo, state attenti: si tratta di una ricerca per parola nuda e cruda, e non, ad esempio per tag o su base geografica, per cui, ad esempio, se volete sapere che fanno in ad Asti nel corso dell’anno avrete tra i risultati anche la Mostra storica per i 70 anni dalla Liberazione al Museo del Territorio Biellese, nel Chiostro di San SebASTIano, a Biella. Vabbè, direte, in fondo sempre in Piemonte stiamo.

•   A meno che, ovviamente, la mappa di Google Maps che sta accanto ad ogni evento non rimandi al continente sbagliato, come accade appunto ad Asti, che almeno in un caso è collocato in India (rimando ad Ashti Nagar, be’ dai, era facile sbagliarsi, più o meno).

 

Cosa c’è nelle schede dei singoli eventi?

 

Poco, pochissimo.

 

Il nome dell’iniziativa, il luogo, la mappa di Google di cui dicevamo, una sagomina dell’Italia, ma grigia, che dovessimo fare che coloriamo la regione di pertinenza dell’evento. Diventa tutto troppo user-friendly.

 

Non c’è un recapito telefonico, ma solo il rinvio alle pagine web ufficiali degli eventi.

 

E i contenuti? Copincollati, ovviamente, perché non è che ci sforziamo di scrivere ex-novo (Alex D’Amore, qui, porta un esempio che fa riflettere).

 

Ci sono poi i button dei social network (Facebook e Twitter, non esageriamo) che però non rimandano agli account ufficiali degli eventi (che magari, lo concediamo, non esistono), ma ti consentono di pubblicare sui tuoi profili social il link all’evento sul sito, il che, sarà ottimo per pubblicizzare gli eventi stessi, ma è di poca utilità a chi cerca di reperire informazioni.

 

Ci sarebbe altro da dire, ma francamente, non ne abbiamo voglia. Altri, più bravi di noi, stanno trovando ulteriori problemi, dalla navigabilità, alle foto sbagliate, al server usato, al fatto che un sito che dovrebbe attirare grandi volumi di traffico non ha retto il colpo nelle prime ore dalla messa online (alcuni link di approfondimento in fondo al post).

 

Tante cose saranno pian piano sistemate e sostituite (si spera) come è stato per l’immagine iniziale, ma quello che emerge è che il sito è una versione poco più che beta, perfezionabile, non finita.

 

E allora che senso ha lanciare una cosa non finita? Perché non aspettare di controllare tutto per bene, di inserire almeno l’inglese, di evitare certi errori quanto meno imbarazzanti?

 

E chi è il genio che ha partorito questo nome allucinante? E chi è il genio che ha detto ‘ok’?

 

Ecco, allora cerchiamo di capire, che cos’è la comunicazione culturale in Italia.
Giano dicevamo, perché è così. Qui da noi ha due facce.

 

Da un lato il colorato laboratorio pieno di iniziative, alcune migliori di altre, ma sicuramente vivo, autocritico e pieno di idee. Una fucina da cui iniziano, anche in ambito archeologico, ad uscire prodotti di pregio, come succede al Museo Egizio di Torino.

 

L’altra faccia del bellicoso Giano, invece, è una polverosa Wunderkammer dove si aggirano direttori, ministri e personalità di vario genere che magnificano contenuti che non sembrano capire, anzi, contenuti che certe volte, a dirla tutta, non ci sono.

 

Capiamolo, per favore, una volta per tutta, signori politici e dirigenti e ministri di casa nostra.

 

Le politiche culturali vanno prese sul serio.

 

La valorizzazione non è un “di più”, ma un bisogno strutturale di questo Paese.

 

E ribadiamo, anche, che non è vero che le forze per cambiare marcia vanno prese solo all’estero, perché le capacità, le buone pratiche e le energie ci sono. Basta mettersi in testa che la cultura non è un passatempo per signori e signore annoiate, guardarsi intorno e confrontarsi con chi, forse, ne capisce un po’ di più.

