EA: Emergenza d’Archeologia (Episodio sesto) ~ di Paola Romi

1.06 – Speriamo che sia femmina!

 

Saggi non so, ma donne nella nostra professione ce ne sono a bizzeffe. Se c’è una questione che le nostre indaffarate associazioni di categoria non dovranno mai porsi è quella delle c.d. Quote Rosa. Ma cominciamo dall’inizio.

 

Essere donna in un qualsiasi cantiere e/o scavo che non sia universitario è un’esperienza alquanto complessa e particolare. Per me, a margine di un po’ di anni passati fra assistenze in corso d’opera e indagini preliminari, alla fine pure, in parte, divertente.

 

Perché, bisogna dirlo, come ogni elemento estraneo posto all’interno di un gruppo omogeneo, noi attiriamo attenzione e attenzioni. E così in un ambiente indubbiamente machista per numeri e tradizione, l’arrivo di un’esponente del gentil sesso è quasi sempre accolto con malcelati sorrisi e più o meno opportune considerazioni. Non conta quanto sei avvenente, conta che non sei un uomo. Punto. La strada sembrerebbe spianata, qualcuno si rende disponibile  ad aiutarti, altri si informano sul tuo stato civile, i più audaci partono con offerte varie…dal caffè a tutto quello che osate immaginare. Un ingiusto idillio, penserà  invidioso il nostro collega maschio, a cui gli stessi attori ringhiano appena oltrepassa la recinzione. No, non esattamente. Perché appena ti arrischi a fare il tuo lavoro, che sia fermare le lavorazioni o spiegare a qualcuno come si deve scavare, spesso crolla il castello. Non a tutti piace ricevere ordini da una donna. Se poi la signora o signorina è particolarmente autoritaria gli epiteti, anche solo pensati, si sprecano. Ma si sopravvive, eccome se si sopravvive, prendendo tutto con ironia, incrementando il proprio repertorio di sorrisi e velate minacce, avendo tanta pazienza e fantasia. Tutte materie assenti nei curricula universitari, ma necessari quanto Harris.

 

Quando poi la giornata sarà finita e penserai  di aver momentaneamente vinto, mentre lungo la strada ti avvicinerai al mezzo che ti porterà a casa, tanto per non perdere il ritmo, qualcuno di passaggio, nonostante gli scarponi,  ti chiederà : “Scusa, quanto vuoi?”.

 

Non facciamoci illusioni, anche se a volte qualcuno, parlando dell’archeologo che deve arrivare dice: “Speriamo che sia bionda! Speriamo che sia femmina! Speriamo che…”  per chi svolge il nostro ruolo non ci sono sconti, mai.

 

Tuttavia, prima di iniziare un nuovo lavoro anche noi possiamo invocare qualcosa, la Terra, sperando che sia Feconda di nuove Scoperte.

 

Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium

EA: Emergenza d’Archeologia (Episodio quinto) ~ di Paola Romi

1.05 – Tempi Moderni

 

Ci sono periodi in cui la sorte ci assiste, la fortuna ci aiuta e la nostra bravura ci supporta.

 

Ci sono cantieri in cui la fortuna ci arride ed il rinvenimento di complesse preesistenze ci conforta. Ci sono momenti in cui davanti alla ricchezza del sottosuolo e del passato ci convinciamo che non abbiamo sbagliato mestiere.

 

Ci sono giorni, mesi, e a volte anni in cui pensiamo che le nostre tribolazioni professionali abbiano un senso. E il senso è lì, davanti ai nostri occhi, sotto le nostre mani.

 

Poi, spesso, arrivano grigi attimi in cui tutto viene avvolto in sudari di tessuto non tessuto. Seguono lunghi giorni in cui guardando la ricopertura dello scavo ci viene voglia di vestire di nero. Ci sono volte in cui ciò non succede, ma troppo spesso sì. E alla fine di gioiose giornate, gravide di scoperte e problemi, ci  sentiamo come un ingranaggio.

 

Ci sentiamo strumento  di speculazioni e complici dello scempio del territorio.

 

Alla fine ci viene il dubbio di essere parte di una catena di smontaggio.

 

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Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium

 

Da oggi Paola entra ufficialmente a far parte dello staff di Professione Archeologo. Benvenuta a bordo, Paola!

