#OliveOilLands: il racconto dei racconti

Ore 9.15 Laura mi viene a prendere alla stazione. Ecco come inizia la storia del blogtour #oliveoillands: due giorni ad alto contenuto narrativo.

 

Bellezze, eccellenze, bontà, tradizioni e innovazioni che grazie ai modi in cui sono state raccontate hanno trovato la loro vera e reale grandezza.

 

Ma cominciamo dall’inizio.

 

Dovrei descrivervi Simona, che con leggerezza e acume ci ha guidato alla scoperta delle tante Viterbo, da quella etrusca a quella contemporanea, passando per quella medievale.

 

Dovrei provare a ricostruire il complesso racconto sulle tradizioni legate alla spremitura delle olive che ci ha fatto il signor Mario al frantoio Paradosso.

 

 

Dovrei usare le parole per trasportarvi nell’oliveto dove ci ha condotto Andrea o provare a farvi assaporare l’olio, BIO e DOP, che ci ha fatto degustare

 

 

Dovrei illustrarvi il progetto di mappatura del DNA degli olivastri che cercherà di ricostruire il paesaggio agricolo e produttivo della Tuscia romana generosamente condiviso con noi da Vincenzo.

 

Dovrei raccontarvi anche di Francesca, che facendoci passeggiare nella necropoli di Castel D’Asso ha fatto rivivere la Tuscia etrusca.

 

 

Dovrei poi tentare di trasmettere la passione che ci ha comunicato Elisabetta illustrandoci il Museo della città e del territorio di Vetralla da lei fondato, nel 1991, insieme al marito.

 

Infine, dovrei provare a ricordare tutti i gustosi prodotti a Km 0 che ha cucinato per noi Gianluca del ristorante La Piazzetta a Calcata.

 

Bisognerebbe insomma scrivere ben più di un post per raccontare quello che abbiamo fatto in due giorni, ma per quello vi rimando ai tanti tweet che sono stati scritti presa diretta e che ho raccolto in questa tagboard.

 

Quello su cui voglio richiamare la vostra attenzione, qui, è la capacità dei diversi attori di questo blogtour di valorizzare diverse identità ed attività. Come? Diventando tutti parte di un racconto.

 

Non immagini patinate standard, ma odori e sapori forti. Idee ed esperienze a cui è difficile rimanere indifferenti.

 

Risalendo a fatica i ripidi sentieri sopra a Calcata ho capito che la visita che mi era stata offerta era la strada giusta.

 

Verso dove?

 

Verso un futuro in cui di sostenibile non c’é solo l’agricoltura, ma anche il turismo.

 

Verso una valorizzazione di prodotti e di beni culturali che non ha paura di fondere idee innovative e tradizione centenaria.

 

Verso una promozione fatta di facce vere e racconti genuini.

 

Questa è la Tuscia viterbese con i suoi protagonisti: una terra dal sapore forte e piccante che, come il suo superbo olio, lascia in bocca e in testa un buon retrogusto.

 

[Al blogtour Terre dell’olio (12-13 dicembre 2015), contraddistinto online dall’hashtag #oliveoillands e organizzato da PAPER MOON Tour Operator insieme a QUARTO SPAZIO Agenzia di viaggi e Tour operator hanno partecipato Vincenzo Allegrezza, Liliana Comandè, Philiip Curnow, Giuseppina Marcolini Sandra Morlupi (Quarto Spazio), Laura Patara (Paper Moon), Caterina Pisu, Francesca Pontani Paola Romi, Mauro Sciambi, Geraldine Meyer. Le altre persone citate nel post sono Gianluca Aphel, Andrea Degiovanni, Elisabetta De Minicis, Mario Matteucci, Simona Sterpa.]

 

@OpusPaulicium

 

 

Lo storytelling per l’epigrafia: #eaglecontest

In fila al bar, alzo lo sguardo e leggo il menù.

 

Fuori dall’edicola il giornalaio ha appena sistemato il cartellone con i titoli più importanti dei principali quotidiani.

 

Alla fermata dell’autobus è affisso il manifesto per la prossima settimana del fumetto, a breve in città.

 

Uscendo dalla metro prendo il giornaletto gratuito che distribuiscono da qualche mese e quando esco dalla stazione, eccoli, hanno già iniziato ad affiggere i primi manifesti elettorali.

 

Poi lo smartphone vibra. Su Telegram il mio collega mi informa che arriverà in ritardo stamattina, ma mi ha appena mandato una email con tutto quello che devo sapere per continuare a lavorare su quel progetto in corso.

 

La comunicazione, in molteplici forme, è alla base della società umana e in un modo o nell’altro, lo è sempre stata.

 

Quando i nostri nonni e bisnonni partirono per la prima e la seconda guerra mondiale, mandavano lettere alle loro famiglie. Gli emigranti che andavano in America alla ricerca di un mondo migliore, scrivevano a casa che la vita fuori dall’Italia non era facile, ma si lavorava, quindi andava bene così.

 

Che siano lettere o appunti privati o che si tratti di documenti pubblici, come atti della pubblica amministrazione, dichiarazioni, richieste, ma anche manifesti e cartelli, la storia è fatta anche di queste scritture, che raccontano frammenti di vita nella storia più ampia che è quella dell’epoca a cui appartengono.

 

Andando indietro nel tempo queste “storie” diventano sempre meno accessibili a chi non ha gli strumenti adatti a comprenderle: la società che le ha prodotte è molto diversa dalla nostra, i riferimenti culturali sono diversi, il modo di chiamare le città, le cariche pubbliche, i giorni del mese è cambiato. La lingua non è la nostra, in alcuni casi se n’è persino persa memoria e solo fortunati rinvenimenti come la famosa Stele di Rosetta permettono di interpretarla.

 

A leggere e a ricostruire quelle storie, allora, ci pensano gli studiosi.

 

E poi?

 

Beh, e poi quelle storie dovrebbero diventare di tutti.