 

 

Domenica Pate (@domenica_pate)

Paola Romi (@OpusPaulicium)

 

 [articolo finito di editare alle ore 23.00 del 25 gennaio 2015]

 

*

 

Per saperne di più:

 

VeryBello, come trasformare una disfatta in opportunità

#VeryBello: le mie considerazioni tecniche

Ci vorrebbe il napalm

verybello.it: presto e bene non vanno insieme

 

 

Archeologi: “quelli che hanno solo interesse a scavare e pubblicare per motivi di carriera”.

Che tu stia lavorando da archeologo o che tu abbia smesso di fare l’archeologo con tanto di scarponcini zozzi di terra, scommettiamo che quasi ogni mattina ti alzi con alcuni perché in testa. Come noi. Non cose che hanno a che fare con la vita, la morte e i grandi quesiti dell’umanità. No, cose più terra terra. Appunto.

 

Perché non riusciamo a farci capire? Perché noi archeologi siamo belli e fighi su uno schermo cinematografico o nei videogame e invece siamo brutti e cattivi quando svolgiamo il nostro lavoro?

 

Certo il physique du rôle dei figaccioni non ce l’abbiamo proprio: sudati in estate e infreddoliti con le labbra screpolate in inverno, quasi sempre spettinati e con la testa fra le nuvole a numerare strati e muri. E va bene. Su questo c’avete ragione.

 

Però tutto sommato siamo persone (più o meno) normali: studiamo molti anni, facciamo gavetta sui cantieri universitari, mandiamo curriculum, lavoriamo 8 ore al giorno e portiamo a casa la pagnotta (non tutti i mesi e non sempre la pagnotta basta, ma tant’è). Così ci riconosciamo tra noi, questo è quello che vediamo uno nell’altro quando ci ritroviamo tra archeologi.

 

E se da un lato c’è tanta curiosità nei confronti del nostro lavoro, se frasi come “wow, anche io avrei sempre voluto fare l’archeologo,” ci sono piuttosto familiari, ce ne sono tante altre che tornano costanti, riferite alla nostra categoria. E non sono belle.

 

Così, noi archeologi, spesso siamo “quelli che bloccano i lavori”, “quelli che stanno sempre in mezzo ai piedi sui cantieri”, “quelli che non si capisce di cosa parlano”, “quelli che non vogliono ammettere che gli alieni stavano un pezzo avanti a egiziani e ingegneri romani”, quelli che… “ma per quattro sassi fate sempre un casino!

 

A questo breviario di definizioni dell’”archeologo” ne mancava giustappunto una: “quelli che hanno solo interesse a scavare e pubblicare per motivi di carriera”.

 

Vi sfidiamo. Se siete archeologi la prima cosa che avete pensato è “carriera, ma che davvero?”

 

Stavolta da chi giungono gli ennesimi strali? Dal presidente di una fondazione sarda. Che sembra sia formata da volontari.

 

E qui è il momento in cui alzate lo sguardo dallo schermo e fate quella faccia un po’ così, con le sopracciglia aggrottate a descrivere la domanda: “ancora?”

 

E sì, ancora.

 

Ora, non è che noi siamo contrari all’impiego del tempo libero in azioni filantropiche, però possiamo dirlo che nel nostro campo e nei musei se ne sta facendo un uso disinvolto e davvero poco lungimirante?

 

Che i volontari dicessero che quelli “fuori posto” e in qualche modo “dannosi” in un contesto archeologico siano gli archeologi, però, oggettivamente, le supera tutte.

 

Ora, facciamo un passo indietro e torniamo al VIA.

 

Questo regalino, fastidioso come il carbone, è arrivato, il giorno della Befana, dalla Sardegna.

 

Pochi giorni fa, infatti, Antonello Gregorini, portavoce di Nurnet – La Rete Dei Nuraghi, Fondazione di Partecipazione sarda nata con lo scopo di promuovere “la cultura del periodo in cui sull’Isola svilupparono le civiltà pre e nuragica” , che ha assicurato la vigilanza del sito di Mont’e Prama (Cabras, Sardegna) durante le feste natalizie, avrebbe sostenuto che “sarebbe folle lasciare questo tesoro nelle mani degli archeologi, che hanno solo interesse a scavare e pubblicare per motivi di carriera”.