Vita da archeologi: la mia esperienza ~ di Caterina Ottomano

Vi presentiamo oggi con grande piacere il post inviatoci da Caterina Ottomano, tra le prime ad essere entrata in contatto con Professione Archeologo e ad averci dato il suo sostegno.

 

In questo articolo troverete condensata la sua particolarissima esperienza di vita, che fornisce interessanti spunti di riflessione a tutti noi.

 

Caterina ci interroga su una questione cruciale del nostro percorso formativo e professionale: essere e fare gli archeologi può essere  un mestiere duraturo o rappresenta un intervallo che presto lascia il posto alla necessità di avere un lavoro vero? Può l’archeologia diventare una vera professione?

 

Grazie Caterina!

 

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Quando mi sono iscritta a Scienze della Terra a Milano non avevo la benché minima intenzione di occuparmi di archeologia, certo mi interessava molto la storia, ma la cosa finiva lì.

 

La mia tesi di laurea è consistita nel rilevamento geologico dei terrazzi fluviali e fluvioglaciali del territorio a nord di Novara e nell’analisi sedimentologica dei depositi che li costituivano, si trattava quindi di geologia del Quaternario, un campo nuovo a Milano.

 

All’epoca, all’inizio degli anni ’80, molti laureati in geologia venivano impiegati all’AGIP, nella ricerca degli idrocarburi e anch’io pensavo di dover/poter fare la stessa fine. Però, a sparigliare le carte è arrivato in dipartimento da Reggio Emilia un giovane ricercatore: Mauro Cremaschi, quaternarista e geoarcheologo, appunto. Lui mi ha seguito sulla parte della mia tesi dedicata ai depositi eolici e poi ha proposto a me e ad altri colleghi di andare a scavare una settimana nel sito paleolitico di Isernia la Pineta, che era stato scoperto da pochi anni. L’ho fatto, ci sono andata, mi sono intossicata con il paraloid, ho vomitato per due giorni e ho giurato a me stessa che non avrei mai più scavato.

 

Detto fatto, dopo la laurea, nel 1986, su consiglio ed incitamento di Cremaschi ero presidente di una cooperativa di geologi litigiosi che ricordava l’armata Brancaleone e a luglio trepidante e sudata ho partecipato al primo scavo: un sito dell’età del ferro vicino ad Alessandria in mezzo al mais e alle zanzare.

 

Con l’autunno sono stata reclutata da una ditta di Milano – la cui socia ‘anziana’ aveva la bellezza di 32 anni – negli scavi urbani di via Moneta e lì ho conosciuto una serie di archeologi inglesi ridotti alla fame dai tagli della Tatcher e giunti in Italia perché allettati dal lavoro abbondante e dalle buone paghe.

 

Tenete conto che gli anni ’80 e ’90 sono stati un momento d’oro per l’archeologia per la gran quantità di opere grandi e meno grandi che si sono effettuate sia in contesto urbano che extraurbano; moltissimi archeologi si sono formati allora ed alcuni sono gli stessi, invecchiati e inaciditi, che dirigono alcune società o cooperative con cui avete a che fare. All’epoca, però, tutti erano felici, entusiasti e giovani, soprattutto.

 

Nel tempo, pur continuando a scavare, mi sono specializzata in archeomicromorfologia – che consiste nello studio al microscopio di suoli e terreni antropici – ed in analisi del rischio archeologico. In quanto professionista ho lavorato in ambiti di ogni genere dal paleolitico al postmedioevo, ma la maggior parte delle analisi micromorfologiche le ho eseguite su campioni provenienti da siti pre-protostorici. Ho partecipato ad alcune campagne di scavo nel Pakistan del sud con l’Università di Venezia e in Libia con l’Università di Roma La sapienza.

 

Il mestiere dell’archeologo, lo sapete, non è tutto rose e fiori: con gli ispettori di soprintendenza i rapporti sono sempre tesi e difficili, il professionista è spesso visto come una cazzuola attaccata ad un braccio, avida e priva di spessore scientifico; non è vero, naturalmente, alcuni miei colleghi sono ora funzionari o soprintendenti, altri lavorano in università; sono una minoranza comunque, considerando che siamo partiti in moltissimi. Non parliamo delle imprese edili con cui si ha a che fare, che ci vedono come il fumo negli occhi, che sono sempre pronte a gettare la croce dei ritardi sugli ‘scavi’ e che appena ti volti ti devastano ettari di abitato.