 

Si parla sempre più spesso di storytelling per l’archeologia o i beni culturali: lo storytelling è né più né meno della capacità di raccontare storie coinvolgendo il pubblico. Lo scopo è trasmettere conoscenza facendo leva sulle sensazioni e le emozioni, sull’empatia più che sul nozionismo ed è uno strumento sempre più utilizzato nelle strategie di promozione di piccoli e grandi musei.

 

Così, per esempio, le iscrizioni rinvenute nel castrum di Vindolanda, nel Nord dell’odierna Inghilterra, poco lontano dal “Vallo di Adriano” non sono solo straordinari documenti storici, ma raccontano la vita di persone come noi, con preoccupazioni in cui ci riconosciamo, reali, persino attuali, come Ottavio che sollecita Candido perché non gli ha ancora pagato la merce acquistata ed è preoccupato perché senza quei soldi l’attività rischia di fallire, o Sulpicia Severa che invita la sorella al suo compleanno e la saluta con affetto, sperando di rivederla presto.

 

E’ possibile allora unire storytelling ed epigrafia? #eaglecontest prova proprio a raggiungere questo obiettivo.

 

Riassumiamo.

 

L’EAGLE, il network Europeana di Epigrafia Greca e Latina è un progetto co-finanziato dalla Commissione Europea per la creazione di un portale che raccolga le iscrizioni del mondo antico, una risorsa fondamentale per chi studia, ma anche per i semplici curiosi. Fa parte di Europeana, una collezione digitale di milioni di reperti e oggetti di musei, biblioteche, archivi e collezioni europee e si propone l’ambizioso obbiettivo di mettere insieme un database di oltre 1 milione e mezzo di iscrizioni provenienti dai 25 paesi dell’EU e dal Mediterraneo.

 

Il database prevede una serie di informazioni minime, una ricerca base e una sezione “Storie” e proprio qui volevamo arrivare.

 

C’è tempo fino al 15 gennaio per scrivere un racconto breve in 2500 parole e partecipare al primo EAGLE Short Story Contest.

 

Come funziona?

 

I racconti devono essere correlati a una (o più) delle iscrizioni presenti in una (o più) delle collezioni EAGLE. I racconti possono essere presentati in inglese o in qualsiasi altra lingua europea; in questo caso, però, devono essere accompagnati da un abstract di 250 parole in inglese. I racconti devono avere un taglio divulgativo e possono essere corredati da musica, video, presentazioni interattive, linked open data. E’ possibile caricare i racconti sulla Storytelling App.

 

[Alcuni esempi di racconti si trovano sul portale EAGLE

 

Cosa c’è in palio?

 

Un voucher Amazon del valore di 200 euro e la partecipazione alla Conferenza EAGLE 2016. Inoltre il racconto vincitore sarà pubblicato sul portale EAGLE.

 

Che dite, vi va di provarci? 🙂

 

@domenica_pate 

@antoniafalcone

 

 

Carica dei #500funzionari al MiBACT

La carica dei #500funzionari: alcune domande

L’abbiamo detto tante volte: diventare archeologi presuppone un lungo percorso formativo.

 

Si parte con la laurea triennale (anni 3), si procede con la magistrale (anni 2). Poi si approda alla specializzazione (anni 2). Per i più temerari si apre il percorso da dottorandi (altri 3 anni) coronato dal post-doc se si vuole intraprendere la carriera da ricercatori.

 

A questi titoli si affianca l’esperienza pratica, sul campo o in laboratorio, che affina le conoscenze e le arricchisce, e spesso quando si lavora in quella che viene chiamata “archeologia preventiva” sui cantieri delle grandi opere, dei lavori pubblici, si connota come vero e proprio lavoro in trincea.

 

Un percorso lungo, dispendioso e non facile, che comporta molta fatica e sacrifici.

 

Se guardiamo però alle condizioni di lavoro di molti archeologi, alla media dei loro guadagni annui o all’alto tasso di abbandono della professione, il dubbio viene: a cosa serve collezionare titoli come punti del supermercato? A sentirsi più preparati? Certo, ma forse anche a prendere tempo visto che le opportunità di lavoro sono sempre più scarse. Serve a seguire la propria vocazione da ricercatori? Anche quello, eppure la strada della ricerca non è certo più semplice di quella dell’archeologia commerciale.

 

In molti casi poi non si tratta di una scelta: per esempio la V.I.Arch può essere redatta solo da archeologi in possesso di diploma di specializzazione o dottorato. Non è un dato da sottovalutare, perché tanti archeologi, per esempio, si iscrivono alle certo non economiche scuole di specializzazione proprio per questo motivo, e per avere qualche possibilità in più nell’eventualità di concorsi pubblici.

 

Appunto, concorsi pubblici.

 

È passato oltre un mese dall’annuncio di 500 future nuove assunzioni al MiBACT in pianta stabile.

 

Constatato il fatto che “500… qualcosa” is the new black al Collegio Romano, avevamo tutti archiviato la notizia tra i buoni propositi per il 2016.

 

Un generale plauso all’iniziativa è stato seguito da dubbi e molte domande, in particolare sulla natura dei profili che saranno richiesti per certe figure. Per esempio, ottima la novità del profilo comunicazione, cosa di cui i nostri beni culturali hanno assolutamente bisogno, ma non è ancora chiaro quali saranno i requisiti dei potenziali candidati.

 

Secondo le prime indiscrezioni il profilo richiesto potrebbe essere quello di laureati in economia e scienze della comunicazione o affini, e qui sarà la nostra attività di archeoblogger, ma ci sembra quanto meno un’occasione mancata quella di non includere gli addetti al lavoro, archeologi, storici dell’arte e via dicendo, dal momento che si tratta oggi di figure sfaccettate e dalle molteplici competenze, non ultima quella appunto di comunicatori e divulgatori.

 

Nel dubbio, l’unica è attendere il bando, abbiamo pensato.