 

L’articolo continua:

 

Ma non vogliamo sostituirci agli archeologi nel lavoro di scavo, il nostro è solo un progetto di marketing“” ha spiegato a un centinaio di persone arrivate un po’ da tutta la Sardegna per partecipare all’assemblea pubblica convocata proprio a Mont’e Prama per raccontare quello che, secondo Nurnet, dovrà essere il futuro del sito. “Mont’e Prama – ha sottolineato Gregorini – è un patrimonio di tutti i sardi e vogliamo che sia trattato da una classe dirigente capace di trarne il massimo profitto in termini di cultura, lavoro e visibilità per tutta la Sardegna”.

 

La prima cosa che ci viene da dire è che, a ben guardare, “il tesoro” di cui parla Gregorini, se gli archeologi non l’avessero scavato, non ci sarebbe stato proprio. E inoltre pubblicare una scoperta non è una scelta o un’attività ludica, bensì un dovere. Sembra lapalissiano ma evidentemente deve essere ribadito.

 

Soprattutto, però, quello che salta agli occhi è che gli archeologi sono ancora una volta considerati buoni solo a scavare.

 

E passata la prima indignazione, questo deve farci riflettere.

 

Dall’esterno la nostra professione sembra una cariatide monolitica immobile e polverosa, ma non è esattamente così: la statua, come il Leviatano di Hobbes, è fatta di tante persone, foriere di diversi caratteri, interessi, capacità ed energie. Che poi la testa del gigante fatichi a guardare verso il futuro e i comuni mortali spesso è vero, ma non per questo è lecito condannare tutto il corpo.

 

Se addirittura si arriva a sostenere che “sarebbe una follia” mettere nelle mani degli archeologi il lavoro di valorizzazione di un sito archeologico, è forse giunto il momento, anche per noi, di fare autocritica.

 

Allora, la prima domanda è: siamo davvero in grado di comunicare all’esterno chi siamo, cosa facciamo e soprattutto perché?

 

La risposta, chiaramente, è “no”, o comunque “non sempre”.  Sono diverse ormai le realtà in Italia in cui ricerca e comunicazione della ricerca vanno di pari passo,  ma non basta, non è ancora prassi comune e deve diventarlo se vogliamo che il nostro lavoro sia rilevante per la società in cui viviamo.

 

La seconda domanda, forse ancora più importante, è: siamo pronti ad occuparci di valorizzazione dei beni culturali, uscendo da logiche che potremmo definire “da primo novecento”? Siamo disposti a rinnovare profondamente il rapporto tra bene culturale e pubblico?

 

La risposta è “non ancora”, ma ci stiamo lavorando.

 

La questione però non finisce qui.

 

Nell’articolo il portavoce di Nurnet cita la classe dirigente e non sbaglia. La fondazione si è fatta carico di assicurare il servizio di guardiania durante il periodo festivo quando il sito, sembra, era stato lasciato senza sorveglianza. E questo dopo immani polemiche su mancanza di fondi, competenze e beghe burocratiche (vedi box sotto con link di approfondimento).

 

Il problema, insomma, è molto più che una bagarre tra volontari, che meritoriamente si sostituiscono a quella che sentono come una mancanza da parte degli organismi competenti, e archeologi. Il problema è, ancora una volta, culturale e politico.

 

L’abbiamo detto e lo diremo ancora: non si può pretendere di usare i beni culturali come “volano della ripresa economica” con investimenti minimi, provvedimenti placebo e restauri eclatanti fatti giusto per onorare l’articolo 9 della Costituzione.

 

Finché la politica culturale di questo paese rimarrà ancorata alle logiche del “a costo zero”, senza un serio investimento (non solo in termini economici) ed una progettualità sul lungo termine, troveremo sempre associazioni di appassionati cittadini che sono disposti a spendere il proprio tempo in nome di una rinascita culturale della loro terra. Il loro impegno è lodevole e benvenuto, ma non può e non deve sostituirsi alle istituzioni, ai professionisti, e a chi ha il dovere di gestire e rendere fruibile il patrimonio culturale dello stato.