 

Che dire poi dei kilometri percorsi su macchine scassate e rumorose, di milioni di ore dormite in pensioni di infino ordine, in aule di scuole elementari, in palestre puzzolenti? E i pagamenti, che man mano che la crisi economica procedeva impiegavano più tempo ad arrivare, e giù telefonate di sollecito. Questo è un lavoro per giovani; più il tempo passava più io mi rendevo conto di essere stanca, di volere stare un po’ casa, e poi, la cosa più grave, non ce la facevo più a lavorare in cantieri di speculazione edilizia, in cui il cemento subentrava alla campagna o alle poche aree libere in città.

 

Nel 2003 ho tenuto un corso a contratto all’Università di Genova che ha avuto come argomento la geopedologia e la micromorfologia e agli studenti che lo frequentavano ho consigliato vivamente di intraprendere una carriera diversa o, comunque, di tenersi aperta un’altra porta. Alcuni mi hanno ascoltato.

 

Poi, nel 2004, dopo un mese di fila passato a non dormire, ho deciso: basta scavi, non ne posso veramente più. Ho aperto un piccolo negozio di modernariato e vintage nei vicoli di Genova, mantenendo solo l’attività di consulenza geoarcheologica. Ora mi sono spostata con l’attività in una bella strada turistica e devo dire che per fortuna ho approntato il piano B, perchè anno dopo anno, le richieste di analisi e di assistenza sono sempre meno e i pagamenti arrivano sempre più tardi o non arrivano.

 

 

Archeologia e comunicazione video (dal blog Archeovideo)

Può l’archeologia servirsi dello strumento video per comunicare? Siamo pronti a fare il salto verso una divulgazione che travalichi i confini ristretti delle accademie?

 

Il post linkato qui propone una breve rassegna dello stato attuale della comunicazione video in archeologia, sottolineando limiti e potenzialità di un mezzo ancora trascurato nell’ambito della divulgazione archeologica.

 

“Se fossimo interessati a vedere un video di un sito che ci interessa e cercassimo su YouTube “area archeologica di…” o “scavi archeologici di…” dovremmo trovare senza troppi clic il canale con i relativi filmati. Oppure si potrebbe andare sul sito web e da lì cliccare sui link giusti per poter vedere i video girati dagli stessi archeologi che scavano il sito. Forse quello appena descritto è uno scenario troppo utopistico ma la realtà è comunque profondamente diversa: la comunicazione archeologica nel nostro paese è ancora un fenomeno limitato ad alcuni casi illuminati e, anche all’interno di questi esempi, la diffusione del video come strumento per comunicare non è molto ampia”.

Archeologia e formazione: strada senza uscita? (dal blog passatoefuturo)

Il blog passatoefuturo propone un’interessante riflessione sul rapporto tra archeologia, formazione universitaria e mondo del lavoro. Possiamo immaginare un futuro diverso per chi, come noi archeologi, investe tempo e risorse nella formazione e si ritrova spesso a dover abbandonare qualsiasi prospettiva professionale nel settore? I nodi stanno venendo al pettine?

Quale deve essere il ruolo dell’università oggi per permettere l’inserimento degli archeologi nel mondo del lavoro?

 

“Per un istante proviamo anche noi, ricercatori e docenti, a pensare alle nostre responsabilità e alle colpe di una formazione che non porta all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro ma solo ad una specializzazione estrema nella ricerca (…..) Sarebbe di contro molto utile pensare al placement dei nostri laureati, e dire la nostra per proporre una visione dei bbcc che  non sia più solo protezionistica ed erudita”.

 

Link all’articolo qui

 

Emergenza d’Archeologia (episodio quarto) ~ di Paola Romi

1.04 – Titanic

 

Era grande e scintillante, maestoso ed imponente. A molti faceva paura, pavidi stavano a guardarlo, rinunciando al pericoloso viaggio, gravido di speranze e promesse. L’oceano del Tempo scatenava atavici terrori, meglio avere poche facili certezze che tanti enormi interrogativi. Pure il nome era difficile, con quel sapore greco, che sapeva di snobismo; ma faceva parte di una grande flotta, bisognava dirlo.