 

Beh, il bando non è ancora uscito, ma nel frattempo c’è stata un’importante novità: lo scorso lunedì è stato approvato in Commissione Bilancio al Senato un emendamento che permetterà l’accesso al concorso per funzionario anche a chi è in possesso di semplice laurea triennale in beni culturali (classe L-01).

 

Lo ammettiamo, siamo perplesse. E a quanto pare non siamo le uniche.

 

In questi ultimi giorni ci sono state diverse prese di posizione negative sulla questione, dalla decisa opposizione del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, presieduto da Giuliano Volpe, al comunicato del Coordinamento Archeologi che riunisce le principali associazioni di categoria ed esprime “ferma contrarietà”. Si sono opposti anche gli storici dell’arte e le guide turistiche di Roma, l’ADI, l’associazione dei dottorandi e dottori di ricerca e la Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’arte.

 

Non sono mancate le polemiche, ma al di là della differenza di opinioni il dubbio rimane.

 

È giusto abbassare i requisiti di accesso sinora richiesti per la qualifica di funzionario?

 

Perché alla fine di questo si tratta.

 

Aspettiamo il bando per fare tutte le valutazioni del caso, ma se il concorso prevederà, com’è probabile, anche una valutazione dei candidati per titoli, quante chance avranno i giovani triennalisti nei confronti di persone molto più titolate?

 

In attesa di leggere il bando e avere qualche risposta, abbiamo voluto coinvolgere nel dibattito la nostra community e martedì scorso abbiamo lanciato su Twitter un sondaggio.

 

Non si tratta, ovviamente, di un dato statistico, ma ci sembra interessante e utile a capire l’umore che l’emendamento ha suscitato tra gli addetti ai lavori e chi studia per diventarlo.

 

 

 

 

 

 

E voi, cosa ne pensate?

 

È giusto aprire anche a chi è in possesso della sola laurea triennale la possibilità di concorrere di diventare funzionario del MiBACT oppure le responsabilità previste richiedono qualifiche più alte? Sono sufficienti solo i titoli oppure l’esperienza sul campo dovrebbe avere maggior peso, e in tal caso, che tipo di esperienza?

 

Insomma, vogliamo sapere come la pensate, quindi sotto coi commenti!

 

@antoniafalcone

@domenica_pate

@OpusPaulicium

 

 

 

Archeologhe in shorts e con pistola: parliamone (vedi alla voce stereotipi)

Oggi parliamo di stereotipi e in particolare di stereotipi femminili legati al mondo dell’archeologia.

Lo spunto per questo post viene da una notazione fatta dall’archeologa e ricercatrice Giulia Facchin sul gruppo Facebook #archeognock (questi i link ai suoi guest post scritti per Professione Archeologo).

Ok, immaginiamo già le facce a punto interrogativo quindi prima di andare avanti rispondiamo alla domana: cos’è #archeognock? È la community delle donne del mondo dei beni culturali, un gruppo (chiuso) nato lo scorso settembre da un’idea di Domenica Pate e che ha lo scopo di condividere idee, spunti e fare rete, in tutto in un clima da aperitivo con le amiche. Vi abbiamo fatto venire voglia di iscrivervi? Bene. Potete farlo qui.

Facciamo un passo indietro allora. Dicevamo, stereotipi.

Immaginate la protagonista della nostra storia, Giulia, che in una serata come tante si siede sul suo divano con in mano una tazza di tè caldo e si appresta a godersi un po’ di relax davanti alla TV, dopo l’ennesima giornata in cantere tra operai, caffè e 50 sfumature di terra.

Stasera in programma, l’ultimo episodio andato in onda di Castle, il poliziesco americano in cui il lui della coppia è un celebre (e un po’ eccentrico, ma nel senso buono) scrittore. C’è l’omicidio, inizia l’indagine, tutto normale, finché  i due detective della Omicidi visionano lo spezzone di un vecchio film di azione, una cosa alla Arma Letale, se vogliamo.

La scena è piena di suspance. Il cattivo del film ha rapito una giovane archeologa per… boh, non lo sappiamo bene il motivo, ma quello che colpisce Giulia (e quindi poi anche noi che ci siamo andate a guardare la scena) è come diavolo era conciata quest’archeologa: rossa di capelli, in shorts che più short non si può, e top aderente, con una piega talmente ben fatta che altro che appena uscita dal parrucchiere e trucco, ovviamente, perfetto. Ah, aveva anche la frusta attaccata alla cintura. Infine, particolare da non sottovalutare, bella, così bella che i due detective di Castle… non credono che sia un’archeologa!

“Non è per niente credibile” esclamano, con tono che lascia intendere che, ragazzi, non scherziamo, mica sono così belle le archeologhe!

Vabbè, dopo esserci fatte una risata dell’insolenza dei due detective, sorgono delle domande:  per essere prese sul serio come archeologhe bisogna essere brutte o quantomeno socialmente improponibili? E in modo antitetico perchè invece lo stereotipo dell’archeologa bella e svestita (o vestita con abitini aderenti) è duro a morire?

A Lara Croft hanno dedicato una serie di film al cinema, mentre pochi anni fa c’era una serie TV dedicata ad un personaggio femminile che era una sorta di incrocio tra Lara Croft e Indiana Jones.

Se torniamo alla televisione italiana c’è un altro esempio che negli ultimi anni è stato più volte segnalato: la puntata della serie dedicata all’Ispettore Coliandro di RaiDue, bello e canaglia che va in giro per Roma credendo di essere Callaghan. In una puntata si imbatte in una escort dai gusti raffinati, nel senso che tra i suoi DVD annovera addirittura Fellini, Kurosawa e Antonioni. Il mistero è presto svelato: la ragazza disillusa, appassionata di cinema d’autore, è un’archeologa che per tirare a campare, ha abbracciato la professione di peripatetica al grido di “Hai idea di quanto prende un’archeologa se lavora?”