 

E no, “non ci sono fondi” non è più una scusa accettabile.

 

*

 

Per approfondire

 

La questione Mont’e Prama è molto complessa. Non siamo esperte di archeologia sarda, non conosciamo le dinamiche e le problematiche della valorizzazione di questo particolare sito, però in rete ci sono diversi articoli e post interessanti. Ne abbiamo raccolto alcuni che pensiamo possano aiutare a chiarirsi un po’ le idee.

 

– Il sito della Fondazione: www.nurnet.it

– La pagina FB che cerca volontari per la guardiania al sito archeologico.

 

Sul sito e la mancanza di sorveglianza:

 

Mont’e Prama, vigilanza rafforzata Restauro con i soldi dei privati

Mont’e Prama, archeologo Zucca: “Abbiamo pagato vigilanza scavi. Ma rischiamo posto”

L’assessore Claudia Firino su Mont’e Prama: “Vigilanza attualmente garantita dal Corpo Forestale”

Rassegna stampa a cura dell’Università di Cagliari del giorno 29 dicembre 2014  (articoli 3 e 5)

 

 Mont’e Prama, i volontari e politica culturale

 

Volontariato e beni culturali: cosa insegna il caso Mont’e Prama (ma che accademici e politici si rifiutano di capire)

Essenzialismi culturali, populismo e progetti politici opachi

Antonello Gregorini: gli avvoltoi di Nurnet

 

 

Ma ci prendete in giro?

Era tutto un bluff. Il grande bluff.

 

Certo, anche noi che ci volevamo credere!

 

Ma davvero il neo ministro appena nominato poteva uscirsene con una dichiarazione che non fosse aria fritta?

 

“Il Ministero dei Beni Culturali è il più importante ministero economico del Paese” e bla bla bla bla.

 

E così in tutte le interviste e gli interventi pubblici. A farci credere che i momenti bui erano al capolinea, che adesso sì che si investirà in cultura, che il punto di svolta era ad un passo.

 

Dopo la vicenda #500schiavi nella quale era rimasto imbrigliato il predecessore Massimo Bray, confidavamo tutti in maggiore attenzione ai proclami.

 

Non che proprio ci dovessero dire la verità del tipo “Non ci sono i soldi, non c’è neanche la volontà, fosse per noi italiani estiqaatsi dei beni culturali ma è l’Europa che ce lo chiede, sennò ci vengono a commissariare per palese inadempienza”.

 

Voglio dire, siamo capaci di tenere chiuso il Mausoleo di Augusto in occasione del bimillenario della morte e di non fare uno straccio di politica turistica che aiuterebbe a riempire le casse del comune di Roma, figuriamoci se davvero pensiamo di investire nei beni culturali. Suvvia, sono cose che si dicono, tipo le frasi fatte sul tempo “che bella giornata, oggi fa freddino, domani sarà umido”.

 

Ecco, io non dico che ce la dovevano dire proprio così la verità.

 

Però neanche prenderci per sprovveduti. Tutto sommato abbiamo lauree, specializzazioni, dottorati che non servono a nulla quando cerchi lavoro, ma sono abbastanza per capire certe cose. E poi siamo anche abituati.

 

Perché ad oggi, di politiche per i beni culturali che possano creare posti di lavoro non se ne sono viste. Al contrario si è visto che l’unica direzione verso cui si stanno rivolgendo tutti gli sforzi di enti locali e governo centrale è una sola: il volontariato.

 

E’ di ieri la notizia che “il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini e il Sottosegretario di Stato del Ministero del Lavoro, Luigi Bobba hanno stipulato un protocollo di intesa che prevede la realizzazione di progetti di servizio civile nazionale per promuovere lo svolgimento di attività di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale”.

 

Cioè la promozione delle attività di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale la facciamo fare a giovani tra 18 e 28 anni in cambio di pochi spicci.

 

Giusto per il biglietto del cinema e per pizza e birra nel weekend.

 

 

@antoniafalcone

Gli archeologi nel paese dei balocchi

C’era una volta un paese piccolo piccolo.