 

E così cominciarono ad imbarcarsi.

 

In prima classe i professori universitari e i loro pargoli, in prima classe bis, che la seconda non c’era,  i dirigenti, i funzionari, i quadri e qualche parvenu proprietario di società. In terza classe poi, loro, i disperati, i lavoratori della strada, i fidi scrutatori  con le unghie sporche di terra, i polmoni rosi dallo smog e la testa piena di sogni.

 

Fu con questo carico che la nave salpò.

 

E a terra il sindaco, il questore, il prefetto, il politico, il conte, i giornali, la radio, le comari: tutti a dire quanto era bello ed importante il transatlantico, tutti a sottolineare come opere del genere potessero salvare l’economia dello scoglio che si trovavano ad abitare.

 

A bordo poi, era tutta una festa, qualcuno in prima classe festeggiava con lo champagne, altri, sempre in prima classe, scolavano il fondo delle bottiglie e si nutrivano di sole briciole. In seconda bis invece no, pasteggiavano con costosissimi vini biodinamici e si nutrivano, a volte, di delizie a km 0, altre di caviale di cui non volevano sapere l’origine. E la terza classe stava a guardare, a tratti schernendoli di mala grazia, a tratti progettando di fondare uno Stato in cui gli alcolici e le prime classi fossero proibite.

 

E così navigando nell’oceano del Tempo tutti imparavano, tutti si interrogavano, tutti credevano che la prospettiva delle loro cabine e cuccette fosse l’unica a restituire la giusta prospettiva delle cose.

 

Ma una notte la festa finì.

 

Dai finestrini videro tutti la stessa immagine: era bianco, grande, abbacinante. Pensarono che il fastoso transatlantico avrebbe retto all’impatto. Ma così non fu. E allora corsero alle scialuppe.  Ma le scialuppe non c’erano perché l’armatore trovava che fossero troppo belle e sontuose per essere tali. Non potendosele permettere le aveva vendute al laghetto del parco di divertimenti, quello profondo un metro.

 

La leggenda narra che forse qualcuno, di terza classe, si salvò. Abituato alla disperazione, agli espedienti,  si sarebbe attaccato a un pezzo di ghiaccio e adesso vivrebbe cacciando foche con un arpione degno del neolitico preceramico.

 

Così si chiude la storia del transatlantico ARCHEOLOGIA naufragato contro l’iceberg della SPENDING REVIEW.

 

Ultim’ora: si attendono ansiosamente notizie circa la navigazione della nave gemella PATRIMONIO ARTISTICO, sembra che anche lei navighi in pessime acque.

 

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Paola Romi, l’autrice di questo post è su Twitter: @OpusPaulicium

 

 

Meet the Editors ovvero mettiamoci la faccia

Oggi professionearcheologo.it, in occasione del primo mese di vita del sito, ci mette la faccia: abbiamo girato un breve video di presentazione delle editors del sito, dei progetti e degli obiettivi che abbiamo.

Ovviamente contiamo fortemente sul vostro senso dell’ironia.

Siamo molto naif, diciamocelo.

Un sogno realizzabile: Riccardo III ci salverà (da leparoleinarcheologia.it)

Di Riccardo III sì è parlato e si continua a parlare. Merito della grande rilevanza della scoperta, ma non solo:

 

 

Non avrei voluto partecipare alle operazioni di scavo archeologico avvenute (o forse sì?) e non avrei voluto essere parte del team di ricerca (o forse sì?). Avrei voluto ideare, progettare e realizzare l’aspetto comunicativo del progetto.

 

La folgorazione l’ho avuta quando davanti ai miei occhi è apparso il piano comunicativo dell’ULAS (University of Leicester Archaeological Services) diventato realtà. Inoltre la suddetta folgorazione è stata, per così dire, ‘progressiva’: ad ogni click e ad ogni scroll mi toccava trattenere un “wow!”.

 

Il sito dedicato (http://www.le.ac.uk/richardiii/) è comune nell’aspetto (layout, se vogliamo usare tecnicismi) ma straordinario nei contenuti.

 

continua.