E non è mica finita qui!

Per passare dal piccolo al grande schermo, Anna Marras ci informa che nel film La fame e la sete di Antonio Albanese, alla ragazza che studia archeologia il protagonista Ivo, industriale emigrato al Nord, risponde “Archeologia? Bella prospettiva rompere i coglioni ai morti!”

E lascia stare che non tutti gli archeologi “scavano i morti”, ma almeno non si parla di fossili, ed è già un passo avanti, rispetto, per esempio, al recente Blue Jasmine, di Woody Allen in cui la protagonista, interpretata da Cate Blanchett, riflette sul suo futuro. Tra le varie opzioni c’è quella di tornare all’università, perché si è sempre pentita di non aver preso la laurea.

 

“Che dovevi diventare?” le chiedono.

“Antropologa” risponde.
“Tipo scavare vecchi fossili?”
“Quella è un’archeologa” risponde lei lapidaria.

 

Ok, forse a ben pensarci, tornare all’università non è una cattiva idea (grazie a Daniela Costanzo per la segnalazione!).

Allora, ricapitoliamo brevemente. Nella narrazione cinematografica/televisiva che abbiamo esaminato la figura dell’archeologa è sostanzialmente ascrivibile ai seguenti modelli:

1. Bella, con corpo da maggiorata e possibilmente con una pistola alla cintola (o frusta, è uguale)

2. Poveraccia che per campare fa la passeggiatrice, ma d’alto bordo. Che non si dica che una laurea non serve eh.
3. Una che scava, non si sa bene cosa, se morti, dinosauri o l’orto per piantare le zucchine.

Ragazze, stiamo messe male.

Soprattutto quando poi entri in un museo e l’”archeologo” è rappresentato così:

 

 

Per fortuna che a rompere gli stereotipi non ci sono solo le ragazze di #archeognock (che sono talmente cool da avere anche un’archeostickers tutta per loro), ma anche iniziative estemporanee che prendono vita sui social media e poi diventano virali, come #inmyshoes, nato dalla lettera di una bambina britannica di otto anni che si è lamentata con un’azienda produttrice di scarpe che non faceva scarpe per bambine con i dinosauri (perché, a loro dire, alle bambine dinosauri e fossili non interessano).

Andate a scorrervi l’hashtag su Twitter, e magari date anche un’occhiata anche a #girlswithtoys, la risposta ad un’infelice battuta di un professore di scienza: troverete tante foto di archeologhe in cantiere, geologhe al lavoro sul campo, ma anche scienziate di tutti i tipi, che indossano scarpe da lavoro o da ginnastica o ballerine o scarpe col tacco perché magari, quel giorno, sono in ufficio e gira così.

L’archeologia, così come tutte le professioni legate al mondo della conoscenza, della ricerca, della cultura, è fatta di donne diverse tra loro, acomunate dalla passione e dal duro lavoro. E questo da sempre, come dimostra lo splendido lavoro portato avanti dal gruppo Trowelblazers, “women in archaeology, geology, and palaeontology”, che racconta il contributo che le donne hanno apportato a queste discipline fin dalla loro nascita, anche se poi pochi lo sanno.

Gli stereotipi, insomma, talvolta da ridere, ma troppo spesso ancora sessisti, reiterati e francamente vecchi, ci stanno davvero tanto tanto stretti.

Ma li smonteremo, uno ad uno, tra un tweet e un post di Facebooke soprattutto con tanta ironia.

 

@antoniafalcone

@domenica_pate

 

 

#BMTAsocial: la social crew a Paestum

Inizia oggi la XVIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, l’importante appuntamento annuale per tutti gli operatori del settore che ormai da alcuni anni da ampio spazio anche alle più interessanti novità in termini di innovazione tecnologica e sociale con un occhio di riguardo ai temi della comunicazione.

 

Tanti gli appuntamenti da non perdere nel ricco programma dall’incontro con i quattro nuovi direttori dei grandi musei statali del Sud che si sta svolgendo proprio in queste ore, ad archeostartup, momento dedicato all’archeologia che diventa impresa, coniugando conoscenza del passato e sviluppo economico che guarda al futuro. Non mancheranno gli appuntamenti con i grandi divulgatori, scrittori e personaggi televisivi, come l’ormai immancabile Alberto Angela.

 

Una bella novità di quest’anno è che l’organizzazione ha deciso di invitare alcuni archeoblogger influencer italiani a seguire l’evento facendo quello che meglio sanno fare, comunicare e far parlare dell’evento in rete.

 

Non poteva mancare la crew di Professione Archeologo e vista l’occasione speciale,  abbiamo deciso di schierare l’intera squadra: domenica (@domenica_pate) si è messa in viaggio stamattina di buonora ed è già sul posto, Paola Romi (@OpusPaulicium) arriverà domani e Antonia Falcone (@antoniafalcone) raggiungerà il resto della PA crew sabato.

Con Astrid D’Eredità (@astridrome) di Archeopop ci siamo inventate un hashtag secondario da affiancare a quello ufficiale della Borsa, #BMTAsocial per segnalare gli appuntamenti ed attività a cui prenderemo parte e che vi racconteremo a colpi di tweet, instagram e brevi video.

 

Seguite #BMTAsocial e #BMTA2015 per update dagli incontri, foto dagli stand, dal parco archeologico e dal bellissimo museo archeologico di Paestum.

 

Se siete alla Borsa, non esitate a scriverci sui social così ci conosciamo di persona e se avete domande o curiosità mandateci un tweet e vi risponderemo in tempo reale.

 

Allora, ricapitoliamo, gli hashtag da seguire sono #BMTA2015 e #BMTAsocial, gli account da tenere d’occhio, oltre ai nostri twitter personali, sono @pr_archeologo e la nostra pagina facebook.

 

Stay connected!

@domenica_pate

 

[Ph. credit: Davide Arnesano]

#Interfacce: il tuo voto per l’archeologia che funziona

Chi l’ha detto che archeologia non fa rima con innovazione?