 

In una città grande grande di questo paese piccolo piccolo, si discuteva in quei giorni del ripristinare l’arena di un famoso vecchio rudere conosciuto in tutto il mondo.

 

Lo chiamavano sempre Colosseo e lui avrebbe voluto dire che in realtà la sua titolatura completa era Signor Anfiteatro Flavio, ma preferiva star zitto che in questi tempi moderni era meglio, tanto era abituato agli equivoci da secoli.

 

E di questa idea di ricucire un po’ là e un po’ qua il vecchio rudere parlavano tutti: dal professore universitario di fama che l’aveva proposta, al ministro addetto ai monumenti della nazione che, addirittura, ci aveva cinguettato sopra.

 

C’era chi diceva “Sì! Dai, facciamoci i concerti” e chi invece, convinto ormai che al vecchio rudere non rimanesse altro che farsi idolatrare, urlava al sacrilegio.

 

Taluni più sensatamente suggerivano che l’arena ripristinata sarebbe stata utile alla comprensione dei poveri turisti che, con tutti quei buchi, si chiedevano se i leoni e i gladiatori facessero in realtà i 100 m a ostacoli invece di combattere. Molti ipotizzavano tangenti e disastri, mentre qualcuno già immaginava di giocare nell’anfiteatro il derby con la palla rotolante.

 

Insomma la situazione era già abbastanza surreale quando su uno strumento nuovo, chiamato faccialibro, una signora archeologa si disse scandalizzata perché qualcuno aveva citato, sulle sorti del Colosseo, accanto a un professorone di archeologia grande grande, di quelli che stanno nelle enciclopedie pure da vivi per capirsi, un archeologo, per lei piccolo.

 

Piccolo perché non stava nelle aule polverose a insegnare, ma il lavoro di archeologo “si limitava” a farlo e, nei ritagli di tempo, osava anche essere il presidente di un’associazione che, come altre, rappresentava gli archeologi piccoli piccoli.

 

La signora doveva essere poco informata sulla realtà in cui viveva: perché anche lei, a ben vedere, era una di quegli archeologi piccoli, e anzi, da decenni, viveva proprio facendo lavorare altri archeologi piccoli piccoli.

 

E mentre tutti questi archeologi piccoli dicevano “che noi non siamo piccoli per niente e che i grandi ci vogliono tenere piccoli così almeno non diamo fastidio”, si alzarono le voci di un politico piuttosto grande, o almeno lui così credeva, e di un imprenditore grandissimo.

 

Stavolta non sulla storia del rudere vecchio, ma su un’altra leggenda che girava di quei tempi.

 

Infatti si diceva che per risollevare le sorti della cultura di quel paese piccolo piccolo bastava utilizzare una formula magica che consisteva nel fare una giravolta, quattro saltelli e scandire ben benino le sillabe “a co-sto ze-ro”.

 

La chiamavano in linguaggio altisonante decrisissolvenda. Perché si narrava, in sottoscala bui e polverosi, che quando c’è crisi la prima cosa da fare è rassegnarsi e la seconda è nascondere gli zecchini d’oro, aspettando tempi migliori.

 

E così il politico e l’imprenditore decisero che quegli stessi archeologi piccoli piccoli potevano anche continuare a lavorare nei call center e nei fast food o chiedere la paghetta a mamma e papà, perché il lavoro serio non era cosa per loro. Il lavoro serio, quello di valorizzazione, lo dovevano lasciare agli americani, quelli dei “repository”.

 

“Un lavoro che se Roma dovesse fare da sola, con le proprie risorse, richiederebbe decenni. Oggi, invece, possiamo avvalercene a costo zero” fecero incidere su un’epigrafe a futura memoria.

 

E tutti a plaudire a questa idea geniale.

 

Perché la formula magica “a costo zero” funziona sempre nel paese dei balocchi.

 

*

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

Antonia Falcone (@antoniafalcone)

 

 

 

 

Ritorno al futuro (o dell’archeologia come intralcio)

“La Milano medievale sotterranea rischia di complicare l’operazione e rallentare i lavori. Il passato che blocca il futuro”

 

Il passato che blocca il futuro. Questo siamo.