 

Va bene, non fa rima, ma troppo spesso l’idea della polvere che ricopre cocci e muri si riflette anche nell’immaginario comune di una comunità di studiosi chiusi negli scantinati e in biblioteche semideserte.

 

Ora, non vogliamo spingerci a dire che in molti casi la realtà non sia questa, ma ci sono alcune avanguardie che per fortuna punteggiano il panorama dell’archeologia in Italia e delle quali ci piace parlare sulle pagine del nostro blog.

 

Tra queste realtà che puntano sull’innovazione progettuale e gestionale oggi abbiamo scelto di raccontarvi l’avventura di Uomini e Cose a Vignale, chiedendovi anche un piccolo aiuto.

 

“Uomini e cose a Vignale è un progetto per la conoscenza e la valorizzazione del sito archeologico del Vignale di Piombino (LI) e del suo territorio”, si legge sul loro sito internet.

 

Quello che ci piace di questo progetto è che da sempre ha puntato a costruire un rapporto forte con la comunità locale, coinvolgendo le scuole e la popolazione in numerose occasioni, aprendo le porte agli scavi e raccontando la ricerca passo dopo passo. Uomini e Cose a Vignale ha anche un altro primato, è tra i più “antichi” e longevi blog di archeologia in Italia, con il primo post datato al 2008!

 

Archeologia pubblica nel senso migliore del termine, dunque.

 

Ma comunicare e coinvolgere non basta: se l’archeologia non diventa parte integrante di un sistema, non sarà mai sostenibile. È per questo che nasce Interfacce, uno dei 40 progetti selezionati dal bando CheFare3, e che mira a “costruire un modello sperimentale di gestione sostenibile del patrimonio paesaggistico e culturale di un microterritorio”. I nostri prodi archeologi hanno superato la prima selezione e ora serve premere sull’acceleratore per il rush finale.

 

In cosa consiste Interfacce?

 

L’idea è di costruire una rete tra operatori del settore e pubblici diversificati partendo dai cittadini che condividono con gli archeologi i luoghi e la storia di Vignale, luoghi e storia che prima di loro sono appartenuti alle comunità che nel sito toscano hanno vissuto e lasciato le loro tracce, proprio quelle che gli archeologi recuperano, studiano e interpretano.

 

È proprio questo punto di contatto, questo interesse comune a dare il nome al progetto: in archeologia, infatti, l’interfaccia è la superficie di separazione/contatto tra due strati archeologici diversi.

 

L’archeologia, in questo caso, vuole valorizzare le “superfici” di contatto tra uomini del presente e del passato, essere un connettore di epoche diverse, che è quello che dovrebbe in fondo essere sempre.

 

Abbiamo proposto a Elisabetta Giorgi, uno dei coordinatori del progetto, un gioco: definire in 30 parole i concetti chiave del progetto, archeologia, pubblico e comunicazione.

 

1 – Archeologia: un mezzo di comunicazione con il passato, una chiave di lettura del presente e un modo per progettare il futuro, toccando con mano le tante storie che ci sono dietro (e dentro) di ciascuno di noi.

 

2 – Pubblico: tutti gli occhi, le orecchie, il cuore e la testa con i quali dobbiamo confrontarci e verso i quali abbiamo un’enorme responsabilità: restituire il loro passato.

 

3 – Comunicazione: sperimentare modi e strumenti per arrivare a guardare negli occhi, uno per uno, i nostri interlocutori e prenderli per mano per costruire insieme un’emozione e un’avventura intellettuale indimenticabile.

 

Che dite, la diamo una mano a questi archeologi innovatori e coraggiosi?

 

Seguite questo link, registratevi e votate.

 

E infine, fate un ultimo sforzo: condividete questo post o giratelo ai vostri amici.

 

Abbiamo strappato una promessa ad Elisabetta e al suo team: se superiamo la soglia di 100 voti entro la fine della settimana arriverà un ringraziamento per i lettori di Professione Archeologo con un video o un’immagine.

 

Non fateci fare brutta figura, eh!

 

@antoniafalcone

@domenica_pate

 

 

Venere Medici alla Galleria degli Uffizi #uffiziarcheologia

#UffiziArcheologia. Diventare trending topic con la cultura si può

Andare agli Uffizi come archeoblogger per scoprire la collezione di antichità della più importante galleria d’arte rinascimentale del nostro Paese si può fare.

 

Anzi l’abbiamo fatto.

 

Il 21 settembre.

 

E visto che siamo nel 2015, cioè nel futuro se diamo retta a Doc e Marty (e chi siamo noi per smentirli?), gli archeoblogger agli Uffizi sono entrati armati di smartphone e fotocamere.

 

Gli altri colleghi archeoblogger hanno già dedicato diversi post alla giornata del 21 settembre, vi invitiamo quindi a dare un’occhiata ai loro blog per avere una panoramica di quello che abbiamo visto e della storia che si cela dietro le opere scultoree della Galleria (Generazione di Archeologi, Archeokids, Memorie dal Mediterraneo). In questo post invece vorrei soffermarmi sulle ragioni che ci sono dietro un archeoblogtour, ed è importante farlo in questa occasione dal momento che #uffiziarcheologia è diventato trending topic in Italia (arrivate alla fine del post per sapere cosa significa, se già non lo sapete :D)

 

Capita spesso che ci chiedano qual è la finalità di un archeoblogtour e di un update continuo sui social del percorso di visita dei blogger.

 

A cosa serve fare un livetwitting, caricare foto su Facebook o Instagram e creare bacheche di immagini su Pinterest?

 

Parafrasando: perché lo fate?

 

E qui voglio elencarvi almeno tre obiettivi che ci prefiggiamo di raggiungere ogni volta che ci parte un tweet dal cellulare.

 

Primo obiettivo: far partecipe la community che ci segue online.

 

Raccontare cioè luoghi che magari sono meno noti e che ci piace scoprire insieme. Nel caso degli Uffizi non tutti sanno infatti che la collezione d’arte antica è stata la prima ad essere ospitata nella Galleria e che quindi si deve alla passione antiquaria dei Medici se oggi Firenze possiede uno dei musei più visitati in Italia. Condividere notizie, informazioni, fotografie online aiuta ad avvicinarsi senza timore reverenziale ad argomenti impegnativi come il collezionismo o la storia dei restauri rinascimentali.

 

 

Secondo obiettivo: interagire con la community. Stimolare la curiosità di chi magari scorre in quel momento la timeline di Twitter e ha da sempre avuto voglia di fare proprio quella domanda. Ecco, noi rispondiamo in tempo reale, oppure vi facciamo quiz facili facili.

 

 

Terzo obiettivo: far parlare di cultura anche i social e provare a portare tra i Trending Topic temi culturali.

 

Un trending topic è un argomento di tendenza su Twitter. Generalmente contrassegnato da un cancelletto (hashtag), si tratta di una parola che viene utilizzata dalla community per parlare di un determinato argomento e che ad un certo punto risulta tra le più usate, diventando trending topic, appunto, argomento “di tendenza”.
Il 21 settembre #uffiziarcheologia è diventato trending topic, in altre parole su Twitter quella mattina, tra gli argomenti di cui si parlava di più, c’è stato anche il blogtour organizzato nella Galleria.

 

 

Il risultato raggiunto non sarebbe stato possibile senza la sinergia di tanti soggetti che hanno creduto fermamente e portato avanti questo progetto: in primis Fabrizio Paolucci e Cristiana Barandoni di Gold Unveiled, Dipartimento di Antichità Classiche della Galleria degli Uffizi di Firenze; poi il gruppo di blogger che ha visitato la Galleria (Astrid D’Eredità per Archeopop; Francesco Ripanti per Archeokids, Stefania Berutti per Memorie dal Mediterraneo, Marina Lo Blundo per Generazione di Archeologi) e infine tutti gli amici che ci seguono con curiosità e costanza sui canali social: cercate #uffiziarcheologia su Twitter e troverete i nomi di chi con un retweet e una stellina ha reso la cultura di tendenza durante quel meraviglioso 21 settembre.

 

@antoniafalcone

 

 

 

 

Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto

Tra archeologia e contemporaneità: la XXVI Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto

Si è conclusa lo scorso sabato 10 ottobre la XXVI Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto che quest’anno ha visto protagonisti, tra gli altri, un gruppo di intrepidi archeoblogger, chiamati ad assegnare una menzione speciale ad uno dei film in concorso per la XII edizione del premio Paolo Orsi.

 

Le blogger di Professione Archeologo hanno avuto l’onore di far parte di questa giuria e la nostra Antonia Falcone ha viaggiato alla volta di Rovereto per essere presente alla premiazione finale ed assegnare personalmente la menzione speciale (e sì, ha proprio detto “And the winner is…”).

 

La scelta di includere una giuria fatta di archeologi che più o meno quotidianamente si occupano di comunicazione ci è piaciuta fin da subito e ci è sembrato un segno importante.

 

“Una manifestazione di ampio respiro come la Rassegna non può non comprendere che in questi ultimi anni è cambiato il modo di comunicare e di vivere l’archeologia,” ci ha confermato Valentina Poli, della Fondazione Museo Civico di Rovereto, che in queste settimane ha seguito i lavori della giuria degli archeoblogger. “In questi anni il mondo dei blog e dei social media si è affiancato al modello tradizionale della comunicazione culturale riuscendo a coinvolgere, in maniera entusiasmante e meno formale, un pubblico vasto ed appassionato. Quest’anno ci è sembrato il momento opportuno per contattarvi e proporvi di partecipare per assegnare una menzione speciale al film che maggiormente si presta alla fruizione e alla divulgazione. E non possiamo che essere soddisfatti visto l’entusiasmo con cui avete accettato il compito di giurati!”

 

E non poteva essere altrimenti, visto che, per dirla con le parole di Marina Lo Blundo, il dovere di giurati ci ha permesso di fare il giro del mondo direttamente dal divano di casa, alla scoperta di angoli di mondo vicini e lontani.

 

La Rassegna è ormai finita e sabato sera sono stati annunciati i vincitori, ma l’edizione di quest’anno è stata anche segnata dalla forte rivendicazione, da parte degli organizzatori, dell’unicità dell’evento di Rovereto, un festival di riconosciuto prestigio internazionale, che però non ha sempre avuto il supporto che si merita , nonostante quest’anno siano anche arrivati gli auguri del Presidente della Repubblica Mattarella a pochi giorni dall’inizio.

 

“Esistono nel mondo, in Europa e Stati Uniti, altri 8 o 9 festival di cinema dedicato all’archeologia o al patrimonio culturale,” ci ha detto Dario di Blasi, Conservatore Onorario del Museo Civico di Rovereto e Direttore della Rassegna, che ha gentilmente risposto ad alcune nostre domande. “Alcuni sono ai limiti della sopravvivenza, altri hanno limitato la raccolta e selezione di film alle versioni linguistiche del territorio, inglese o francese per ridurre i costi delle traduzioni e doppiaggi. Questo è avvenuto sicuramente per effetto della crisi economica e sociale, ma anche e soprattutto perché la classe politica e dirigente, sia pure con atteggiamenti diversi, ritiene che l’investimento in cultura sia residuale rispetto all’economia ed anche purtroppo alla guerra.”