 

Un rischio, ecco a cosa è ridotto il nostro patrimonio storico-culturale. Non un’opportunità, piuttosto un concetto semanticamente opposto.

 

Siamo qui, Italia, 1924.

 

Ah no, 2014.

 

Eppure a leggere le esternazioni del giornalista del Corriere della Sera  sembra di tornare indietro di decenni, quando l’archeologia era sterro e mera “scoperta” di tesori. Tutto qui. Non stratigrafia, nè tutela e valorizzazione, non studio e ricerca, ma ostacolo, forse, di tanto in tanto, celebrazione magnificente della scoperta. E se ancora si incontra qualche nostalgico di quel modo di scavare (una volta un funzionario della Soprintendenza di Roma ha confessato ammiccante: “eh sì che negli anni ’30 sapevano scavare”), noi, tutti gli altri, pensavamo di esserci lasciati alle spalle questo modo di concepire l’archeologia, di aver raggiunto una nuova consapevolezza del nostro patrimonio culturale e del ruolo sociale che gli archeologi rivendicano e devono avere.

 

Evidentemente ci sbagliavamo.

 

Dobbiamo ancora fare amaramente i conti con la retorica degli sventramenti, del progresso a tutti i costi, con quello stesso modus operandi che ha distrutto interi quartieri e testimonianze del passato che nessuno ci restituirà più, che nessuno potrà visitare, conoscere, amare. Non torneranno più.

 

Basta quindi il rinvenimento di una muratura e si affaccia di nuovo pericolosamente l’idea che l’archeologia è un intralcio.

 

Che poi archeologia. Siamo sicuri che di archeologia stiamo parlando?

 

Perché se è così, noi ci eravamo fatti un’altra idea. Perché noi pensavamo che quello che noi archeologi “tiriamo fuori” dal sottosuolo non è nostro, ma appartiene alla collettività, proprio come i tubi del teleriscaldamento di piazza Duomo.

 

La Milano Medievale non è degli archeologi che sono egoisti e odiano il progresso, ma è patrimonio di tutti, da conoscere e condividere.

 

Siamo sicuri di volerne fare a meno?

 

Siamo sicuri di poterne fare a meno?

 

Scrivere che “il passato blocca il futuro” significa due cose. Da una parte si sta attaccando pesantemente una categoria già bistrattata come quella degli archeologi italiani (e non è vittimismo, leggere per credere ), dall’altra questo è un attacco bello e buono al significato stesso di “cultura”.

 

Perché, caro giornalista del Corriere della Sera, archeologia non vuol dire ricordare o insegnare alla gente quale imperatore ha fatto costruire la Basilica di San Paolo o l’Arco degli Argentari, ma significa instillare nei cittadini la consapevolezza che ogni nuova scoperta sia un arricchimento, anche a prescindere da un’auspicabile valorizzazione turistica. Distruggere qualcosa del nostro passato, senza nemmeno documentarlo, è come cancellare interi rami del nostro albero genealogico.

 

Perché a conti fatti l’archeologia è un viaggio nel passato che altera il futuro. L’archeologia serve a comprendere, oltre che a conoscere il nostro passato, e tutte le operazioni che si devono compiere durante lo scavo (documentazione accurata di ciò che si rinviene e della natura delle stratificazioni che si asportano) servono a registrare ed in seguito a capire le informazioni che quelle poche, labili tracce del passato conservate sotto terra, ci forniscono.

 

Una volta un professore mi disse “Il passato è finito, è morto, è sepolto, e quello che rimane sono solo frammenti sparsi di quel mondo scomparso”.

 

Scavare di fretta o peggio distruggere e non scavare nel senso archeologico del termine (con metodo, cogliendo i segni del passaggio degli uomini, documentando passo passo quello che si fa), significa cancellare definitivamente un puzzle di cui non possediamo nemmeno tutti i pezzi.

 

E quel puzzle non solo è patrimonio comune, ma è parte di chi siamo, è il nostro album dei ricordi.

 

Se dimentichiamo o perdiamo il passato, diventiamo come Marty McFly, che per uno sventurato incidente quasi cancella dall’esistenza la sua famiglia.