 

Il tema degli investimenti seri nel campo culturale ritorna quindi prepotentemente anche nel caso di un evento così importante come la Rassegna di Rovereto. Quando gli chiediamo come immagina il futuro della manifestazione, il Direttore Di Blasi risponde:

 

Crediamo che la cultura sia una virtù che permette agli uomini di sopravvivere perché si relazionano tra di loro e con il territorio attraverso le proprie qualità più alte, come l’ingegno, la solidarietà, la fame di conoscenza, così come permette loro di mettersi in relazione con le divinità attraverso il culto.
Come festival cercheremo di resistere e ampliare la nostra caratteristica più importante e cioè rappresentare la ricerca archeologica e storica di tutto il mondo attraverso le varie lingue e linguaggi della cinematografia per mettere in relazione il Mondo Antico con il pubblico più vasto possibile e far sì che acquisti chiara coscienza del proprio passato e contribuisca a costruire un avvenire migliore.

 

Alla luce delle recenti distruzioni del patrimonio archeologico in Siria e della morte dell’archeologo Khaled-al Assad, ucciso dall’ISIS lo scorso agosto e al quale la Rassegna ha deciso di rendere omaggio, ci sembra che questa dichiarazione di intenti sia decisamente importante e degna di nota.

 

@domenica_pate

[Credit immagine: Astrid D’Eredità]

 

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Ps.

 

A chi abbiamo assegnato la menzione speciale? Al film che ci è sembrato meglio incarnasse la divulgazione e la comunicazione del patrimonio culturale come lo intendiamo noi: Tà gynaikeia. Cose di donne, regia di Lorenzo Daniele, con la consulenza scientifica di Alessandra Cilio, Fine Art Produzioni Srl.
Questa la nostra motivazione:

 

Dal passato prossimo al passato remoto. Un viaggio al contrario che guarda a tutto tondo al mondo femminile. Per noi questo è Cose di Donne. Ci è piaciuto il suo sguardo innovativo sul passato, che percepisce la storia come patrimonio condiviso. I ricordi personali delle protagoniste rischiarano di una luce contemporanea, forte e capace di suscitare grande empatia, le testimonianze dei resti archeologici che si scrollano di dosso la loro polvere secolare e divengono vivi e attuali, comprensibili, segni tangibili di vite reali. Il documentario diventa così una storia corale, di ricerca e sacrificio, una continua domanda di senso, una riflessione aperta sulla donna di ieri e di oggi. Lo abbiamo molto amato: come archeologi e comunicatori crediamo che Cose di Donne rappresenti bene il senso di fare ricerca archeologica oggi ed incarni perfettamente le ragioni per cui la conservazione e la tutela del nostro patrimonio culturale sono di fondamentale importanza per la definizione stessa della nostra identità di cittadini e di società.

 

 

 

 

 

EAAGla, European association of archaeologists XXI annual meeting, Glasgow

Dalla Scozia con furore: cosa porto a casa da #EAAGla

Due settimane fa a quest’ora ero seduta in fondo ad un Lecture Theatre di uno dei moderni edifici della parte nuova dell’Università di Glasgow e ascoltavo la professoressa Anita Synnestvedt, dell’Università di Gothenburgh, leggere ad alta voce il contenuto di alcuni post-it. Li aveva fatti circolare poco prima in platea e tutti i partecipanti vi avevano scritto la loro risposta alla domanda “cosa c’è nella tua personale valigia del ‘patrimonio’?”.

 

Si parlava di insegnamento ed archeologia in una sessione sulla sostenibilità della nostra disciplina, intesa non solo e non tanto come sostenibilità economica, ma soprattutto sociale. Se c’è infatti una cosa da cui l’archeologia non può prescindere è il suo essere sociale, pubblica, e quindi rilevante per il mondo odierno.

 

Questa è una delle due più grandi lezioni (o meglio, reminders) che mi porto dietro da Glasgow, dove per Professione Archeologo ho partecipato al XXI incontro annuale dell’Associazione Europea degli Archeologi, hashtag ufficiale #EAAGla: qualcosa come 2.500 archeologi da tutto il mondo, sette temi e oltre 180 tra sessioni, tavole rotonde e workshop per confrontarsi sull’archeologia contemporanea.

 

Il secondo reminder che porto a casa con me è che, se esistono tante archeologie e molteplici modi di fare archeologia, è vero però che alla fine facciamo tutti lo stesso bellissimo lavoro, pur in contesti e a latitutini diverse.
Questa sensazione mi ha accompagnata per tutta la durata della conferenza, il primo evento di questa portata a cui ho partecipato.

 

Nell’ordine ho: rivisto vecchi amici, incontrato per la prima volta persone che conoscevo solo virtualmente su Twitter o Facebook e ascoltato tante storie di archeologi, dai loro paper all’interno di una sessione alle chiacchiere davanti a un poster o ad uno stand espositivo (grazie, a proposito, ai ragazzi di San Quirico Archeologia, unici espositori italiani alla conferenza, che è stato un piacere incontrare dal vivo).

 

Non sono mancate le cene in compagnia (sennò che archeologi saremmo?), come quella in un locale con una collezione di videogiochi anni ’90 (non giocavo a Mortal Combat da quando avevo 16 anni! Ho perso, ma mi son battuta con onore).

 

Tanti sono stati gli archeologi conosciuti per caso, ‘pescati’ qua e là negli spazi comuni mentre davo una mano Tristin Boyle, dell’Archaeology Podcast Network, e Lisa Catto che stavano realizzando delle interviste per documentare la conferenza – eh sì,dopo essere stata io stessa pizzicata per una breve intervista, ho finito per essere coinvolta.

 

L’archeologia come realtà multiforme e sfaccettata viene fuori prepotentemente in eventi come questo. E ogni nuovo progetto, scavo, ricerca che un archeologo racconta mi ricorda improvvisamente che l’archeologia non è solo un lavoro (bè, quello che a volte è un lavoro, di archeologi che si arrangiano facendo altro nella vita ce ne sono fin troppi), ma è anche entusiasmo e voglia di mettersi in gioco, è conoscere il passato per vivere il presente mentre si costruisce il futuro.

 

È anche per portare quest’entusiasmo fuori dalla sola cerchia di archeologi che scrivo su questo blog.

 

Ed è proprio il lavoro che con la PA crew facciamo quotidianamente sulle pagine e sui canali social di Professione Archeologo che mi ha fatto volare a Glasgow.

 

It belongs on the internet – Communicating Archaeology Online, è il titolo della sessione cui ho preso parte. La sessione è stata una piccola rivelazione per tanti motivi e non solo perché era l’unica ad avere free cake su uno dei tavoli all’ingresso.

 

Partito con un’introduzione dell’organizzatore Tristin Boyle che ha proposto un mashup di vecchi promo degli albori di internet e foto di Indiana Jones (c’era modo migliore di cominciare?), il pomeriggio è proseguito con una serie di esempi di comunicazione e promozione del patrimonio archeologico da tutta Europa, più o meno riusciti, talvolta involontari o inaspettati, come nello strano caso del cono stradale sulla statua equestre del duca di Wellington.

 

Promozione e valorizzazione che hanno trovato nel web uno strumento prorompente e irrinunciabile (qui potete leggere alcuni tweet dei partecipanti e dell’efficiente social media team della conferenza).

 

Digital Public Archaeology in Italy: what is changing and why it is important, era il titolo dell’intervento di Professione Archeologo.

 

Abbiamo ripercorso a grandi linee lo sviluppo della comunicazione online dell’archeologia in Italia negli ultimi due anni, a partire da un ottimo articolo di Marina Lo Blundo di inizio 2013, e selezionando i passaggi chiave di un percorso complesso, in continua evoluzione, fatto di tante piccole storie e di tanti protagonisti.

 

Stiamo lavorando alla realizzazione dell’articolo da pubblicare il prima possibile in modalità open, ma nel frattempo trovate su slideshare il PowerPoint dell’intervento, mentre cliccando sulla foto qui sotto accederete all’album Flickr in cui sono raccolte alcune delle fotografie fatte durante la conferenza.

 

XXI incontro annuale EAA

Professione Archeologo al XXI Incontro Annuale dell'European Association of Archaeologists, Glasgow 2015

 

@domenica_pate

 

Jack e Matrix: l’archeologia a fumetti

Ci interroghiamo spesso, sulle pagine di questo blog, su come l’archeologia possa essere comunicata ad un pubblico diversificato, dagli addetti ai lavori, agli appassionati, ai bambini, agli studenti di vario ordine e grado, agli archeologi alle prime armi.

 

L’archeologia che è varia e variegata, che ha tante sfaccettature e tante domande: ma gli archeologi scavano solo con pennelli e pennellini (I whish)? Cos’è una trowel? E perché c’è sempre (ok, non proprio sempre, ma spesso) un archeologo bardato di giubbotto catarifrangente, piantato come una statua di sale, a bordo di molte trincee stradali? Ma anche: l’archeologia è cambiata nel corso del tempo? E com’era tra le due guerre mondiali? Chi erano gli archeologi della fine dell’Ottocento e chi sono gli archeologi di oggi?

 

Di volta in volta, abbiamo provato a raccontarvi come si volge una giornata in cantiere, quali sono le problematiche più sentite da parte della categoria o a seguire quei movimenti più innovativi che segnano il percorso dell’archeologia e degli archeologi oggi.

 

Oggi vi proponiamo un’altra storia di comunicazione atipica, diversa da quella che siamo abituati a vedere e che si rivolge ai ragazzi, a quelli che Archeologo = Indiana Jones.

 

Ed è proprio da Indiana Jones che il primo numero dei fumetti di “Jack e Matrix Archeologi” prende il via.

 

Jack è un archeologo con al seguito il fedelissimo cane Matrix. La loro mission impossible? Spiegare al giovane e discolo Sam qual è, appunto, il vero mestiere dell’archeologo.

 

Per farlo Jack gli spiega quali siano gli strumenti che si usano in cantiere o perché è importante scattare fotografie nel corso dello scavo, ma gli insegna anche parole “difficili” come catalogazione e perché una pratica “noiosa” è però essenziale. All’incredulo Sam, per il quale l’archeologia non è altro che avventura, scorpioni e mummie, Jack mostra che oltre alla gioia della scoperta ci sono anche il rigore e l’organizzazione del cantiere e degli studi, e lo fa portandolo in giro a scoprire i siti archeologici e i musei del Friuli e del Veneto.

 

Jack e Matrix, fumetto di archeologia

 

A poco a poco, tra un’esclamazione stupita ed una domanda curiosa, tra uno scherzo e una risata, la storia prende vita dalle parole di Jack e degli altri archeologi che lui e Sam incontrano, si materializza davanti ai nostri occhi, diventa reale quanto gli oggetti che ne sono rimasti come testimonianza.

 

Jack e Matrix, fumetto di archeologia

 

Quello che ci è piaciuto di Jack e Matrix è che lo stile leggero del racconto insegna però tante “cose” serie, puntando sulla naturale curiosità dei ragazzi, quella propensione che hanno a stupirsi quando le cose non sono proprio come se le immaginavano, ma sono comunque interessanti, appassionanti, nuove e quindi elettrizzanti. Alla storia, si aggiunge anche un elemento di giallo, con un misterioso personaggio dai lunghi capelli chiari e non proprio abile nei travestimenti, che commette un brutto reato nei confronti del nostro patrimonio culturale, lasciando tristezza e sgomento, in Jack che commenta “il passato e la memoria appartengono a tutti e nessuno dovrebbe portarceli via.”

 

Come non essere d’accordo?

 

“Jack e Matrix Archeologi” è un progetto dell’Associazione Ikarus, pubblicato da Safarà Editore. Soggetto e testi di Mirko Furlanetto, Chiara Goi e Laura De Stefani. I fumetti vengono illustrati da Laura De Stefani (Accademia del Fumetto di Trieste) e Teresa Pitton.

 

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@antoniafalcone

@domenica_pate

@OpusPaulicium

[photos credit: Domenica Pate]