 

La nostra famiglia, in questo caso, è la nostra collettività. Cancellando pezzi del nostro passato si rischia di non capire più chi siamo. È questo che vogliamo essere? Un paese che non ricorda più chi è?

 

Il passato non blocca il futuro.

 

La conoscenza consapevole e condivisa costituisce invece la fondazione stabile della nostra identità presente e futura.

 

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Antonia Falcone (@antoniafalcone)

 

Paola Romi (@opuspaulicium)

 

Domenica Pate (@domenica_pate)

 

 

Notte dei Musei 2014

La notte è piccola per noi

Il mese delle rose è tornato e con lui la Notte dei Musei.

 

Un anno è trascorso e stavolta il MiBACT non sembra essere incorso nella convocazione di volontari a mezzo social che aveva scatenato, nel 2013, la protesta del #no18maggio, sfociata poi ne “la Notte dei Professionisti“.

 

Tutto bene quindi?

 

Ni. Anzi no.

 

In questo 2014 nelle istituzioni museali sia grandi che piccole, un po’ a macchia di leopardo, qualcosa si sta muovendo nella direzione di una maggiore apertura verso l’esterno. Almeno sul lato della promozione social. La #museumweek e da ultimo lo #smallmuseumtour dimostrano infatti l’esistenza di volontà ed energie utili e prontamente disponibili ad un rinnovato rapporto con i visitatori reali e virtuali, ma c’è un ma.

 

Ora, da solito “bastiancontrario”, mi chiedo per quale motivo di fronte alla scelta di promuovere due iniziative che cadono nello stesso weekend, ovvero la  Notte dei Musei  (il 17 maggio) e l’International Museum Day (18 Maggio), organizzata dall’ICOM, si sia scelto, a livello ministeriale, di incentivare soprattutto la prima.

 

Prescindendo dalla polemica #ColosseoChiuso, che peraltro, oltre ad essere meramente strumentale, non riguarda nemmeno propriamente un museo, e sebbene sarebbe stato senza dubbio più facile gestire le presenze del personale per la seconda iniziativa citata, visto che le istituzioni museali la domenica sono generalmente già aperte, sono preoccupanti, rispetto a questa scelta, il ragionamento sottinteso e  l’opportunità mancata.

 

Il vero punto dolente della questione è infatti la straordinaria occasione comunicativa persa: il tema della Giornata Internazionale dei Musei 2014 (GIM 2014), Make CONNECTIONS with COLLECTIONS Creare CONNESSIONI  con le COLLEZIONI, è infatti quanto mai interessante ed attuale. A riguardo, se ce ne fosse bisogno,  ICOM efficacemente ricorda che “i musei sono istituzioni vive, che aiutano a creare legami con visitatori, tra generazioni e culture del mondo e dare una possibile risposta alle questioni contemporanee del mondo.”

 

Ecco, non ho nulla contro la Notte dei Musei, anche perché mi fa sentire meno orfana delle Notti Bianche a cui velocemente mi ero affezionata, ma credo che le energie spese in questa operazione sarebbero state meglio investite in un’iniziativa di più ampio respiro concettuale, oltre che aperta a successivi sviluppi, quale quella proposta per la Giornata Internazionale dei Musei.

 

Rischio di essere sommamente impopolare, ma sono persuasa che i musei italiani prima che di un maggior numero di visitatori, diurni e/o notturni, abbiano bisogno di migliorare il rapporto coi visitatori e, secondo quest’ottica, privilegiare un’occasionale Notte dei Musei, appuntamento di gran lustro, certamente, ma per le sue stesse caratteristiche straordinario, nel senso di “non ordinario”, a scapito di una giornata internazionale nella quale è il museo al centro della sua rete di connessioni, a parer mio, non va esattamente nella direzione giusta.

 

Concludo questa riflessione con una precisazione che mi sembra necessaria: tutto quanto rilevato non mi preoccupa quest’anno come archeologa e professionista. Mi delude come cittadina.

 

Nel 2015, forse, troveremo la quadratura del cerchio.

 

O almeno lo spero.

 

 

Paola Romi (@OpusPaulicium)